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IN 3IEM0RIA
NAPOLEONE CAIX e UGO ANGELO CANELLO.
MISCELLANEA
FILOLOGIA E LINGUISTICA
G. I. Ascoli — C. Avolio — L. Biadene — J. Cornu — V. Crescini
A. D'Ancona — F. D'Ovidio — G. Fi.echia — F. Ct. Fumi — G. B. Gandino
A. Gaspary — M. Gaster — G. Gròber — J. Leite Dk Vasconceli.os — P. Merlo — G. Meyek
P. Meyer — 0. MicuAELis De Vasconcellos — F. Miklosioh— M. Miti — A. Miola — E. Monaci
G. Morosi — A. Mussapia — F. Neumann — F. No vati — M. Obédénake — C. Paoli— G. Paris
S. Pieri — P. Eajna — R. Renier — C. Salvioni — E.Stenqel — H. Suchier
A. ToBLER— P. VlLLARI^B. WlESE — ÌST. ZlNUARELLI.
FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.
1886.
Proprietà degli Editori.
PREFAZION^E.
Nel maggio del 1883 s' inviava a molti cultori degli studi neola-
tini il manifesto seguente:
« È sorto in Firenze, tra colleghi e amici del compianto profes-
» sore Napoleone Caix, il pensiero di consacrare alla memoria di lui
>■■ un volume, a comporre il quale concorrano dotti romanisti italiani
» e stranieri.
» Si è perciò costituito un Comitato, composto dei sottoscritti,
» il quale con questo manifesto fa appello ai più valenti cultori degli
» studi romanzi, perchè vogliano con qualche loro scritto prender
> parte a questo volume.
» L' onoranza che si vuol fare al Caix non pretende punto di pa-
» reggiarsi, nell' intento e nel significato, a quelle che in simil maniera
» si rendono, come per filiale rimpianto, alla memoria di grandi mae-
» stri, mancati dopo aver tutta percorsa una splendida via di fatiche e
» di glorie; bensì essa vorrebbe esprimere solo il compianto per la fine
» immatiira di uno studioso valentissimo, acuto, ingegnoso, laborioso,
» per una operosità nobilissima tronca sul più bello dalla moi'te, per
» una speranza dolorosamente mancata. — Graziamo Ascoli, U. A. Ca-
» NELLO, Giovanni Flechia, Ernesto Monaci, Giuseppe Morosi, Fran-
» CESCO d' Ovidio , P. Rajna.
Un mese appena era scorso, e dei sette colleghi che s'erano qui
uniti per procacciare onore al nome dell' amico defunto, uno, e dei più
giovani, era ancor egli, e in modo tragico, strappato alla vita. Troppo
naturale che i due lutti, ugualmente amari e inaspettati, apparissero
inseparabili ai superstiti, e che U. A. Canello si volesse associato al-
l' opera pietosa nel solo modo che rimaneva possibile, in quanto cioè
il volume fosse intitolato a lui nella maniera stessa che al Caix.
Comunicata anche questa idea ai compagni di studio, essa trovò
la medesima accoglienza simpatica che aveva ricevuto il primo invito.
E non tardarono a giungere scritti; e più numerose degli scritti s' eb-
bero care promesse.
Per una parte, il desiderio che queste promesse avessero adempi-
mento senza troppo scomodo dei gentili da cui s' erano avute, per un' al-
tra, non pochi inciampi d'ordine materiale, hanno mandato la stampa
molto più in lungo di quel che si sarebbe voluto e dovuto. Di ciò si
chiede scusa ai benevoli collaboratori; e pur troppo non si può più
chiedere a tutti. Non si può chiedere a quel valentissimo che fu Ema-
nuele ^lila y Fontanals, dal quale s' arrivò appena in tempo a ricevere
vma piccola, eppur cara offerta; non si può chiedere a Michele Obé-
dénare, uomo quanto mai stimabile, come per altre doti, così per
l'amore intenso che in mezzo alle cure diplomatiche portava agli studi.
Questa nostra Miscellanea, potuta pubblicarsi grazie al disinteresse
della Società Editrice « Successori Le Mounier », è riuscita ricca e sva-
riata, tanto da potersi ben dire efficacissimo testimonio della comu-
nanza di sentimenti che la scienza produce. E ancor più ricca e svariata
sarebbe riuscita se ostacoli di varia natura non avessero congiurato a
toglierle vari contributi.
Carlo Joret, Wendelin Foerster, Enrico Morf, Paolo Gellrich, Fe-
lice Bariola, ed altri ancora, non appajono nel volume per cause indi-
pendenti dalla loro volontà.
A tutti quanti — cosi a coloro che hanno contribuito come a quelli
che avrebl)er voluto e non poterono — siano rese grazie di cuore. E
grazie particolarmente agii stranieri, anche a nome, se non è troppo
arrogarsi, dell' Italia nostra, cui questo largo rimpianto è cagione di
conforto, d'orgoglio, e di fiducia per l'avvenire.
NAPOLEONE CAIX
UGO ANGELO CANELLO.
NAPOLEONE CAIX/
La morte immatura di questo giovane filologo fu una grave perdita per la
scienza italiana, una sventura irreparabile per gli amici che conobbero le nobili
qualità dell' animo suo.
Nato a Bozzolo, provincia di Mantova, il 17 agosto 1845, fece i suoi studii secon-
darli a Cremona, dove insegnava fra gli altri il professore Trezza, e dimostrò subito
un ardore indomabile nel lavoro, una singolare attitudine alla conoscenza delle
lingue. Nel 1859 abbandonò la casa paterna, per arruolarsi volontario nell' esercito
italiano; ma per la giovane età e la troppo gracile salute, dopo una visita medica,
non fu accolto. Dovè quindi tornarsene a casa assai sconfortato , non solo perchè
gli veniva cosi vietato di dar, come voleva, il suo sangue alla patria; ma perchè
questo rifiuto era un triste presagio a lui, che aveva già visto parecchi della sua fa-
miglia morire di tisi. Una vita sempre temperata e metodica, costumi sempre in-
tegerrimi e purissimi lo fecero per molti anni vivere sano, senza quasi mai amma-
larsi. La freschezza del suo colorito lo avrebbe anzi fatto credere di florida salute,
se gli occhi infossati e mutabili, ora luminosi e vivaci, ora quasi vitrei e spenti,
non avessero destato qualche dubbio in chi lo avvicinava. Era eccessivamente nervo-
so: spesso un velo di mestizia copriva il suo volto giovanile; ma non pareva del re-
sto che alcun male lo travagliasse.
' Queste poche parole, salvo alcune modificazioni qiii necessarie, furono scritte appena che giunse in Firenze
l' annunzio della morte immatura del prof. Caix. Con animo grato accettai 1' onore ohe mi fu fatto , quando dal
Comitato che presiede alla compilazione di questo volume, venne proposto di ripubblicarle. Ma esso non preten-
dono d' essere né una biografia del prof. Caix, né molto meno un esame critico delle sue opere, che sarà qui fatto
da un professore di lingue e letterature neo-latine. Sono la espressione del dolore che colpì allora gli amici, una
brevissima commemorazione scritta da chi si sentiva allora e si sente adesso, ijer la grave perdita, come moral-
mente mutilato. Col Caix rimaneva sepolta una parte di me stesso. La sua immagine mi ricorda solo una lunga
serie Cd fidati colloqui! e d' ore felici, che non torneranno mai iiiù. Non potrei quindi esser né un biografo né
un critico.
Tornò a scuola con raddoppiato ardore, e dopo aver compiuto gli sludii liceali
con grandissima lode, venne in Pisa per concorrere ad un posto di studio nella
Scuola Normale Superiore, 1' anno 1862. Fu primo tra molli valorosi concorrenti.
Fece assai buona prova nel greco e nel latino; già leggeva libri inglesi e tedeschi.
Nella Università, dove io lo ebbi discepolo, dimostrò singolare attitudine ad ogni
disciplina letteraria o filosofica; ma la sua passione era per le lingue, che appren-
deva con una facilità maravigliosa. Continuò lo studio del greco, del latino, del-
l'italiano; cominciò ad imparare il sanscrito, l'arabo, l'ebraico, a studiare i
monumenti delle antiche lingue italiche: la sera si esercitava a parlare il greco
moderno con alcuni studenti delle Isole Ionie, che erano colà. Pareva singolare
che in cosi giovane età non avesse altra passione che lo studio, e nella vita non
conoscesse altra gioia che il lavoro. Di questo i suoi compagni spesso lo canzona-
vano, ed egli ne rideva ingenuamente.
Ciò che dette nel giovane Caix la prova di un ingegno assai fuori del comune,
fu la sua tèsi di abilitazione all'insegnamento, presentata nel luglio 4865. Educato
alla scuola del D' Ancona, del Comparetti, del Lasinio, egli scelse a tèma del suo la-
voro r origine della lingua italiana, e subito dichiarò che a questo studio avrebbe
consacrato la sua vita intera. Nominato più tardi professore di greco e latino nel Liceo
di Parma, la tèsi divenne un libro sulla Storia della Lingua e dei Dialetti d' Italia. Il
libro non fu senza difetti, come il Caix stesso riconosceva per primo. Pure fu notevole
assai che sin d' allora egli vedesse la necessità d' uno studio metodico sulla storia
della lingua e dei dialetti italiani, per rintracciare le origini vere della nostra poesia,
e fare una storia nuova della nostra letteratura. Cosi egli fu dei primissimi a far
parte della nuova scuola di filologia romanza e di critica letteraria, come fu certo il
primo che ricercasse con metodo scientifico la diversità dei varii idiomi toscani. I
pregi del suo libro, non ostante i difetti, riuscirono perciò tali, che i professori
deli' Istituto di Studii Superiori in Firenze proposero che il giovane autore venisse
incaricato dell' insegnamento della dialettologia italiana, cattedra che venne poi
mutata in quella di lingue romanze. Fu pel Caix un grande ed inaspettato incorag-
giamento, ed allora incominciò davvero la sua operosità scientifica.
Di questi incoraggiamenti, che gli dettero e gli continuarono sempre i col-
leghi dell' Istituto, egh aveva proprio bisogno. Al suo cammino nella vita c'era in-
fatti un ostacolo continuo, piccolo in apparenza, ma in realtà grandissimo. La pas-
sione dello studio lo faceva vivere come fuori del mondo, quasi in una continua
astrazione; ed aveva contratto un abito singolare di esprimere il suo giudizio sugli
uomini e sulle cose in un modo assoluto, come se si trattasse solo e sempre di
problemi scientifici, senza tener conto alcuno dell'effetto che le sue parole pro-
ducevano su chi le ascollava. Spesso anche, per ridurre a formolo scientifiche il
suo pensiero , esagerava nel conversare al di là della sua intenzione. A chi poco
lo conosceva, sombrava perciò superbo, anche velenoso. Ma chi poi lo avvicinava,
doveva subilo accorgersi che in lui non entrò mai goccia di fiele; che egli poteva
ingannarsi o esagerare nell' esprimersi; ma non conosceva nò rancori, né gelosie,
né orgoglio. Era un animo nobilmente devoto al culto del vero, incapace d' alcuna
bassezza, d'alcuna finzione. La stessa sincera onestà che poneva nelle sue ricerche
scientifiche, guidava la sua condotta nella vita. E la prova di ciò si ha nel fatto, che
alcuni di coloro che più s' erano irritati contro di lui alle prime apparenze, furono
poi tra quelli che più lo amarono, quando lo conobbero davvero. Avvertilo qualche
volta da' suoi amici della durezza delle sue parole, egli prima rispondeva improv-
viso: — Ma è vero o non è vero? — Poi s' affliggeva d' aver recalo dolore a qual-
cuno, e se ne affliggeva tanto e cosi lungamente, che faceva passare la voglia di
ripetere r avvertimento. Ma tutto questo, massime in un paese cosi pieno di ran-
cori come il nostro, gli fece grandissimo danno. E continuamente dovè vedere in-
coraggiati, promossi giovani che valevano assai meno di lui. Non fu mai geloso di
chi aveva un vero merito; ma spesso ripeteva: — Non so perchè anche a me
non si possa rendere giustizia. — A chi gli suggeriva di ricorrere a raccomandazioni
d' uomini poUiici, rispondeva: — Meglio restar come sono. — Assolutamente inca-
pace di farsi strada per vie traverse, seppelliva i suoi tristi pensieri sotto uno
studio raddoppiato, che gli recava poi danno alla salute.
La sua venuta in Firenze, sebbene come semphce incaricato della cattedra,
lo aveva tuttavia messo in condizione da poter lavorare più tranquillamente, ed in
diversi anni die fuori una serie non interrotta di Memorie letterarie o filologiche
sulla storia della lingua e della letteratura italiana. Sostenne per le stampe dispute
vivaci, nelle quali si lasciò qualche volta trascinare ad esagerare un po' troppo
le sue idee. Ma il prof. F. d' Ovidio, che fu uno dei suoi più acuti edotti contrad-
dittori, con vera nobillà d'animo scriveva, che anche allora le idee del Caix
erano « come un lievito per le idee altrui, o come un reagente, che corrodeva la
parte viziala di queste. La discordia di lui era feconda. L' opera di lui era utilis-
sima anche quando pel momento ci frastornava. Negli studii della filologia italiana
resterà per molli anni fra noi l'eco del suo lavoro. »
Tutte queste ricerche dimostravano la vastità delle sue cognizioni filologiche,
l'acume delle sue indagini, e gU guadagnarono ben presto la stima dei dotti ita-
liani e stranieri, specialmente dei tedeschi, che parlavano e scrivevano di lui con
gran lode. Esse erano però solo apparecchio ad opere di maggior mole, che da lungo
tempo il Caix meditava. Un primo saggio se ne vide ne' suoi Studi di etimologia
italiana e romanza, in aggiunta al vocabolario del Diez (Firenze, 4878), che
ebbero molte lodi, non però senza critiche. Ma il prof, d' Ovidio, pure insistendo
su queste critiche, diceva che il nuovo lavoro del Caix era un complemento neces-
sario al gran lessico del Diez , e che quasi in ogni pagina vi si trovava qualche
ingegnoso trovato o qualche nuova notizia. Il Caix, sempre studiando, sempre mi-
gliorando, proseguiva instancabile queste sue ricerche, con l'intendimento di com-
pilare un dizionario etimologico della lingua italiana. Ma 1' opera di magggior mole
che potè dare alla luce, fu quella che ha per titolo: Delle origini della lingua poe-
tica italiana (1880). Alla vasta raccolta di materiale linguistico in essa raccolto e
metodicamente esaminalo, doveva essere aggiunta una dissertazione generale, che
non potè essere scritta, perchè stringeva il tempo prefisso ad un concorso, cui
r autore voleva presentarsi. Con un lungo studio dei dialetti, con un esame ac-
curato dei manoscritti antichi, egli cercava determinare le origini e l'indole del nostro
linguaggio poetico, spiegare le ragioni della sua diversità dal linguaggio adoperato
nella prosa. Io mi asterrò dal dare qualunque giudizio sopra uno scritto, del quale,
come di lutti gli altri, sarà nelle pagine che seguono determinalo il valore scien-
tifico. Dirò solo che, se la novità e l'audacia qualche volta eccessiva delle ricerche,
qui come in altri lavori, spinse il Caix ad affrontar difficoltà non lutle felice-
mente superale, egli fece concapire di sé speranze sempre maggiori. L'illu-
stre prof. Ascoli, nell'Accademia dei Lincei, non tralasciando di .notare i di-
fetti, fece pure amplissime lodi al nuovo scritto, che dichiarò di gran lunga il
migliore di quanti ne aveva fino allora pubblicali il giovane e già chiaro filologo. Il
premio fondato da S. M. il Re Umberto fu vinto dal prof. Rajna; ma il Caix ot-
tenne r Accessit e potè esser lieto d' avere già preso un posto eminente fra i
filologi italiani. Spronato sempre dallo stesso ardore, si pose subilo con maggior
zelo ad altri lavori.
Dopo un viaggio nella Rumenia, egli intraprese a Firenze una nuova opera
sulle lingue dei popoli balcanici e sulle relazioni che esse hanno con l' italiano.
Quest' opera, almeno in parte compiuta, avrebbe dovuto trovarsi fra i suoi mano-
scritti, insieme col materiale raccolto pel Dizionario etimologico; ma tutte le ri-
cerche fatte per rinvenirla riuscirono vane. Ad essa egli aveva di certo lavorato la
state del 1881, senza posa, con uno zelo cosi febbrile, che gli amici cominciarono
a temere della sua salute.
L' ultimo lavoro che ci resti di lui è una conferenza letta nel Circolo filolo-
gico di Firenze, e pubblicata nella Nuova Antologia (Aprile 1882). Fece allora la
storia e la critica del Tartufo del Molière, esaminando i precursori del grande
comico francese e le fonti del suo capolavoro. Conchiudeva con un paragone fra
Y Ipocrita dell'Aretino ed il Tartufo, dicendo: « Qui meglio che altrove si ri-
vela la distanza tra il poeta cinico, a cui è indifferente la qualità morale del suo
eroe, pur che esso serva al suo scopo di for divertire, ed il poeta che ha in vista
il tempo e la società in cui vive, che si appassiona per il vero e per la giustizia,
e prende viva parte alla lotta dei pochi onesti e ben pensanti contro le arti della
menzogna. » Queste si può dir che siano le ultime parole scritte dal Caix, quasi il
suo leslamento; ed esse ritraggono al vivo il suo nobile animo. La ricerca del vero
era per lui come una lotta pel trionfo della virtù. Nò alcuno potrà mai descri-
vere tutta la squisita delicatezza del suo sentire.
Allora il Caix era stato dai suoi colleglli proposto professore ordinario. Una
serie di ritardi imprevisti, nei quali egli vedeva la solita avversità della sua sorte,
lo afflissero amaramente, ed al solito cercava unico sollievo nel lavoro raddop-
piato. Finalmente la Commissione che esaminò i suoi titoli, lo propose con parole
lusinghiere, e venne il decreto di nomina.
Ma il suo aspetto intanto diveniva ogni giorno più triste. Assai spesso nell'inverno
del 1882, io lo vidi verso le 4 pom. entrare nel mio studio, come umiliato per non
avere potuto protrarre il lavoro fino a sera. — Vogliamo fare una passeggiala? — egli
diceva, — non ho più la forza d' una volta. — E si andava. Finalmente lo indussi a
consultare un medico, che gli consigliò una cura idropatica. La fece nella state,
alla Vena d' Oro presso Belluno, e gli pareva di star meglio. Parti poi per Vienna,
l'Ungheria e la Russia, al solito con uno scopo scientifico; ma giunto a Buda-
Pesi, non si semi voglia di continuare: gli pareva di non star bene, e tornò im-
provvisamente a casa. Il viaggio fu lungo e faticoso, perchè dovette traversare i
paesi inondati del Veneto; arrivò stanco ed abbattuto a Bozzolo; ma nulla accen-
nava ad una vicina catastrofe. Parve anzi riaversi e star bene, quando cominciò
inaspettatamente a sputar sangue, e poi lo assali una febbre violenta, che in una
settimana lo condusse alla tomba, il giorno 22 ottobre 1882, in età di 37 anni.
Non aveva ancora dato una sola lezione come professore ordinario.
Quando per la prima volta la sorte sempre avversa gli sorrideva, quando il
suo nome era già divenuto chiarissimo, e i nuovi lavori che aveva apparecchiati
gli facevano sperare una gloria maggiore, fu immaturamente rapito ai parenti,
agli amici ed alla scienza. Egli combattè tutta la vita 1' onesta battaglia perla con-
quista del vero, e cadde come un prode soldato della scienza. I suoi costumi fu-
rono purissimi, nobile il suo animo, elevalo il suo carattere. Il suo sguardo era
sempre rivolto alla contemplazione del vero. Pareva che le cose di questo basso e
torbido mondo assai poco 1' occupassero. Perchè le parole sono impotenti ad espri-
mere quello che si sente, tanto più impotenti quanto più profondo è il dolore che
ci opprime?
P. VlLLARI.
— XIV —
GLI SCRITTI.
La prima volta il nome del Caix si mostrò al pubblico letterato nella neonata
Rivista Bolognese (febbraio 1867), appiè di uno scritto SuW origine della lingua
italiana e sopra la dissertazione di Cesare Canta premiata dall' Accademia Pon-
taniana (pag. 157-173). Far sentire una voce meritamente severa intorno a
questa dissertazione, è manifestamente lo scopo dell' articolo. L' autore tuttavia
non ci viene che all'ultimo, dopo essersi trattenuto lungamente a discorrere
dello stato della questione, dando prova di sodo intelletto, e mostrando di aver
familiare, cosi la letteratura speciale dell'argomento, come la letteratura linguistica
in genere. C'è, se si vuole, un certo sfoggio in quelle pagine: sfoggio peraltro non
vano, e promettente assai.
Alcuni mesi dopo il Caix discorreva nel Politecnico (giugno 1867, Parte letter.-
scientif., Serie IV, tora. Ili, pag. 661-67) del Cohelet, a proposito della traduzione,
con introduzione e note, pubblicala 1' anno innanzi da David Castelli. Appariva
anche in questo scritterello elevatezza di pensiero ed ampiezza di coltura. Se il
Caix parlava di un libro ebraico, quel libro egli sapeva leggerlo nel testo, non già
nella versione soltanto. Che egli non conosceva la ciarlataneria che permette di
scriver di materie in cui non si sia addottrinati.
L' articolo sul Cohelet era un portato di quella fase nello svolgimento del-
l'ingegno del Caix, che potrebbe dirsi la sua « Sturmperiode »: la fase in cui
dentro all' immenso edificio della Filologia e della Linguistica egli s' andava af-
facciando con curiosità insaziabile a molte e molte porte, mai non contentandosi
di rimaner sul limitare. Né paga ancora, la sua mente, assetata di idee non meno
che di fatti, correva spesso ad abbeverarsi di sludi filosofici.
Queste simpatie speculative associale alla svariatezza del sapere si sarebbe
pensato che dovessero portare il Caix a rivolgere la sua attività ad argomenti
quanto mai vasti. Ma in lui, insieme col desiderio di saper molte cose, era vivis-
simo il bisogno del saper bene e dell'approfondire; bastò pertanto l'essergli ac-
caduto di buon'ora di rivolgere l'attenzione ad un soggcllo speciale di ricerca,
perchè il viaggiatore instancabile si convertisse nel più pertinace dei minatori.
Il sog,"etlo, come già s'è udito da altra bocca, consisteva nella storia della
lingua italiana; ed è per ciò che nella questione delle origini dì questa nostra lin-
gua il Caix aveva osato parlar alto contro un uomo della fama e dell'ingegno di
Cesare Cantù. Chi scriveva a quel modo slava allora appunto tormentando la sua
lesi di abilitazione per ridurla nella forma in cui vide in parte la luce più anni dopo.
S' ebbe cosi nel 1872 il Saggio sulla Storia della Lingua e dei Dialetti d' Italia,
con un Introduzione so-pra l' origine delle Lingue neolatine (Parma, a spese del-
l' autore).
La giudiziosa e lucida Introduzione fu poi lodata dall' Ascoli {Arch. GlottoL,
II, 412). Quanto al Saggio vero e proprio, era una prova luminosa d'ingegno, di
attitudini, di sludi; conteneva pagine veramente belle di considerazioni compren-
sive e un numero non piccolo di verità spicciole acutamente trovate e osservale;
per il primo poi il Caix concepiva il soggetto con tanta larghezza, abbracciando in-
sieme e la lingua lelteraria, e i dialetti della Toscana, e quelli dell' Italia intera,
col proposilo di studiarne e chiarirne i rapporti. In pari tempo tuttavia il Saggio
rivelava un fallo deplorevole, del quale il Caix sopportava le conseguenze senza che
in gran parte fosse sua la colpa. Si rammentino le condizioni poco felici in cui si
trovavano veni' anni fa gli studi romanologici, qui da noi soprattutto. Mancavano
pressoché dovunque i maestri , e i metodi rigorosamente scientifici non s' erano
ancora divulgati. L'esempio e l'impulso potente dell'Ascoli non avevano ancor co-
minciato ad agire sui lontani. Il Caix s' era pertanto messo al lavoro senza criteri
ben sicuri, e senza neppure la coscienza che questi criteri gli mancassero. Non so-
spettava nemmeno che a chi aveva tra le mani le opere del Diez, del Bopp, del Poti,
di Leone Meyer, e su quelle aveva vegliato e sudalo, discepolo devoto e singolar-
mente perspicace, potesse nondimeno accadere, non propriamente di sbagliar di-
rezione, ma di procedere alquanto a sghimbescio, per altra via che per la diritta.
Sicché accadde un poco al Caix quel che suole accadere a coloro, che, avendo pur
sortito da natura disposizioni mirabih per la musica, imparano a sonare da se me-
desimi. Ben difficile che non contraggan difetti, da cui non si libereranno forse
mai più. Nel Caix il vizio principale consistette nell' attribuire una funzione ecces-
siva all' etimologia, e nell' abbandonarsi alla soluzione dei problemi etimologici
senza il freno di una rigorosa disciplina fonetica. Non s'accorse che a questo modo
dallo sladio del Diez e dei continuatori suoi si lasciava in certo modo risospingere
verso quello del Muratori. Cosi per una parte gli riuscì poi difficile di coglier nel
loro insieme i caratteri distintivi di un linguaggio e delle sue varietà; per un'altra
gU avvenne di convincersi — e in lui le convinzioni mettevan subito radici pro-
fonde — di molte derivazioni fallaci, le quali, oltre al costituire altrettanti errori
isolali, diventavano esempio e prova di trapassi di suoni tutt' altro che dimostrati
e legittimi, servendo così di punto di partenza a nuovi traviamenti.
Ed anche un' altra pecca non può esser taciuta. Allorché il Gaix componeva
il Saggio, ancora non s' era reso ben familiare il metodo storico in genere. Da
ciò, se non erro, l'aver adottato una disposizione, di cui non si capisce bene il
congegno, e non conforme di certo alle esigenze dell' argomento. Da una disposi-
zione non buona si origina sempre una proporzione viziosa ancor essa; e quel
eh' è peggio, ne soffre assai il rigore logico, sicché, o non si conchiude, o si con-
chiude in modo non vero, o dicendo pur cose vere ci si trova non le aver di-
mostrate.
Difettosa quanto si vuole, 1' opera del giovane linguista conteneva nondimeno
tanto di buono, che la continuazione non poteva non essere assai desiderata. Ma se
la desideravano gli altri, il Gaix, sempre meno contento del lavoro suo, non si deci-
deva a darla fuori; e cosi, condusse bensì innanzi la stampa per un buon tratto
ancora, ' ma poi finì per lasciarla in tronco. Si fosse deciso a compiere il lavoro,
non se lo sarebbe più lasciato uscir di mano altro che in forma ben rimutata; e
allora ne sarebbe andata di mezzo 1' armonia colla parte pubblicata di già. Prima
ancora che 1' Ascoli le pronunziasse, egli aveva sentito la verità di quelle sue pa-
role, che « le esigenze di codesta armonia » gli si dovevano poi rendere « per sua
fortuna addirittura moleste » nel « dettare il compimento del volume » {Arch.
Glottol, loc. cit.).
Nel periodo fiorentino, il primo fatto che sia a notare del Gaix è la feconda
discussione impegnatasi tra lui e lo Storm a proposito della memoria del filologo
norvego « Sur les Voyelles atones du latin, des dialecles italiques et de l'italien »
[Mémoires de la Società de Linguistique , tom. II, Parigi, 1873). Il Gaix pubblicò
neir effimero Ateneo (tom. I, pag. 358-65, 15 maggio 1874) una recensione, dove
rimproverava all' autore di aver trascurato « le due cause che in italiano determi-
nano molto spesso di per sé sole le modificazioni della vocale «: le consonanti in
contatto, e il posto occupato nel corpo della parola. Ne nacque una polemica, al-
quanto aspra sulle prime, ma che prese poi subito il tuono di una pura e serena
discussione scientifica. ' Si venne a precisare in che propriamente consistesse il
dissenso: lo Storm voleva che l'attuale vocalismo toscano rappresentasse un ri-
torno al vocalismo del latino classico, seguilo ad un periodo in cui il vocalismo
' Furono tirati perlomeno sei fogli (pag. 161-25G), tli cui bo davanti lan esemplare trovato tra le carte del
Caix. Contengono il termino del capitolo 5»; un capitolo 0' (pag. 190), che è come una seconda parte del 5» e che
tratta delle < Relazioni fonetiche > tra il dialetto . toscano e gli altri dialetti d' Italia », e per ultimo un capitolo T"
(pag. 212), mancante della fine, intitolato < I dialetti toscani e la favella letteraria ».
'• Nella Mivista Europea: Storm, anno 5', t. Ili, pag. 592-596 (agosto, 1871); Caix, ib., pag. 598-599 ; — Storm,
anno 6», 1. 1, pag. 178-1S2 (dicembre, 1S74); Cai.x, t. cit., pag. 535-593 (febbraio, 1675).
fosse invece quello del Ialino arcaico e volgare, che gli pareva essersi perpetualo
senza vicende nei dialetti dell' Alta Italia; il Caix invece contesta il ritorno, e ri-
pete immediatamente dal vocalismo classico il vocalismo toscano, e segnatamente
il fiorentino. Una Seconda risposta al fdologo scandinavo, dopo aver visto la luce nella
Rivista Europea, fu, con molti ritocchi, tirata anche à parte in forma di opuscolo,
ricevendo il titolo di Osservazioni sul Vocalismo italiano (Firenze, 1875): osserva-
zioni appoggiale in questo caso a uno studio fonetico assai accurato, e atte anche
da sole a mostrare come gli errori di metodo ripetessero proprio nel Caix la loro
origine principalissima da abili viziosi e da difetto di istituzione, non dalla natura
dell' ingegno suo. Bensì è da ammettere che contribuisse mollo a perpetuarli la
tenacia del carattere.
Non si veniva smentendo frattanto la predilezione del Caix per l'indagine eti-
mologica; Studi Etimologici egli cominciò a stampare nel già ricordato Ateneo
(tom. II, pag. 14-20 e 264-268: 15 luglio e 15 ottobre 1874), continuandoli piti
tardi, prima nella Rivista, e poi nel Giornale di Filologia Romanza {Riv., II,
112-113, 173-176, 228-231; Giorn., I, 48-50; II, pag. 71). A questa medesima
classe di lavori appartengono vari altri articoH: una recensione del Beitrag fiìr
Kundc der Norditalienischen Mundartenim XV. Jahrhunderte del Mussafia [Rivi-
sta, II, 54-59);' uno scritto intitolato assai impropriamente SuW Etimologia
spagnuola [Giornale, II, 66-70), che è una serie di osservazioni agli Studien zur
Tornanischen Wortscliopfung della Michaelis;le 'pagine Sul pronome italiano (ib., I,
43-47); inoltre. Voci nate dalla fusione di due temi [Zeitschrift fiir romanische
Philologie, I, 421-28), dove si tratta per disteso di uno dei procedimenti studiali
in una dissertazioncina che ancor essa appartiene qui più che non farebbe sup-
porre r intitolazione, Le alterazioni generali nella lingua italiana [Riv. di FU.
rom., II, 71-81).
Tutti questi scritti, a quel modo che essi medesimi eran come sgorgati dal
Saggio — sia da quel tanto che se n'era pubblicato, sia dalla porzione rimasta
inedita — rimaneggiati, andarono a confluire nel volumetto degli Studi di Etimo-
logia italiana e romanza (Firenze, Sansoni, 1878; pag. xxxv e 213), che riesce
davvero allo scopo propostosi dall'autore, di correggere in certe parti, di accre-
scere in altre il Dizionario Etimologico del Diez;" e lo accresce e corregge in mi-
' Noterò a questo iiroposito ohe è manifestamente del Caix anche vina breve rassegna firmata C intorno al
Zur Eatliarinenlcgende del Mussafia medesimo nel Gazzettino bibliografico della Rivista Europea, anno 5", t. IV,
pag. 178-179 (settembre , 1474). E la Rivista Europea ebbe da hxi altri artiooletti consimili, non difficili a riconoscere.
Così ne ho dinanzi imo {anno 6', 1. 1, pag. 183-184 — dicembre, 1871), in cui si rende conto dei Precursori di Dante
del D'Ancona.
■ Questo doppio intendimento avevano già avuto gli Studi cominciati a stampare nell'Ateneo. V. le parole
d'introduzione che stanno loro in fronte. Ed io rammento bene come fino dal 1866, ossia fin dall' anno successivo
alla laurea, il Caix rivolgesse in Pisa una parte della sua alacrità a tempestar di postille xm esemplare del-
l' opera dieziana.
sura maggiore forse che ancora non sia seguilo d'un iratlo per opera di nessun altro
singolo lavoratore. Certo le spiegazioni inaccettabili, e quelle mollo problematiche
eppur messe innanzi con sicurezza, vi son sempre troppo numerose; riesce strano
che anche attraverso a ripetute stacciature sia potuta rimanere nella farina del Caix
della crusca parecchia; ' e giustamente fu osservato da un critico (perchè non no-
minerò io il d'Ovidio se anche il nome non si legge appiè dell'articolo?)'' che questi
Stndi peccano pur sempre, e per il poco rispetto alla fonetica, e per non esser
fondati sopra comparazioni abbastanza estese; ma il critico notava altresì nel Caix
degli Studi un progresso considerevole di fronte a quello d' altri tempi ; e un pro-
gresso ulteriore non sarebbe nemmeno stato da desiderare, se l'autore avesse
applicato sempre i principii sanissimi esposti e propugnati nella bella Introduzione.
Li avrebbe applicati con maggior rigore se la sua operosità etimologica avesse
potuto avere quell'ultima esplicazione che era ne' suoi propositi: se cioè gli fosse
stato consentito di darci quel Vocabolario Etimologico italiano, cui stava lavo-
rando [Introd., pag. xxxi). Invece, pur troppo, poc' altro in questo genere si ebbe
più da lui; poco, ma di natura da accrescere ancora il rammarico per il lavoro
interrotto; che sono articoli eccellenti quelli su Trippa ed altri vocaboli che il Caix
giudica di origine araba {Rassegna Settimanale, tom. IV, pag. 108, 2° sem., 4879),
e Sul nome del Caciocavallo (ib., VII, 30, 1" sem., 1881). ''
Delle scritture enumerale fin qui, alcune, o in lutto o in parte, riguardano la
grammatica storica nei vari suoi rami; tali sono le Osservazioni sul Vocalismo,
il Pronome, le Alterazioni generali nella lingua italiana. Altri contributi prege-
volissimi per la medesima disciplina sono le pagine sull' Articolo italiano {Giorn.
di FU. rom., II, 1-9), che volevano essere prima parte di uno studio non prose-
guito Sulla declinazione romanza, e che mirano a confutare l'idea del Groeber, che
?7 non sia forma primitiva, bensì prodotto secondario di lo; poi, la nota Sul per-
fetto debole romanzo (ib., I, 229-232), o più esattamente suU' origine di certe forme
di quel perfetto e particolarmente dell'uscita -ò; infine, quella più ampia Sull' in-
fluenza deir accento nella conjugazione (ib., II, 10-18), e segnatamente sulle ano-
malie dei continuatori di Manducare e Adjutare: specie di complemento per la
parte italiana alle cose esposte dal Foerster, dal Cornu, dal Meyer, nella ZeifscJ/rift
far romanische Philologie e nella lìomania.
' Singolare, per esempio, che per la terza volta 1' antere si ostini a stampare che nella frase angarc a' cani,
cani siano i capelli canuti: idea messa fuori la prima volta nella parte inedita del Sai/ifio, pag. 186;' una seconda
nella Biv. di FU. rom., II, 112: e finalmente ripetuta negli Sludi apag. 95. Nella Eivista le tien compagnia l'altra
anche più strana che in riveder le hncce , bucce sia pulci; ma questa almeno , emanata dal Satjgio essa pui"e (pag. 235),
non è arrivata, ch'io veda, fino agli Sludi; d'onde s'argomenta che l'autore si fosse indotto ad abbandonarla, o
almeno a dubitarne fortemente.
' lìasser/na Settimanale, III, 158, (1° semestre 1S79).
' Per amor di compiutezza registrerò anche una noticina intorno n Malato e Malattia (ib., 111,307; 1' sen].lS79).
Ma il Caix non apparteneva alla schiera numerosa di coloro, che, tutli intenti
all'osservazione minuta, non sanno o non vogliono levarsi a nulla di comprensivo.
Mentre scrutava i fatti spiccioli, continuava a meditare sul problema generale della
storia della lingua; e la Nuova Antologia del settembre e ottobre 1874 (1-^ serie,
lem. XXVII, pag. 35-60 e 288-309) ebbe un' ampia esposizione delle convin-
zioni sue intorno alla Formazione degli idiomi letlerarii, in ispscie dell' italiano.
Intendimento del Caix era di combattere la teorica manzoniana. Mirava a provare
come r italiano, non altrimenti che le altre lingue colte, di cui si faceva a riassu-
mer le vicende, non si fosse identificato in antico, non potesse identificarsi attual-
mente, con uno speciale dialetto. Gli è, in altri termini, dei principii sostenuti da
Dante nel De Vulgari Eloquentia, e più tardi dagli oppositori della Crusca, che
il Caix si presenta ardente e vigoroso propugnatore. Anche la storia secolare della
questione, indispensabile a conoscersi da chi voglia penetrare bene addentro il
problema, ebbe in lui un narratore diligente e sagace; e ciò nel terzo volume
deW Italia dell' Ilillebrand, dove si legge di suo, tradotta in tedesco, « La
questione della lingua italiana », Die Streit froge uber die italienische Sprache
(pag. 121-154).
Le opinioni del Caix avevano specialmente radice negli studi eh' egli veniva
facendo intorno alla lingua dei nostri antichi scrittori, e dei rimatori soprattutto. Un
primo saggio, o meglio una prima applicazione di siffatti suoi studi, si vide nella
Rivista Europea (anno VI, toni. I, pag. 72-80: dicembre 1874), dove, in un
articolo intitolato Di un antico monumento di poesia italiana, egli si adoperò a
dimostrare che certi sonetti pubblicati pur allora dal Mussafia, erano da attri-
buirsi ad un poeta aretino, e probabilmente ad un contemporaneo di fra
Guittone.
Alle peculiarità degli scrittori aretini, e di Guittone in particolar modo, il
Caix tenne poi sempre 1' occhio ben fisso; il soggetto tuttavia che maggiormente lo
preoccupò in questo dominio fu il linguaggio della scuola sicula, e dentro l'isola,
e fuori dell' isola. Troppo ovvio pertanto che egli fosse tratto a considerare con
specialissima attenzione quello che allora si soleva chiamare il Contrasto di Giulio
d' Alcamo. Il Caix ne studiò accuratamente la lingua; e le osservazioni sue espose
in una recensione, pubblicata nella Rivista di Filologia romanza{ll, 177-191), del
poderoso lavoro che intorno a quel documento ci dette il D' Ancona. Vivacemente
\i si contesta la sicilianità dell'autore, e quella più ancora della sua favella, che,
nonostante certe mescolanze, di cui s'ammette la provenienza sicula, si sostiene
esser pugliese con un tal quale ripulimento letterario. Si nega in pari tempo che
nel testo pervenuto a noi la forma abbia subito un rimaneggiamento che 1' abbia
ravvicinata al toscano: essa, secondo il Caix, fu su per giù fin dall' origine quale
« si presenta nel codice che solo ce 1' ha conservata. »
Nella raenle del nostro filologo all' indagine intorno al linguaggio del Contrasto
s' era accoppiala la considerazione del carattere di questa composizione. Essa non
gli parve essere un prodotto popolare, come generalmente si giudicava, bensì l'opera
di un poeta d'arte; e in lui colai persuasione prese un aspetto pariicolare affatto.
Gli entrò nell' animo il convincimento che il Contrasto di Ciullo fosse imitazione
e riflesso di un genere letterario straniero, cioè della Pastorella. A propugnar
questa tesi intende lo scritto Chdlo iT Alcamo e (jli imitatori delle Romanze
e Pastorelle provenzali e francesi [Nuova Antologia, \^ serie, lom. XXX,
pag. 477-52'2: novembre 1875). Manifestatasi subito una viva opposizione, il
Caix non lardò a ridiscendere in campo, scrivendo Ancora del Contrasto di
Ciullo d' Alcamo [Rivista Europea, anno VII, lom. II, pag. 547-558: maggio 4876).
Qualche anno dopo, in un breve ma notevole articolo sulla Scuola poetica sici-
liana [Rass. Sellim., 1878, 2° sem., pag. 357-59) occasionato dalla Sicilianiscke
Dichterschide del Gaspav)', mentre si professava concorde in molle cose col valente
critico tedesco, mosse obbiezione all' idea che la Rosa fresca sia un prodotto giul-
laresco e però qualcosa di mezzo tra l'aulico e il popolare, e tornò a ribattere il
chiodo della derivazione dalla Pastorella. Finalmente, nel 1879, credette di essere
ari'ivato a scoprire Chi fosse il preteso Ciullo d' Alcamo [Riv. Europ., nuova se-
rie, lom. XII, pag. 231-251: 10 maggio); e con argomenti ingegnosi, ma poco
0 punto validi, si affannò a sostenere che il Contrasto, nonché d' un Ciullo d' Al-
camo, non era opera nemmeno d' un Cielo dal Canio, bensì aveva avuto per au-
tore Giacomino Pugliese.
Ciullo e il Contrasto erano siali un semplice episodio. Mentre attendeva ad
essi il Cai.\ continuava a maturare le idee sue intorno alle vicende della nostra lin-
gua letteraria. S' era persuaso da tempo che 1' unità si fosse operala per mezzo
della poesia, e che di li si fosse propagala agli altri usi, cosi del paria-re, come
dello scrivere prosaico, ' non senza conservare le tracce dell' origine e delle fasi
per cui la lingua era passala. E la lingua poetica egh la concepiva fin dal princi-
pio come cosa distinta, non solo nel lessico, ma nella fonetica stessa, dalle par-
late locali: come a Firenze dal volgare fiorentino, cosi nella Sicilia dal volgare
siculo. Il suo pensiero a questo proposito egli non lo manifestò forse mai cosi net-
tamente come neir articolelio citato dianzi sulla Scuola poetica siciliana, dove,
contro ciò che egli stesso, entro certi limiti, aveva creduto fino a pochi anni pri-
ma," contestò, non per il Contrasto solo di Ciullo, ma in generale per tulle le
rime della nostra prima scuola poetica, l'ipotesi di una trasformazione subita per
opera di trascrittori, e mise avanti quattro ragioni per impugnare, o almeno per
' V. La Formazione degl'idiomi letterari, Nuova Antol., t. cit., pag. 239, 300, 305.
• V. ib., pag. 294. Cfr. tuttavia la pagina seguente.
mellere gravemente in dubbio, 1' autenlicità del Libro Siciliano del Barbieri e del
famoso frammento di Stefano Protonotaro o del nolaro Stefano di Pronto. Ciò non
toglieva peraltro che elementi siculi, e meridionali in genere, la lingua poetica non
dovesse anche a parer suo averne contenuti moltissimi; e non contenuti semplice-
mente, credeva egli, nel principio, ma ritenuti altresì nelle fasi successive.
A tutte queste cose è da aver bene la mente se si vuol rendersi conto di quel
che venisse a importare per il Caix lo studio della prima lingua poetica, e se si
vuole intendere come cotale studio gli paresse dovere in sostanza avere per oggetto la
lingua che ci è data dai codici più autorevoli, fatta la debita parte alle tendenze
peculiari di ciascuno, non giù qualcosa di ben distinto da essa , cui si risalga per via
di semplici ricostruzioni ipotetiche. Eccolo dunque a sudare sui nostri più antichi
canzonieri, e ad analizzarne le forme con un' accuratezza mirabile. Fruito di que-
ste fatiche lungamente durate con gran pertinacia, fu il lavoro più cospicuo del
Caix: Le Origini cioè della Lingua poetica italiana: principii di grammatica sto-
rica italiana ricavati dallo stìidio dei manoscritti: con una introduzione sulla for-
mazione degli antichi cantonieri italiani (Firenze, coi tipi dei Succ. Le Mou-
nier, 4880; pag. 284 in 8° massimo).
All'opera si rimproverò l' intitolazione; ed a ragione di certo, se essa almeno
s' intende com'è naturale che sia intesa. E qui non si può a meno di notare che il
Caix fu abbastanza spesso poco preciso nella scella dei titoli suoi; ciò che leggiamo
addentrandoci là dove si legge scritto in fronte Sul pronome italiano, Sul perfetto
debole romanzo, Sali' etimologia spagnuola, è meno assai di sicuro, e talora an-
che qualcosa di diverso, di quel che ci si aspetterebbe d' incontrare. Nel caso no-
stro peraltro la ragione dell' aver rappresentato sul frontespizio come Le Origini
della Lingua poetica ciò che realmente non sarebbe se non La Lingua poetica
del periodo delle Origini, ha la sua ragion d' essere nella credenza da cui il Caix
era mosso, che la lingua poetica delle età successive fosse molto più conforme a
quella dei primi tempi di quanto non gli apparisse poi dietro un esame ben attento.
La perpetuazione di alcune forme non dittongate, come core, mele e simili, e di
alcuni pochi vocaboli, aveva prodotto nella sua mente una vera illusione; si di-
rebbe che quelle voci egh le vedesse moltiplicate e ordinate in disegno armonico
dentro ad un caleidoscopio. Ma si può facilmente perdonare questo strascico della
concezione primitiva una volta che essa non ha per nulla affatto indotto il Caix a
ritrarre nella sua analisi le cose diversamente da quel che fossero. Le forme pecu-
liari del primo periodo son da lui stesso, ad una ad una, rimesse dopo una breve
dimora fuor della soglia, poche sole eccettuate. Tenacissimo delle proprie idee il
Caix era di sicuro; ma appunto per ciò riesce tanto più nobile in lui quel pieno
ossequio alla verità, gli riuscisse grata od ingrata, non appena fosse giunto a co-
noscerla. Nessun pericolo eh' egli volesse fare la ben che minima forza alla co-
scienza. E diciamolo pure colla certezza di non c'ingannare: se al bel libro manca
una sintesi, di cui certo non basta a tener luogo qualche pagina di Prefazione,
scritta per soprappiù incominciando, non già licenziando la stampa, non è dav-
vero che al Caix sapesse agro di tirar delle somme le quali vedeva bene dover dar
risultali differenti dalle sue previsioni. La colpa fu di quelle particolari circostanze
che lo spinsero ad affrettare la pubblicazione del libro.
Io non so se la fretta sia entrata per nulla anche neh' avere il Caix curato
poco la parte lessicale, che in uno studio sulla lingua poetica del primo pe-
riodo avrebbe dovuto avere, s' io non m' inganno, un' importanza somma. Egli vor-
rebbe come persuaderci che siffatta trattazione non fosse a posto nel lavoro suo
(pag. 247, nota); ma riesce semplicemente a mostrare che il compito era arduo e
richiedeva lunghe ricerche. Qualcosa egli ci dà bensì anche per questa parie: in-
cidentalmente, in parecchi luoghi dell'opera, e poi all'ultimo, sotto l'aspetto im-
proprio di un capitolo sulla Formazione delle parole. Improprio, dico: poiché in
generale non si traila già di parole che si vengan fabbricando coli' appUcuzione di
questo 0 quel suffisso, bensì di vocàboli che si prendon belli e fatti o di qua o di
là. Direi tuttavia che sotto un altro riguardo non ci si rammarica troppo di vedere
il Caix trascurare i vocaboli, tutto intento a lettere e suoni: in lui il peccato è se-
gno di un ravvedimento.
Astrazion fatta dalle omissioni, una certa qual fretta si manifesta anche nelle
parli che 1' autore ebbe propriamente ad elaborare. 0 per dir meglio, 1' esecuzione
non fu tanto maturata quanto era stata maturata la preparazione. Cosi son con-
vinto che se il Caix avesse tardalo qualche allro poco a scrivere, si sarebbe accorto
della necessità di mantener sempre una spiccata distinzione tra la materialità della
grafia e la fonetica che ci s' ha da vedere attraverso; e noi non troveremmo più,
per esempio, schierato a pari coi paragrafi che ci rappresentano suoni veri e pro-
pri, un paragrafo sulla lettera H.
Nonostante queste ed altre mende, il libro del Caix ha importanza capitale.
Un' analisi così diligente della hngua dei nostri amichi poeti quale ci è data dai
codici, nessuno, nonché tentata, non l'aveva immaginata neppure. E il Caix ha
illustrato li dentro, sia con falli ed osservazioni messe fuori qui per la prima volta,
sia ritornando su cose già da lui dette altrove, parecchi problemi comuni così alla'
lingua della poesia come a quella della prosa. Anche la conoscenza delle condi-
zioni dialettali, nella Toscana soprattutto, al secolo XIII, s'avvantaggia non poco
dell' opera sua. Né è solo a chi vuol indagare la storia della lingua italiana, non è
solo al linguista e al grammatico, che il libro è necessario: chiunque s'ingegni di
addentrarsi nelle nostre origini letterarie mal può esimersi dallo studio, per quanto
faticoso, di questo volume. E cotale studio vorrà poi essere raccomandato calda-
mente anche agli editori di antichi testi. Chi in particolare prenda a darci una
nuova edizione, di fra Guiltone si troverà appianala la via dal Caix, risparmiala da
lui non poca parie della falica.
Al lavoro sulla lingua dei rimatori del primo periodo il Caix si proponeva di
farne tener dietro un altro intorno alla « lingua dei grandi poeti fiorentini « {Pref.,
pag. 4); quindi un altro ancora « sulla formazione della prosa « e insieme sulla
lingua poetica dopo Dante, che gli appariva cosi connessa col linguaggio pro-
saico, da non potersi studiare separatamente [ibid.). Disegni bellissimi, l'esecu-
zione dei quali avrebbe, credo, finito per persuadere 1' autore, che, se la lingua
letteraria non era tutta fiorentina di certo, era peraltro fiorentina in grado mag-
giore assai eh' egli non continuasse a supporre. Ma con un soffio la morte dissipò
ogni cosa!
L' esecuzione tuttavia sarebbe l'orse slata ad ogni modo ritardata più o meno
dall'avere il Caix negli ultimi anni aperto nuovi sbocchi alla sua alacrità. S'era
volto al dominio rumeno e a tutto ciò che vi si connetteva; e aveva preso a colti-
varlo con intenso amore. Così già noìV Antolocjia del 4° aprile 1878 (2^ serie,
lom. Vili, pag. 509-521) egli poteva discorrere da uomo che ha approfondito le
questioni e che si è già reso familiare e la lingua e la letteratura scientifica del sog-
getto, intorno alla nazionalità rumena (7 Rumeni e le stirpi latine), determinando
con retto discernimento, sulle tracce dei migliori e fondandosi specialmente sulla
favella, fin dove sia latino e fino a qual grado sia frammisto di elementi eterogenei
quell'estremo anello orientale della grande catena delle popolazioni latine e latiniz-
zate. Anche 1' articolo già citato sull' etimologia di caciocavallo, scritto dopo che il
Caix aveva visitalo la Rumenia a scopo di scienza, è un prodotto dell' allenzione
da lui portata sulla penisola dei Balcani. E questi non erano se non come i primi
segnali di quei lavori maggiori cui veniva attendendo.
Ma questi nuovi sfoghi alla singolare sua attività, tutta vòlta agli studi, non
bastarono al Caix, che parve verso la fine della vita aver raddoppiato quella sua
flessibilità primitiva, di cui per un certo periodo non s' eran più visti i segni al di
fuori. Nel 1879, a proposito della nuova edizione curala dal Deecke degli Etnischi
di C. 0. Mùller, stampò nella Rassegna Settimanale un articolo (III, 31-34), eco
di antichi e caldi amori. E l'articolo dovette avere una coda, per rispondere alle
obbiezioni di un naturalista (ib., pag. 117-118). Più tardi, nella stessa Rasse-
gna (VIII, 221-222: 2° sem., 1881) il Caix narrò la Storia di un verso di Dante
— « Poi eh' ei posato un poco il corpo lasso » — che gli editori si ostinano a leg-
gere diversamenle da quel che voglia l'autorità dei codici e la critica. Ma una
vera e propria sorpresa dovettero provare anche gli amici più inlimi, allorché, nel-
r inverno che precedette la morte, essendo egli messo alle strette perchè tenesse
al Circolo Filologico fiorentino una conferenza, videro il Caix scegliere un sog-
getto affatto lontano, a quanto pareva, dai suoi territori: Molière e il suo Tur-
tufe. ' Che avendolo scello, lo trattasse da pari suo, con mollo acume, con molta
giustezza, con vero garbo, di ciò nessuno poteva dubitare. E come ancora non
bastasse, tra le carte del defunto s'è trovato imperfetto uno scritto sui Goliardi,
appartenente esso pure agli ultimi tempi.
Per un giovane morto a trentasett' anni, cagionevole sempre, che aveva
dovuto in molta parte cercarsi la sua via da se stesso, è ammirabile davvero
l'aver potuto dar tanti frutti. E nessuno di essi fu prodotto senza una lunga
preparazione; che il Caix era del numero eletto di coloro che studiano, cer-
cano, pensano, piìi assai che non scrivano. Cosi colla sua morte egli si portò
seco la più faticata, la sola completa tra le sue opere: sé stesso. Tra i lavori suoi
non ve n'ha alcuno di certo che basti a dar la misura di quel che il Caix propria-
mente valesse. Solo abbracciandoli tutti insieme, si riesce a scorgere, attraverso ai
difetti, quali doli molteplici egli possedesse, e in che grado elevato: acutezza rara
di mente e sodo criterio; svariatezza di coltura e profondità di dottrina; pazienza
inesauribile nell'analisi e attitudine alla sintesi; e come coronamento d' ogni altra
cosa, una disposizione naturale, affinata dallo studio, a vestire le idee di una
forma dignitosamente corretta, specchio dell'essere suo.
Pio Rajna.
' Il lavoro fa pubblicato poi nella Nuova Antologia, 2" serie, t. XXXII, pag. 393-4U (1 aprile 1882).
UGO ANGELO CANELLO.
« Quante mai volte 1' Edipo umano, menlre si crede e si dice
ó Ttàat /iXsivò? Olòizon<;
Sta suir orlo dell'abisso che lo deve inghiottire! «
. Povero Canello! cosi scrisse, °' e cosi avvenne di lui, che sparve, come il suo
compagno di studi e di sventura, Napoleone Caix, quando appena era suonata
r ora attesa della fortuna.
Morir giovine! Era il presagio, che gli tornava sulle labbra; presagio, ch'egli,
conscio degli effetti ineluttabili d' un' aspra malattia di petto, esprimeva senza sgo-
mento, come chi è abituato a interrogare impavido la realtà assoggettando il senti-
mento al rigido e forte impero della ragione. Pur talora lo confortava la speranza
di campare tanto da condurre a fine le opere ideate: vivrò ancora, io credo, quin-
dici anni, ricordo eh' egli mi disse quando ne aveva trenta. Sfortunatissimo! anche
questa povera speranza gli andò delusa: chiedeva quindici anni ancora di vita, e solo
per consacrarli a nobili fatiche: non ne visse invece che cinque, e si spense nel ri-
goglio della sua poderosa vita scientifica, quando ormai s' avviava sicuro ad occu-
pare uno de' luoghi più eminenti fra i romanisti d'Europa. Esistenza fuggevole fu
la sua, ma tale egli la visse, che il solo ridirla con la schiettezza da lui candida-
mente amata riesce, per quanto imperito sia il narratore, il miglior segno d' ono-
ranza, che possa venire offerto alla sua lacrimata memoria.
Il Canello nacque il 21 giugno 1848 a Guia, antichissima stanza de' suoi, sul
confine occidentale del Trevisano col Bellunese, da Alvise e da Regina Pinazza,
' Del Canello scrissero fra gli altri Giuseppe Gueezoni {Ugo Angelo Canello, commemorazione funebre Ietta
nell'Aula Magna della B. Università di Padova il 3 febbraio 1884); Pio Bajna, nella Perseveranza, 13 giugno 18S3;
Fkascesco d' Ovidio, nel Giornale di Filologia Romanaa n. 9; Fbancesoo Lobeszo Pullé nell' Aleardo Aleardi , 26 giu-
gno 1883.
' Storia della Lett, italiana nel secolo XVI, pag. 102.
UiLtora viventi. Modesta, non povera, come troppo si stampò, era la famiglia di
Alvise Canello, il quale tuttavia, vedendosi crescere intorno numerosa figliuolanza,
a' redditi del patrimonio avito dovette curare di aggiungere altri proventi, che trovò
nel commercio. Cosi provvide alle necessità domestiche, educò i figli, e fu volta
che ben tre ne mantenne insieme alla scuola. Non dirò miracoli del fanciulletto
Angelo, che anzi dapprincipio, pur mostrando precoce intelletto e sorprendente
memoria, non parve troppo amico de' libri; e solo pose amore allo studio su' quat-
tordici anni, consacrandocisi allora tutto, senza smettere più. Compi i corsi ginna-
siali e liceali nel Seminario, in quel tempo fiorentissimo, di Ceneda. Verso il ter-
mine del Liceo, ossequendo al padre, vesti 1' abito del prete; ma fu per poco. Già
allora fiero, libero, tale quale fu sempre , repugnandogli il sacerdozio, preferì ob-
bedire alla voce della coscienza, anzi che al comando paterno: e giltò la tonaca,
alienandosi il padre, e avventurandosi incontro all'ignoto avvenire con non
altro conforto che la fede in se stesso. Né si poteva attendere diverso partito da
lui e per 1' animo eh' egli aveva, e perchè già a forti ideali di libertà lo avea tem-
prato lo studio amoroso del Foscolo, che tanto gli piacque e lo accese fin dalle
scuole d'umanità da indurlo a premettere al nome proprio quello del suo poeta;
onde d'allora in poi fu Ugo Angelo. Nella Università patavina, incerto sulle prime
della via da eleggere, s'inscrisse alla facoltà medica, ma, « fiutala appena la ta-
vola anatomica se ne dichiarò soddisfatto», scrisse briosamente il Guerzoni,-e
dopo un mese, docile alla sua vera vocazione, passò alla scuola di filosofia e let-
tere, onde uscì laureato il 29 luglio '69.
Aspri furono questi anni passati negli studi universitari, durante i quali il Ca-
nello ebbe maestri insigni, come lo Zanella, il Canal, il De Leva, il Ferraj; ma
efficacissimo de' maestri gli riusci il dolore; il dolore, che fa pensare, e a lui affinò
r intelletto e fortificò il volere. Irritato il padre volle che pensasse a sé stesso il
figlio ribelle: pietosi frattanto, ma, senza colpa, non sempre sufficienti giungevano
i soccorsi della madre e del fratello Don Pietro, sì che il povero Ugo sofferse le
strette del bisogno. Quanto abbia patito in quel tempo ricordo che confidava egli
stesso più tardi a' suoi intimi. E avvenne per giunta che gli si guastasse anche la
salute, perchè, certa volta che da Padova, in un periodo di ferie, tornava alla sua
Guia, costretto a sostare sulla riva del Piave ad attendervi il battelliere, che lo
tragittasse alla sponda opposta, intanto che soffiava lungo il fiume procelloso, con
r usata violenza, il vento delle Alpi, fu investito dalle raffiche gelate, mentre era
sudato, e accolse i germi di un male, che non lo abbandonò più. Alto, diritto, po-
deroso, pareva un uomo formidabile; ma in quel povero suo petto covava perenne
una minaccia di morte. Di qui una lotta senza riposo tra lui, il disgraziato Canello,
pieno di fervido desiderio della vita, e questo occulto nemico, che della vita gli
avvelenava le fonti: ond'egli, già inclinato alla fiera solitudine pensosa, divenne an-
che più chiuso, anche più roinilo. Nullameno e l'abitudine al dolore, e la natura
sua, schietta troppo e forte per amare la falsità degli atteggiamenti eroici o roman-
zeschi, produssero in lui un concetto obiettivo della vita, che gli concesse una ras-
segnazione nobilmente serena alle leggi immutabili, verso cui son vani del pari
l'inno e la bestemmia. Nelle ore più cupe Sofocle Io innalzava dalla realtà misera
a sfere sublimi, e ricomponeva il suo animo in una calma superiore. Cosi in queste
strette egli non si fiacca, ma s' eleva, e s' afforza, e s' abitua a trovare la sola vera
gioia negli sludi e nella meditazione.
Ottenuto, dopo la laurea, all'Università di Padova il premio Dante inslituito
dall'Austria e mantenuto dal governo nazionale affine di promuovere gli studi dan-
teschi, profittò dello stipendio che gliene venne, e di un sussidio ministeriale, onde
quello stipendio fu ingrossato, per recarsi a Bonn alla scuola gloriosa di Federico
Diez. « Quest'uomo (disse egli più tardi accennando al grande suo maestro) io ho
avuto il bene di conoscerlo dappresso, di sentirne le piane ed amene lezioni per
lutto un anno; e le opere sue io le ho studiale con lungo amore, le ho lette, ri-
lette, irasunte. »' Prova immediata di questo studio alacre e severo fu l'opuscolo
« Il prof. Fed. Diez e la filologia romanza nel nostro secolo » " che il Ganello pub-
blicò poco dopo essere tornato di Germania. In esso non è ritessula la storia
intera della disciplina,^ ma si espone largo, limpido e sicuro il quadro delle opere
del Diez nel triplice dominio storico-letterario, esegetico, glottologico, quadro in-
cornicialo da sommarie indicazioni de' lavori anteriori e posleriori, sì da rendere
manifeste le condizioni degli sludi romanzi prima del Diez, la virtù potente del-
l'opera sua, l'attività meravigliosa da lui promossa. L'autore ci apparisce un
discepolo intensamente e acutamente studioso, inleso a profittare quanto sa e può
della scienza de' maestri, disposto ad assimilarsela facilmente, e insieme già ca-
pace e desideroso di discuterla, di correggerla, di fecondarla. ' Questo libretto è
' Casello , Saggi di Critica Letteraria , pag. 247.
' Fu pubblicato nella Rivista Europea, 1 novembre 1371 — 1 febbraio 1S72. — Non può Jirsi questa veramente
la prima pubblicazione del Canello, poiché la precedette un breve volume di versi. Il futuro romanista cominciò
anch'agli, da buon italiano, col suo fascetto di rime: Ricordi d'autunno, Padova Salmin, 1870. Nulla di straordinario
in questi versi; ma già rivelano nettamente l'animo forte, sano e gentile del povero Canello. V è delicato il sen-
timento; sciolta e sobria la forma: e sulla varietà de' tòni domina l'equilibrio virile del suo spirito che lo
tenne quasi sempre lontano dagli eccessi della passione.
^ ^ Naturalmente, scrisse il Canello, non può essere mio intendimento di dare una storia intera della filo-
logia e della glottologia romanza in questo secolo, e meno ancora della critica storico-letteraria. » pag. 4. Il Mo-
naci espresse la speranza che nella II'^ ediz. del suo libretto il Canello colmasse le lacune della I* {Riv, di FU.
Romanza, I, pag. 62); ma questa desiderata ristampa non comparve.
' L'autore avvertiva che alle molte reminiscenze della scuola e delle fatto letture avrebbe aggiunto qualche
nota propria; pag. 3. Sulla formazione del decasillabo, a pag. 16, egli e-spono una teoria nuova, che mantenne
sempre come può vedersi da posteriori pubblicazioni: Saggi, pag. 239-40; Nuova Antologia, XXIX, 18S1, pag. 529.
Vedi osservazioni, non sempre corrette, ad illustrazione del Boezio provenzale a pag. 32; etimologie diverse da ta-
lune del Diez a pag. 80-82.
uno de' segni del rinnovamento scientifico dell'Italia' seguilo al rinnovamento
civile: più direttamente attesta la rigenerazione degli studi romanzi anche fra
noi avviati dall'indagine fantastica, che aveva suscitata il Raynouard, all'indagine
metodica promossa da'seguaci del Diez, rigenerazione avvenuta per l'influsso della
scienza straniera, e per 1' opera di solenni, per quanto pochi ancora e solitari,
maestri nazionali. Il Canello ha egli pure il suo luogo onorevole in questo momento
della storia della filologia e della critica italiana. Malgrado 1' opera larga del Diez
e de' suoi scolari, diceva egli chiudendo il suo libretto, resta ancora molto a
fare; e invitava gì' italiani alla nuova palestra, nella quale tosto entrava egli stesso
fra i primi. La Rivista di Filologia Romanza, comparsa nel '72, s'apre con uno
studio del Canello già annunciato nell'opuscolo sul Diez,^ preparato quindi, in-
sieme ad un saggio sul Trevigiano rustico,' quando egli era poco più che uno
scolare: il che ho voluto notare, perchè prova che il Canello sagacemente aveva
scorto fin dal principio de' suoi studi di filologia romanza ove fossero lacune da
riempiere nell' opera del Diez e de' discepoli, e terreni vergini da dissodare.
Il Canello così ci si presenta dapprima come glottologo: e come tale lo ve-
diamo rivolgere le cure sue principali alla parie della nuova disciplina, che più
importava in Italia, allo studio scientifico della lingua nazionale. Già dal '72 trovo
ch'egli annuncia e promette la sua Polimorfologia italiana,'' che, più tardi,
si muterà nell'eccellente lavoro degli Allòtropi, e resterà^ degna Aq\C Archivio
ascoliano, il miglior segno de' suoi studi glottologici, e, nel complesso delle sue
opere, una delle più preziose testimonianze del suo forte e acuto intelletto, e di
quanto, se cosi presto non fosse stato rubato alla scienza, egli avrebbe ancora sa-
puto fare. E 1' anno successivo nella scuola di Padova, ove, dopo essere stato il pre-
cedente'72 professore del Ginnasio Comunale di Ravenna, l'antico discepolo rien-
trò quale docente privato di filologia romanza,'" matura il suo Vocalismo tonico
italiano, che comincerà a comparire agli studiosi nel seguente '74. " A questo punto
debbo notare che il Canello, sia pure nell'ufficio modestissimo di privato docente,
' G. Pakis lo ha definito « un des symptòmes ile l'introductiou eu Italie des bonnes métliodes scientiflques »:
lìomania, I, 237.
■■ « Storia di alcuni participii nell'italiano e in altre lingue romanze» pagg. 9-19 del I voi. della ifà-. del
Monaci. Vedi a questo articolo le osservazioni del JIussafia a pagg. 91-97, e V Appendice del Canello stesso a
pagg. 188-191 dello stesso volume. A tali suoi studi il Canello accennava già a pag. 57, n. della dissertazione
sul Diez.
' Questo saggio è annunciato nell'opera sul Diez a pag. 48, n. 2 e citato indi passim; ma non fu, cli'io
sappia, stampato. Utile, insieme al fratello Don Piero, riuscì il Canello all'Ascoli nello studio del Trevigiano
rustico: vedi Ardi. Glolt. I, pag. 416.
' Vedi nella Mivista di Filologia Romansa, I, pag. 58, 1' articolo del Canello sulla Grammatica storica del Foe-
KACiARi. A pag. 70 dello stesso volume la Polimorfoloyia canelliana è annunciata fra le prossime pubblicazioni.
' Ebbe tale nomina il Canello con Decreto 5 dicembre 1872.
" Vedi inviata di Filologia Romania, I. pagg. 207-225, in cui apparvero i primi 8 paragrafi del Vocalismo. Si sa
chela pubblicazione fu continuata, ma non compiuta nella 2c!(sc?»'yi del Groeber.
fu dei primi ad insegnare la nuova disciplina fra noi ; de' giovani romanisti fu anzi
il primo, perchè il Rajna non cominciò il suo insegnamento all'Accademia di Mi-
lano che nell'anno scolastico 1873-74. Ai contributi scientifici già accennati s'ac-
compagnavano pubblicazioni fatte, come il libretto sul Diez , per volgarizzare gli
studi romanzi fra i colti italiani, per ispiegarne ad essi, con la snella chiarezza e
la geniale vivacità che gli erano proprie, 1' essenza ed il metodo:' opera questa alla
quale il Canello presentava attitudini singolari. Ma e' era sempre per lui un pro-
blema punto glottologico da risolvere, quello del pane quotidiano, ch'egli potò as-
sicurarsi non già co' poveri compensi della docenza, ma co' frutti più sicuri del-
l'insegnamento nel collegio padovano Camerini, ove dal direttore prof. Don Domenico
Barbaran ebbe sempre ogni maniera di gentili soccorsi. Conio stesso amore s'ado-
perava per la scuola universitaria e per la scuola Camerini, per uso della quale
pensò e mise insieme il Commento a' Sepolcri del suo Foscolo, pubblicato nello
stesso anno '73. La glottologia dunque non escludeva la critica letteraria: nella
mente del Canello esse trovavano un' armonia, che più non si ruppe. Di questo
Commento dirò solo eh' esso fu il primo analitico e compiuto, che fu condotto con
criteri originali, che non poco giovò a' commentatori successivi, e che incontrò
sorti liete cosi da arrivare alla terza edizione.
Ne' due anni seguenti, '74 e '75, il Canello ci dà prova anche più lumi-
nosa della larghezza della sua coltura, e della elasticità giovenilmente pronta del
suo vivido ingegno presentandocisi professore di lingua e di letteratura tedesca alla
Accademia scientifico-letteraria di Milano, ove lo propose a tale insegnamento un
maestro e giudice solenne, l' AscoH, che lo credette degno di esso, perchè parlava
e scriveva il tedesco con una facilità ed eleganza, che un italiano di rado consegue. '
E cosi piacquero le sue lezioni, che il pubblico, dapprincipio poco numeroso, fini
per addensarsi e riempiere la vasta sala terrena dell' Accademia milanese. Ma solo
nel '76 il Canello, che aveva resistito all' offerta seducente d' una cattedra stra-
niera, ^ potè ottenere un ufficio conforme a' suoi desiderii, quando ebbe Y incarico
dell' insegnamento allora instituito della Storia comparata delle letterature neola-
tine presso r Università di Padova, incarico che al principio del successivo anno
scolastico si mutò nello straordinariato. Le riforme bonghiane de' regolamenti uni-
versitarii introducendo nelle nostre scuole di lettere l'invocata filologia neolatina
rappresentata fino allora, e da poco, solo ne' due principali istituti di Milano e di
Firenze, resero giustizia a' meriti ed alla aspettazione legittima di uomini, quali il
Monaci, il Canello, il d' Ovidio, che trovavano il compenso debito al loro amoroso
' Vedi neir elenco bibliografico sotto l' anno 1873.
Vedi GoEEZONi, oit. discorso pag. 10.
' Vedi ibid., pag. 11. Il Mcssafia offerse al Cauello la cattedra di Lingue Romanze all'Università di Gratz.
apostolato in (livore della nuova disciplina, accolta qui nel cuore della romanità fra
gli insegnamenti ufficiali dopo quasi tutti i paesi più civili d'Europa, ma finalmente
accolta. Il Canello null'allro chiedeva che un asilo quieto, ove, cessate le angosciose e
dannose incertezze del presente e dell'avvenire, gli fosse concesso di darsi intero agli
studi: 0 questo asilo lo trovò nella sua Padova, della quale poteva considerarsi cit-
tadino, e in cui tra le compiacenze della scuola, le voluttà sole a lui care dellavoro
assiduo, le gioie della famiglia, ch'egli, austero in sembianti, ma intimamente af-
fettuoso, senti il bisogno di formarsi, scorse il miglior tempo della sua breve esi-
stenza.
Fino al '76 egli, pur dimostrando intelletto robusto, sottile, ardito, co-
stanza e intensità di studi, per la sua giovinezza non aveva potuto mettere insieme
opera tale, che gli costituisse un nome: non era che una sicura e lieta speranza
della filologia italiana: ma incomincia tosto il periodo importante e fecondo della
sua operosità scientifica. Nel '77 pubblica i Saggi di critica letteraria: poi so-
spende altro lavoro, di cui discorreremo più innanzi, per compire, secondando la
giusta insistenza dell'Ascoli, il Polimorfismo già annunziato da parecchi anni: lo
troviamo ancora qualche tempo appresso tutto inteso all' opera stessa ed alla -S?or(«
della letteratura italiana nel sec. XVI, che ayewa assunto l' impegno di scrivere
per r Italia del Vallardi. Ma 1' Ascoli vuole un lavoro degno del suo Archivio e
delle speranze suscitate dall'autore, e manda a rifare più volte il Polimorfi-
smo : e il Canello rifa, e scrive ad un amico 1' 11 gennaio '79: « da due mesi in
qua ho lavoralo e rilavoralo sotto la ferula terribile ma utilissima dell' Ascoh. « Come
fu contento, lo ricordo, quando il grande maestro si dichiarò soddisfatto! Urgeva
mandare bene innanzi il Cinquecento, che ormai lo ebbe tutto: « quanta fatica,
egli scrive a proposito, per far cosa che sarà appena tollerabile! » Insieme però si
occupa anche de' Sepolcri del Foscolo, e ne rifonde il conmiento. Viene l'ago-
sto '80: il Cinquecento è ormai compito e pubblicato: ma il Canello non riposa:
l'energia intellettuale cosi esercitata gli si afforza, ed egli si caccia, per usare la
sua espressione, in un laberinto provenzale, nientemeno che nell'impresa dell'edi-
zione critica del più sibillino de' trovatori, di Arnaldo Daniello. L'anno seguente è
lutto accanitamente inteso a interpretare 1' oscurissimo poeta « spendendovi intorno
moltissimo tempo e non poco denaro, per darlo gratis (il lavoro suo) a un editore
tedesco. » Ma non gli basta: egli pensa di provvedere le nostre scuole universitarie
di una crestomazia provenzale diversa da quella del Bartsch, e lavora intanto su
' Per queste notizìu mi valgo, oltre che della memoria mia, di lettere del Canello ad uno de' pochi dilettis-
simi amici suoi, il prof. Luii;i Sailor, morto or è poco. Mi è assai doloroso dover volgere in un mesto rimpianto le
attestai oni di riconoscenza che avrei inteso dirigergli por 1' aiuto eh' egli, sempre cortese e buono, aveva voluto
prostarmi.
Peire de la Cavarana: ' insieme vuole dilTondere la conoscenza e il gusto della li-
rica irobadorica fra il nostro pubblico, e bianda fuori la Fiorita di Liriche pro-
venzali tradotte, a cui aggiunge, collo scopo di volgarizzare anche 1' epopea fran-
cese, saggi di versione della Chanson de Roland. È febbrile il lavoro di questi anni:
assedia Daniello, e inniiagina e prepara opere nuove, come una storia della lettera-
tura provenzale, una raccolta di classici italiani per le scuole. Finalmente in
principio del 1883 esce il testo critico di Arnaldo. Nell'anno stesso pubblicansi
altre cose sue minori: e tosto egli ripensa un suo vecchio disegno, una Storia della
lingua italiana, messo da parte nell'urgenza di altri lavori, e adesso ripreso pacata-
mente. Di quest' opera aveva già dato saggio nella stampa e nella scuola; '' ma ora
egli intendeva compirla.
Tanta attività ogni giorno crescente concesse al Canello di mettere insieme
nel breve giro di poco più che un decennio una cospicua serie di scritti, i piìi im-
portanti de' quali furono: i Saggi di critica letteraria; gli Allòtropi italiani; la
Storia della letteratura italiana nel secolo XVI; La vita e le opere del trovatore
Arnaldo Daniello. Discepolo e amico del Canello, io non assorgo qui all'ufficio
severo del critico; ma restringo anche questa parte dell' opera mia ne' limiti mode-
sti della affettuosa commemorazione.
Fino al '77, in cui uscirono i Saggi, il Canello parve in ispecie un promet-
tente indagatore della storia della parola; la pubblicazione di essi rese manifesto
che il giovine glottologo indagava e meditava anche la storia delle letterature; che
presso il linguista e' era il critico. « Intelletto acuto di critico, dottrina multiforme
di filologo, e maturità di pensatore che risale dai fatti alle leggi » come a ragione
fu notato, ■ dimostransi in questo primo volume, nel quale 1' autore espone il con-
cetto della vita e dell'arte, eh' ei s'era formato, e sotto di esso ordina e armonizza le
tre parti del libro: Letteratura generale; Letterature neolatine; Letteratura tedesca.
Qual è questo concetto? Importa rilevarlo perchè non so che il Canello l'abbia poi mu-
tato. Cresciuto all'amore dell'ellenismo nella scuola del Ferraj, studioso del Lessing e
del Goethe, egli vagheggiava, come supremo ideale, 1' armonia intima del pensiero e
del fatto, e trovava che questo ideale fu realtà nel periodo classico ionico-ateniese,
' Il Canello voleva scegliere le liriche trobadoriche migliori in ordine all'importanza storica del contenuto
ed ai meriti della composizione, e sarebbero state le stesse che formarono la Fiorita tradotta. Di queste avrebbe
offerto nella sua Crestomazia i testi critici.
■' Son saggio di quest' opera i Diporti Filologici, per i quali vedi l'Elenco bibliograiioo agli anni 1S76, 1877,
1878; e l'articolo Lingua e Dialetto pubbl. nel Qiorn. di FU. Romanza, I, pagg. 2-12. Nella scuola rammento un corso
sugli inglesismi e su' francesismi nell' italiano, che doveva entrare nell'opera, fatto il 1877-78, e ripetuto nell'ul-
timo anno dell'insegnamento del C.inello, 1882-83. Il Guekzoni pubblicò a pagg. 32-33 del suo Discorso F Indica
dell' opera, che corrisponde a quello comunicatomi dal prof. Sailer, a cui fu inviato dal Canello già nel '77. Se lo
spazio me lo consentisse trarrei dai doei^menti del Sailer anche la prefazione nello stosso '77 preparata.
" G. Teezza, Sttidi Critici, 1S78, pag. 271.
— XSXII —
ed animò 1' arte in esso prodotta, la più bella, che abbia rallegrato il mondo. Que-
sl' armonia rappresenta l'età virile dell' umanità, la quale, come ciascuno de' suoi
componenti, corse i tre stadi della vita, ed ebbe la sua giovanile acerbità, la maturità
e la vecchiezza: fu giovine nell'oriente indiano ed ebraico, ove la civiltà s'arrestò ad
una eterna infanzia, fu matura, lo vedemmo, nella Grecia, bamboleggiò decrepila
nell'alessandrinismo; si ravvivò nell' età migliore di Roma e della sua letteratura per
ricadere spossata nella senilità bizantina, mentre ringiovanì nel medioevo occiden-
tale, e, ritemprala, riascese 1' erta faticosa raccostandosi, col rinascimento italiano,
alla somma vetta raggiunta nell'Eliade; fu risospinta da influenze avverse, ma potè
mano mano riguadagnare le cime perdute ne' rinnovamenti spagnuolo, inglese,
francese e, infine, meglio ancora che altrove, nella Germania luminosa del Goethe,
col quale rifiori l'ideale ellenico, che, vinte le estreme resistenze opposte dal ro-
manticismo moderno, ormai, nella rinnovazione scientifica e morale della società
europea, ci domina e e' inspira. La virile armonia del pensiero e del fatto, del-
l' ideale e della realtà, s' estrinseca nell' arte classica; la disarmonia infantile o se-
nile del volere e del potere s' esprime nell' arte romantica.
Ora questo classicista, com'egli con l'usata franchezza si protestava,' anzi
che volgersi tutto allo studio della letteratura ellenica e latina, od a quello della ri-
nascenza, consacrava il meglio delle sue forze e del suo tempo alla investigazione
della civiltà medievale in cui, secondo il suo pensiero, il romanticismo era sotten-
tralo liberamente e vastamente al classicismo. Come si spiega questa contraddizione?
Perchè egli innamorato di Omero e di Sofocle, di Virgilio e di Orazio, dell' Ariosto
e di Cervantes, di Shakespeare e di Goethe si staccava dalle divinità olimpiche del
suo pensiero, lasciava le raggianti sfere della loro poesia, e scendeva nel buio del-
l' età di mezzo? Il Canello non era solo un critico dell' arte; era anche un critico
della storia; e se l'arte giudicava dietro la guida del Lessing, meditava la storia
dietro la guida del Gervinus. Ora, la storia non s' intende se si rompe in fram-
menti, ma se si prosegue nella sua maravigliosa continuità, nel suo svolgimento
fatale. Questa necessità d' ordine scientifico conciliantesi col naturale allettamento
degli studi nuovi e con ragioni di opportunità materiale trasse il Canello dallo
studio de' periodi virilmente classici a quello de' periodi giovanilmente romantici ;
dall'età matura della storia o dell'arte all'età delle origini. Per lui, che agli studi
romanzi non fu condotto, come altri, dalla corrente romantica, il medioevo presenta
un interesse essenzialmente storico. « Bisogna che gli uomini e le nazioni, scrisse
egli, arrivali a certi punti del loro svolgimento, ripieghino indietro lo sguardo, e
notino le vittorie riportale, e le soffcrle sconfitte; ricordino onde sono parlili, per
Velli Saggi di Crii, Leti,, pag. 119.
sapere ove debbono arrivare. » ' La bontà estetica poi dell' arte medievale per lui
era assai relativa: « questa poesia medievale si studia, non per l' interesse artistico,
ma per r interesse storico, perchè a noi piace vedere la continuità nella storia della
cultura, perchè ci piace scoprire, s'è possibile, le origini delle cose tutte, e in
ispecie della poesia. » -
Dalla considerazione del pensiero dominante ne' 5a/7^i del Canello non pos-
siamo ora scendere allo studio minuto di essi. Vedemmo quale giudizio ne abbia
dato un critico eminente; aggiungeremo che la- parte migliore di questi scritti è
senza dubbio 1' ultima sulla letteratura tedesca, che il Canello trasse dalle belle le-
zioni fatte all' Accademia scientifico-letteraria di Milano. « Lo studio su Goethe,
scrisse già il Trezza, è uno de' più compili e si legge fruttuosamente anche dopo
la monografìa stupenda del Lewes. « ' Ma 1' opera di lunga lena, in cui meglio si
spiegarono le attitudini del Canello alla forte concezione ed al largo studio della
storia letteraria, fu la Storia della letteratura italiana nel secolo XVI. Come
ne" Saggi, e come, più tardi, nel tentativo di Storia letteraria della Provenza pre-
messo alla Fiorita di liriche trobadoriche, il Canello considera e studia anche qui
la letteratura quale una vera e propria funzione della vita evolutiva della società.
« Lo studio delle forme c'importa, egli avverte: senza conveniente rappresentazione,
nessun contenuto ha valore; e la forma è poi generata in questo o in quel modo
dalla qualità del contenuto, cosi che per questa intima loro connessione non si
può giudicare dell' uno senza tenere stretto conto dell' altra. Ma l' obbietto primo
della nostra ricerca dovrà pur sempre rimanere il contenuto, vale a dire gl'ideali
e le idee che si mostrano nelle forme letterarie del cinquecento. » " Questi ideali
e queste idee sono la rifrazione della realtà nella fantasia del poeta e nel pensiero
dello scienziato; e poiché, vivendo nella fantasia e nella mente degli uomini, tendono
necessariamente ad attuarsi, riescono fattori potenti della vita reale presente e fu-
tura: gì' ideali dunque e le idee fluiscono dalla realtà, e sovr'essa influiscono. Quale
fu la vita reale pubblica e privata del cinquecento in Italia? Data quella premessa,
spunta necessario questo quesito. E il Canello risponde ad esso nei due primi ca-
pitoli della sua Storia, a' quali servono di complemento e d'illustrazione nel capitolo
successivo le biografie di sei fra i più insigni scrittori del tempo, del Machiavelli,
del Guicciardini, dell'Ariosto, del Bembo, del Tasso, del Bruno. Nella vita pub-
blica, uscendo dalla disgregazione barbarica medievale, si eran venuti costituendo e
si rassodavano gli Stati; nella vita privata si formava un'altra unità, la famiglia.
Queste tendenze e questi fatti diventano ideali ed idee nella testa del poeta e del
' Tedi Saggi di Crii. Lett, pag. 154.
■ Vedi ibid., pag. -243.
^ Vedi Trezza, oj). e ?. cit.
' Vedi pag. v-vi.
pensatore: e nel corso dell'opera l'autore esamina come si riflettano nelle forme
letterarie, nella poesia narrativa, nella lirica, nella drammatica, nella storiografia,
ne' discorsi, ne' dialoghi e ne' trattati scientifici. Allo studio del contenuto della
nostra letteratura del cinquecento segue 1' esame delle teoriche letterarie e delle
questioni linguistiche allora escogitate e dibattute. Questo il quadro offerto dal Ca-
nello. É buono? È cattivo? Censure non poche possono farsi e furono fatte a que-
st'opera; ' ma certo è, e da tutti fu riconosciuto, che, senza contare la bontà di
talune parli, 1' ordinamento simmetrico e vigoroso dell' insieme svela qualità supe-
riori neir ingegno dell'autore, e che d'uno studio comprensivo della letteratura del
nostro cinquecento fu questo il primo tentativo, e fu tentativo geniale e originale.
Alcune accuse, del resto, prevenne lo stesso autore confessando che difetto di tempo
e di mezzi gli tolse di condurre l'opera sua come avrebbe voluto e potuto: ' al che
aggiungo, che il Canello, con la tenacia a lui propria, rivedeva il suo libro, e va-
gheggiava, secondo una volta mi disse, di svolgere largamente coli' aiuto, se gli
fosse riuscito, di suoi allievi, gli studi avviali sopra un soggetto tanto importante e
a lui cosi caro.
Egli considerava « il dugento provenzale, il cinquecento italiano e il settecento
tedesco, i tre più floridi momenti dell' arte moderna, come una graduale riprisli-
nazione della vera arte antica. » ' Dell' amor suo alla letteratura delle ultime due
di queste epoche conosciamo ormai le prove; resta che accenniamo al massimo dei
suoi lavori intorno la letteratura provenzale, tiW Arnaldo Daniello. Il linguista,
che della sua virtù aveva ormai offerto splendido saggio neg\ì Allólropi, e il critico
qui si riunirono per superare una difficoltà cercata con l' ardimento de' forti. Il
Canello, sdegnoso delle vie comuni, amava affrontare i problemi più oscuri: « le
cose difficili 0 anzi difficilissime, scrisse egli slesso, hanno sempre avuto per me
una particolare attrattiva. » ' Cosi, confidando giustamente nel suo acume affinalo
da quotidiano esercizio, egli si pose a spiegare un poeta arduo a' contemporanei ed
a' migliori provenzalisti moderni. Tornerebbe superfluo che io lungamente insistessi
a discorrere ùeW Arnaldo ; esso è troppo recente e troppo conosciuto da' romanisti.
Questa sudala opera non solo ha il merito di essere il primo testo critico di un
trovatore elaboralo fra noi, ma onora in genere gli sludi romanzi, poiché, secondo
disse anche il Bartsch, ^ tanto studio e tanta sollecitudine non erano ancora stati
consacrati a nessuno degli antichi poeti ocitanici. So che 1' enigma forte non fu
' Vedi D. Gkoli, Nuova Antologia, XXIV, 18S0, pagg. 332-356; G. Koertixg, Litcraturblati fiir germ. und rom.
Pini. 1882, nuiQ. 1, col. 22-26; F. Tokbaca, Giorn. di FU. Romanza, IV, pagg. 117-122. Non mi occupo di altre recen-
sioni meno importanti.
' Vedi pag. vii nella Prefaz. all' opera.
' Vedi Saggi di Orit. Leti., pag. 119, UT.
' Vedi Arnaldo Daniello , pag. ni.
'■ Vedi la sua recensione dell'opera del C.inello nella Zcitschri/t del Groeber, VII. pag. 582.
interamente chiarito; e lo presemi il Caneilo stesso nel porsi al cimento: « fallirò
anclie nell'impresa, egli pensò; ma è pur sempre sperabile che per via io venga
rimovendo questo e quel!' ostacolo, cosicché meno disagevole essa abbia a riuscire
a chi volesse ritentarla dipoi.» ' Nell'impresa egli non è fallito, ed ha fatto ben più
che rimuovere questo e quell'ostacolo: è certo che se per ogni parte non furono
rese diafane le caras rhnas d' Arnaldo, la sua poesia nel complesso non è più cosi
densamente problematica, e certo è del pari che il Caneilo ha dimostrala una cosi
geniale penetrazione, e diede saggio di un metodo cosi lucido e giusto specialmente
neir ordinamento del materiale usalo per l'edizione e nella costituzione del testo da
recare il miglior servigio alla scienza ed al suo nome.
Tale r opera scientifica del Caneilo. Egli fu dunque glottologo e critico; ma e
come glottologo e come critico, poiché in lui dominava la tendenza speculativa,
causa di suoi pregi e di suoi difetti, ci apparisce anzi tutto un pensatore. Cercare
e ordinare i fatti non gli bastava: egli voleva scoprire la legge, che li ha prodotti e
li governa. A questo miriamo tutti; ma è necessario possedere la serena facoltà di
attendere dal numero crescente delle prove la possibilità di stabilire sicure dottri-
ne; altrimenti la legge de' fatti non riesce la sintesi positiva o più probabile delle
indagini particolari obbiettive e minute, ma una nostra frettolosa creazione fanta-
stica. Di qui la coscienza negli studiosi della necessità di rendere sempre meglio
perfetta 1' analisi de' fatti , di affinare il metodo della ricerca per poter avere così
abbondanti, così certe, così ordinate le prove da ottenere un procedimento critico
preciso e conclusivo. Il Caneilo invece dalla investigazione dei fatti trascorreva
talora troppo presto, coli' amore del poeta che persegue una imagine bella, a fer-
mare la teoria; nò sempre sapeva resistere al desiderio di supplire colle gagliarde
sue forze ideative al difetto di materiale, ricavandone cosi costruzioni geniali, in
cui il filosofo e r artista si confondevano, ma non effettivamente solide. La brama
impaziente del nuovo qualche volta lo trasse ad abusare delle qualità preziose delia
sua intelligenza, e lo illusero le parvenze del paradosso. Ma 1' armonia dell' ardi-
mento e della prudenza è di pochi privilegiati: forse nella maturità piena degli
anni e degli studi il Caneilo, che ad essa mirava, sarebbe riuscito a comporla in
sé stesso attenendo per tal modo le splendide promesse del suo ingegno.
E quale fu egli come uomo? Candido operaio della scienza, lungi dalla realtà
volgare, in una sfera alta cercava le gioie pure del pensiero; onde la sua vita fu
tutta raccolta in una meditabonda solitudine. Figlio de' campi serbò intatte la
schiettezza e fierezza native; ebbe sola religione la verità. Si temprò saldamente nella
lotta ostinata per la esistenza : fu quindi severo e pensoso. Aborri da vanitosi at-
teggiamenti, sdegnò facili plausi; ambi solo, intellettualmente e moralmente aristo-
' Vedi Prefazione aW Arnaldo, pag. in.
— XXXVI —
cralico, l'ardua lode de' sommi. Come tulli i forti fu semplice e buono: non
isprecò tuttavia i tesori del suo cuore squisito, ma li serbò a pochi degni, co' quali,
e nella intimila confidente della famiglia, l'uomo rigido scioglievasi a festività se-
rena. Dopo durissime prove, colle sole sue forze, era giunto a procurarsi lieto e
sicuro l'avvenire. Tutto oramai gli arrideva: gli era rinata la fede nella ribelle sa-
lute: r ordinariato e il premio di Montpellier' meritamente avevano compensato le
sue lunghe fatiche. Fuori sonava onorato il suo nome : nella casa lo beava la grazia
ineffabile del crescente figliuolo: egh potè dirsi finalmente contento.' Ma questa
frase gli parve fatale; non doveva, povero Canello, essere felice. Il 29 maggio 4883
uscito a diporto, inesperto auriga d' una rozza bizzarra, dalla sua casa di campa-
<Tna, fu travolto in una corsa perigliosa, balzò di carrozza per salvarsi, ma, ca-
dendo, appuntellò il grave corpo sul gomito sinistro, che si frantumò. Vano riuscì
ogni soccorso: perchè avesse più efficace e sollecita assistenza fu tradotto dalla villa
neir ospitale di Padova; ma l' infezione si diffuse irresistibile nel suo organismo, e
sull'alba de' 12 giugno si spense.
Nur der verdicnt sich Freiheit wie das Leben
Der taglici! sie erobern muss.
Con l'opera assidua egli s'era conquistali e si conquistava ogni giorno questi
due beni supremi: la libertà e lavila; egli dunque se li meritava. Invece sparve giù
nell' eterno buio a irentacinque anni, e non vive più, povero maestro, povero ami-
co, se non nella fama delle sue opere, nel pianto e nel desiderio della sua vedova
e del suo orfano, nella memoria degli amici devoli e de' suoi allievi.
Vincenzo Crescini.
' ottenne la promozione ad ordinano con E. Decreto 9 novembre 1SS2. — È noto che la Società per lo
sti'.dio delle lini/ue roramizc residente a Montpellier gli assegnò per VAniaìdo Daniello il premio 'che aveva desti-
nato ne'snoi concorsi del 1S83 « au meilleur travail de pliilologie romane > sia nel dominio dell'oc che dell' 0(7.
Vedi Revue. des langues romanes, t. XXIV, pagg. 15-16.
- . Ah! Fanny, • esclamava egli la mattina del 20 maggio, volgendosi con insolita gaiezza alla mesta com-
pagna della sua vita, « Ah Fanny, ora sono contento ! »• Gceezoxi, Disc. pag. 4. Poche ore appresso avs-eniva il
funesto accidente, qui sopra accennato, che trasse il Canello a morire.
XXXVII —
ELENCO DELLE OPERE E DEGLI SCRITTI VARI
DI UGO ANGELO CANELLO.
1870. — Ricordi ci' Autunno. Versi. Padova, Fratelli Salmin.
1871-72. — Il prof. Feci. Diez e la filologia romanza nel nostro secolo. Rivista Europea, 1 novembre
1871 — 1 febbraio 1872.
1872. — Storia di alcuni participi nelV italiano e in altre lingue romanze. Rivista di Filologia Ro-
manza, Voi. I. p. 9-19.
— A proposito ci' un luogo della Vita Nuova; nota filologica. Ibid. p. 46-51.
— FoRNAciARi. Grammatica Storica della lingua italiana estratta e compendicda dalla Gramm.
romana di Fed. Diez. P. I. Morfologia. — De-Mattio. Sintassi della lingua italiana,
con riguardo alle pirincipali attinenze della Sintassi latina e greca. Ibid. p. 67-60.
[L'estratto di questi ultimi tre articoli comparve sotto il titolo: « Tre studi neola-
tini » Imola, Galeati].
1873. — Del Metodo nello Studio delle Lingue Romanze. Prelezione tenuta nella R. Università di
Padova. Rivista Europea, 1 febbraio 1873.
— Sidla Storia della Lingua Italiana. Lezione tenuta nella R. Università di Padova. Estratto
dal Corriere Veneto giornale padovano.
— Dei Sepolcri, carme di Ugo Foscolo commentato per uso delle scuole. Padova, tip. del
Seminario, M. Bruniera.
— Recensione del I Voi. àeil' Archivio Glottologico Italiano, neW Archivio Veneto. Tomo YL.
parte I. p. 139-49.
1S14:. — Suir origine dell'unica forma flessionale del nome itcdiano, studio di Fr. d'Ovidio, Pisa
1872. Recensione nella Riv. di Filologia Romanza , Voi. I. p. 129-33.
— Della « Positio Dehilis » nel latino. Rivista di filologia e d'istruzione classica, Anno li.
p. 226-35.
— Appendice alla « Storia di alcuni paìiicipii. » Riv. di FU. Romanza, Voi. I. p. 188-91.
— TI Vocalismo tonico italiano : §§ 1-8. Ibid. p. 207-225.
— Recensione del II Voi. dell' Archivio Glott. Italiano Ibid. p. 273-75.
1875. — Etimologie. Ibid. Voi. H. p. 111-12.
— Il GidnicelU è bolognese? Ibid. p. 116.
1876. — La Domenica mattina, daU' alemannico di P. Hebel. Nel Le Prime Letture del prof. Luigi
Sailer (Milano), Voi. dell'anno VII. p. 31-32.
— Lingue Sintetiche Lingue Analitiche. Ibid. p. 171-76.
— Le Corti cV Amore: I. La favola. Ibid. p. 286-88.
— » » II. Origine e morale della favola. Ibid. p. 300-4.
— Diporti filologici. I. A tavola. Ibid. p. 345.
— Federico Diez e le lingue neolatine. Illustrazione Italiana,, 20 agosto 1876, p. 183.
1S77. — P. Rajna, Fonti dell' Orlando Furioso. Recensione nella Zeitschrift filr Romanische Phi-
lologie. T. L p. 125-30.
— Il Vocalismo tonico italiano. §§ 9-11. Ibid. p. 610-22.
— Perder V erre. Ibid. p. 667.
— Saggi di Critica Letteraria. Bologna, ZanicbeUi.
— Diporti filologici. II. Abiti esterni ed Abiti inferni. Nel Le Prime Letture. VIII. p. 71-79.
— XXXVIIl —
lS~tl. — Diporti fiìoloffici. III. Divertimenti. Nel Le Prime Letture. Vili. p. 119-25.
_ . » IV. Vita Pubblica. Ibid. p. 23440.
_ :, » V. Monete. Ibid. p. 286-88.
— !> » VI. Industria e Commercio. Ibid. p. 326-33.
1878. — Lingua e Dialetto. Giornale di FU. Romanza. Voi. I. p. 2-12.
— Sopra una canzone di Gino da Pistoja. Lettura di P. Canal. Recensione. Ibid. p. 57-58.
— a Arrivare. » Le Prime Letture. IX. p. 26-28.
— « Strada e Boute. » Ibid. p. 44-48.
— « Cieco, Orbo e Aveugle » Ibid. p. 58-60.
— « Beccajo e Macéllajo. » Ibid. p. 136-,S8.
— « Olio ed Oglio. > Ibid. p. 168-70.
1879. — Die Biographie des Trobadors Guillem de Capestaing und ihr historischer Werth von
Emil Beschnidt. Recensione. Giorn. di FU. Romanza. Voi. II. p. 75-79.
— Gli Allòtropi italiani. Archivio Glott. italiano. Voi. III. p. 285-419.
1880. — Storia della Letteratura italiana nel secolo XVI. Milano, Vallardi.
— Dei Sepolcri, carme di Ugo Foscolo comm. per le scuole. II ediz. interamente rifusa. Pa-
dova, Draghi.
1880-81. — Peire de la Cavarana e il suo serventese. Giornale di FU. Romanza. Voi. III. p. 1-11.
1881. — Fiorita di Liriche Provenzali tradotte. Bologna, Zanichelli.
— Versioni dalla Chanson de Roland. Per nozze Turazza-Ferraj.
— » i> » » Nuova Antologia. XXIX. p. 529 sgg.
1882. — Letteratura e Darwinismo. Lezioni Due. Padova , Draghi.
— Dante imitatore dei Provenzali. Domenica Letteraria. Anno I. n. 34.
1883. — La Vita e le Opere del Trovatore Arnaldo Daniello. Edizione critica, corredata delle va-
rianti di tutti i manoscritti, d' un' introduzione storico-letteraria e di versione, note,
rimario e glossario. Halle , Max Niemeyer.
— Due versi greci nella Divina Commedia, Convivio (Siracusa) Anno I. n. 1.
— <j Ad inveggiar cotanto paladino. » Ibid. I. 3.
— Rapporto sulla « Collezione di opere inedite o rare dei primi tre secoli della lingua. » Li-
teraturblatt fiir germanische und romanische Philologie. IV. 1.
— Rapporto sugli ultimi volumi della Scelta di Curiosità Letterarie. Ibid. IV. 6.
— Dei Sepolcri ecc. Ediz. Ili interamente rifusa e aumentata d'una introduzione. Padova,
Draghi.
— Della obbiettività nella critica. Lettura fatta alla B. Accademia di Scienze , lettere ed arti
in Padova, e pubblicata nella Rivista Periodica de' lavori di essa. Trimestre III e
IV del 1883, voi. XXXIIL
A questo Elenco è da aggiungere una serie di articoli bibliografici pubblicati nel mi-
lanese Corriere della Sera e firmati Sylvanus.
Il Canello lasciò anche scritti inediti. A me sgraziatamente non fu concesso, per
quanto abbia tentato, di vederli; dal Guerzoni, che a p. 31 del suo Discorso ac-
cenna a « tutta la congerie del materiale inedito, » rilevo unicamente che sono
numerosi. Lo stesso Guerzoni mi assicurò che l' opera migliore delle postume
è il Disegno d' una Storia della Lingua Italiana. Oltre alle Lezioni sulla Lettera-
tura Provenzale già notate, indico qui, sempre valendomi del citato Discorso del
Guerzoni, p. 31. n. 2, una traduzione compiuta delle Affinità Elettive del Goethe,
una versione in prosa della Chanson de Roland, una novella originale di Sylva-
nus. Aggiungo per mia parte che , secondo quanto ebbe a dirmi certa volta il
Canello stesso, devono trovarsi fra le sue carte i capitoli inediti del Vocalismo
tonico italiano.
V. C.
MISCELLANEA
FILOLOGIA E LINGUISTICA.
UEBER DIE NATIONALITAT DER BULGAREN.
In der zweiten Halfte des siebenten Jahrhunderts unserer Zeitrechnung —
einige setzen die Begebeiiheit in die Zeit zwischen 660 und 668 — eroberten die seit
4^5 geschichtlich bekannten Biilgaren das von dem slavischen Stamme der Slovenen
bewohnte Mòsien. Schou im zehnten Jahrhunderte waren die Eroberer in der Masse
der Slovenen untergegangen : tò twv XdXojBsvòJv -jévoi; eiV oóv BouXYàfiwv. Das so
entstandene Volk redete die slovenische S^irache, die schon friili auch die bulga-
rische liiess (Vita Clementis e. 2). Dass das Volk bald ausscliliesslicli das biilgarische
genannt wtirde, hat in dem politischen Uebergewichte des nichtslavischen Bestand-
theiles des Volkes seinen Grund. Nicbt die Zahl, sondern die staatliche Bedeutung
ist bei der Namengebung entscheidend , wie die Namén Frauken, Russen u. s. w.
deutlich zeigen.
Was fur eiA Volk waren nuu die Bidgaren? Dass sie keine Slaven waren, darf
als unbestreitbar angesehen werden; allein in der Beantwortung der Frage, welcher
Vòlkergruppe sie zuzuweisen seien, gehen die Forscher auseinander. Zeuss 722
meint, dass sie, mit den Huunen verwandt, zum grossen Nomadengeschlechte der
Tlirken gehòrten. Safafik, Sebrané spisy 2. 176, hàlt sie fur eineu Zweig des iin-
nischen Volkes. Derselben Ansicht ist Peschel 409. Nach Eòsler, Romànische
Studien 251 , 259 , waren die Bulgaren ein Stamm der von ihm fiir Ugrier gehaltenen
Samojeden oder diesen zunàchst verwandt, wobei namentlich an die Juraken nnd
Ostjak-Samojeden gedacht wird. P. Hunfalvy, der Vàmbéry's Behauptung von dem
tiirkisclien Ursprunge der Bulgaren bekampft, meint, die Bulgarensprache sei
keine ausschliesslich tiirkisclie, sondern vielmehr eine ugrische, d. i. finnische,
gewesen (Vàmbéry's Ursprung der Magyaren 15). Die Gelehrten rechnen demnach die
Bulgaren theils zu den Turken, theils zu den Finuen, theils endlich zu den Sa-
mojeden. Der unbestimmte Ausdruck « Altaier » ist mit Eecht aufgegeben worden.
Indem ich nun die Streitfrage priife, mòchte ich vor allem die Samojeden
beseitigen : Ròsler's Griinde scheinen mir niclit beweisend. Was jedoch die Turken
und die Finnen betrifft, so mochte'icb beide Volker an der Bildung der bulgarischen
Nationalitàt Theil nehmen lassen, die ersteren als die fuhrenden, die letzteren als
1
ilie folgendeu , folgsameu. Mir scheint dies mit deu in der Gescliiclite hervortretenden
Naturanlagen beider Vòlker im Einklange zu stehen. In welchem Zahlenverhiiltnisse
sie an der Bildung der Nationalitàt der Bulgaren Antheil haben, isfc ein Geh.eimniss
und wird es filr alle Zeiten bleiben, da wir hier nicht wie bei den Magyaren eine
lebende Sprache befragen kònnen. Die Sprachen der Drànger und derjenigen, die
ilmen Heeresfolge leisteten, sind verklungen. Dass in alter Zeit eine Ideine Anzahl
kraftvoUer Fiihrer ein zahlreiches Volk wie eine Heerde vor sich ber nnd in
Schlachten treiben konnte , zeigfc die Geschickte der Wenden , wie sie uns Fredegar
aus dem siebenten Jahrhundert erzàhlt: « Winidi Befulci (Praefulci) Chunis fuerant
jam ab antiquitus, nfc cum Chuui in exercitu centra gentem quamlibet adgre-
diebant, Ckuni prò castris adunato illorum exercitu stabant, Winidi vero pugna-
bant. Si vero ad vincendum praevalebant , tuno Ckuni praedas capiendum adgre-
diebant; sin auteni Winidi superabautur, Ckunorum auxilio fulti vires resumebant.
Ideo Befulci (Praefulci) vocabantur a Ckunis, eo quod duplici in congressione
certaminis vestita praelia facieutes ante Ckunos praecederent ». Nack Zeuss 736
entkalt der Scklusssatz eine misslungene Etymologie: bei he sckeint an his gedackt
worden zu sein. AVer praefurci statt praefulci liest, erhàlt eine Form, dio niclit
nur einen altsloveniscken préduborici [Vorkampfer, ;tpó[xay_o?] so genau als mòglick
entsprickt, sondern auck in die KStelle vollkonimen kineinpasst. Nackweisbar sind
altslov. borici àYcavtarfji; und prédùborinikù 7Cfjó|j,ay_oc. Daker ist die Stelle zu
iibersetzen: « Die Wenden dienten den Hunnen von altersker als Vorkampfer »
u.s.w. Bei den Ziigen der Magyaren mogen die Tiirken die Eolle der ikneu
stammverwandten Hunnen , ^ie weit zablreickeren Finnen kingegen die der Wen-
den gespielt kaben. Das Magyariscke ist eine finnisoke Spracke.
Das kier dargestellte Verkàltniss ist geeignet das Ràtksel zu lòsen, wie
es kam, dass so viele gewaltige Vòlker, die ganze Liinder mit Sckrecken erfullten,
in kurzer Zeit spurlos aus der Gresckickte versckwinden , wie die Avaren, von
denen Nestor sagt: pogybosa aky Obre, ikiize néstì plemeni ni naslèdinika. So
gingen auck macktige deutscke Vòlker unter, wie die Gotken, Gepiden, Sueven,
Burgunden.
Nodi eine Bemerkuug sei mir gostattet kier anzuscklicssen. Hinter den Slaven
im Osten woknen nicktariscke Vòlker, die die keutige Etknograpkie in drei Gruppeu
zerfallt und zwar, wenn man vom Norden gegen Sùden fortsckreitot, Samojeden,
Finnen (UraUer) und Tiirken (Altaier). Von diesen Vòlkern kaben die Tiirken
zaklreicke Eroberungsziige gegen Westen unternommen, bei denen ikneu wohl
mekr als einmal Finnen Heeresfolge leisteten. Sckon der tinilbertroflEene Zeuss kat
die Hunnen, die Bulgaren, die Avaren, die Ckazaren, die Petsckenegen und die
Kumanen, sowie einige miiider bedeutende Vòlkersckaften als Tiirken erkannt.
Damit stimmen neuere Forsokungcn iiborein : man vergleicke Golubovskij's gelekrte
Abliandlung: Pecenégi, Torki i Polovcy,iii den liiewer Universitàtsberickteu, 1883,
Màrz. Die Finnen kaben allein wokl nie einen Eroberungszug unternommen.
Dass der Name Bulgaren ein tiirkisckes Volk bezeicknet, ergiebt sick daraus,
tlass bis ziim lieutigen Tag die turkisclieii Bewohuer des Gouvernemeiits Kazan
sicli eutweder nach dem Glauben Muselmauner, oder nach der Abstamniung
Biilgaren nenueu (Ostroumov 10).
Dass die Bezeichuungen der Aemter uud Wiirden bei deu Bulgaren aixs der
Sprache des herrscheudeii Volkes entlehnt wiirden, ist natiirlich. Von diesen Be-
zeiolmuugen %vill ioli hier zwei vorfiiliren, von denen die eine, sanù, nach meiner
Ansickt unzweifelhaft, die andare, boljarinu, wahrscheinlich tiirkisclien Ursprungs ist.
Die Sprache der pannonischen Slovenen war in der zweiten Hàlfte des neunten
Jahrhunderts Sprache der Kirche geworden. Sie wurde am Ende des neunten oder
zu Anfang des folgeuden Jahrhunderts mit den Kirchenbiichern zu den Bulgaren
gebracht. Hier wurde eine gròssere Anzahl von Bùchern verfasst, theils von
unmittelbaren Schùlern Method's, pannonischen, theils von bulgarischen Slovenen.
Es ist natiirlich, dass in diese Biicher aneli Wcirter Eingang fanden, die den panno-
nischen Slovenen unbekannt waren. Zu diesen Wortern gehort sanù iind wohl
aneli boljariiiii.
I. Tiirk. san, Ansehen; sanie, beriihmt; sanmak, dafiir halten, scliatzen. Zenker
493. 2; 563. 2. Hindoglu 262. 269. Nach Pavet 342 ist osttiirk. sanamak, compter,
estimer; nach Ostroumov iij. bedeutet san Ehre. Aus dem tiirk. stammt auch das
kurd. san, compte. Fick's Zusammenstellung des altslov. sanii mit altind. san
1. 789. ist unrichtig. -- Altslov. sanii, honor, dignitas, potestas: sup. 50. 10. contu-
bernium ist wohl falsch. Von sanii stammen sanovitìi, sanovinilm, sanoljubici
u. s. w. Das Wort liat mit den Kirchenbuchern Eingang in das russ. gefunden :
dasselbe gilt vom kleinruss. Die heutige Volkssprache der Serben, wie die ubrigen
lebenden slavischen Sprachen, kennen das Wort niclit. In die iilteren serbischen
Denkmaler ist santi aus der Kirchensprache eingedrungen : man vergleiche Danicic
rjecnik. Sanovnik in den von Petranovic lieransgegebenen Volksliedern 3. 67. zeugt
fast gegen die Echtheit des Liedes. Mit sanù glaube idi samùcija, samùcij oly.ovófj-o?
in Verbindung bringen zu sollen, indem idi es fùr aus sanùcija eiitstanden ansehe:
san mit dem tiirk. Suffix ce, dze. Mit samùcija hàngt zusammen aa[n[jfji; Vita Cle-
mentis e. 23: oO-ev xai ite BouX-i'àpoiv, 'E-/àTC'']C trjv xX'ijatv , aaiJ.(jj-i]<; tò à^iwjJ-a. Unter
den Namen der Gesandten des Bulgarenherrschers, welche auf dem Concil von
Constantinopel erschienen, Mansi 16. 158, findet sich das Wort scamphis, das Ròsler
252 fùr die Bezeichnung einer Wiirde lialt und sampsis lesen mochte. Sanù und
die damit verwandten Wòrter siud im Codex Suprasliensis hàufig: da das Wort
nicht pannonisch, sondern speciiisch bulgarisch ist, so glaube ich annehmen zu
diirfen, dass die Schrift in Bulgarien uud zwar von einem Schiller des Metliod'.s
verfasst wurde.
II. Schwieriger ist die Deutuiig vou boljarinu, boljari ap/ow, uzaioi;, aoYitXrjnxóc;
u. s. w. Wenn man die Ableitung von bolij als kaum wahrscheinlich aufgibt, so
bietet sich das im mittelgriechisclieu vorkommende , wahrscheinlich tùrkische
PoXia?, plur. [joXtaSs?, etwa in der Form bolija, als Thema dar, das sich zu boljari
— 4 —
■wie gospodi zìi gospodari verhalt. Das Wort ist nicht allgemein slavisch: altslov.
boljarinù, wolil nicht panuonisch; bulg. bolérin; serb. boljar aus dem bulg., avis
welcher Sprache das Wort auch das alb. und das rumun. entlehnt haben: bujar,
bojer. Wie ist jedoch das Wort in das russ. gerathen? (bojarin) Kaum durcli
Vennittelimg der Kirchensprache , da es ein der Volkssprache allgemein bekannter
Ausdruck ist. Aus dem russ. haben das Wort die Litauer und Letten geborgt: ba-
joras, bajàrs.
Ich beabsichtige den G-egenstand welter zu verfolgen und hoffo darzuthuu,
dass der Anspruch der Tiirken auf die Bildung der bulgarischen Nationalitàt auf
festeren Stutzen ruht als der der Finuen: die fiir diese angefùhrten Grùnde sind
nochmaliger Priifung bediirftig.
Franz Miklosich.
UEBER DEN LATEINISCHEN URSPRUNG
1»KR UOMANISCIIEN F LT XFZEIiNSILBN ER UND DAMIT VERWANDTEK
WEITERER VERSARTEN.
Im Jahrbuch fùr rom. und engl. Literatur Bd XII und in der Zeitschrift
fùr romanische Philologie Bd II, III, IV, 476 hat Bariseli den keltischen Ui'sprung
einiger romanischen Versarteu verfochten und seine Ansicht trotz der dagegen von
Arhois de JulainviUe und G. Paris erhobenen Einwendungen aufrechterlialten. Der
Schwerpunkt von Bartsch's Argumentation beruht uun was die Herleitung des
provenzalischen Vierzehn- (Fiinfzehn-) Silbners aus dem Keltischen statt aus dem
Lateinischen anlangt, darin, dass ihm die mànnliche Càsur dieses Verses nach der
siebenten Silbe als die ursprungliche erscheint, und zwar weil eine Langzeile von
14 Silben mit einer màmilichen Càsur nach der siebenten Silbe in der irisclien
Poesie eine gauz gelàufige Form sei. Die weibliche Casur dùrfe daher im Proven-
zalischen nur vertretungsweise fur die mànnliche eintreten. Schon das scheide
den Vers streng vom ròmischen Tetrameter, dem die weibliche Càsur nach der
achten Silbe unentbehrlich ist (Zeitschr. II, 218). Dieser Auffassung von Bartsch
kann ich ebeuso wenig wie Gr. Paris (Romania IX) zustimmen. Sie basirt meiner
Ansicht nach insbesondere sowohl auf einer irrigen Auffassung von der romanischen
Càsur iiberhaupt, wie auf einer Verkennung der principiellen Verwendung der
weiblichen Càsur in zweien der drei in Frage kommenden Gedichte Wilhelm's IX.
Unter Càsur haben wir nach den fur mieli iiberzeugenden Ausfiihrungen Westphals
(in der Einleitung zur der von ihm gemeinschaftlich mit Rossbaeh verfassten
griechischen Metrik 2" Aufl. Leipzig 1868) nicht einen willkiirlich eingefiìhrten
Verseinschnitt, sondern eine mehr und mehr verschwindende Versnaht zu verstehen,
d. h. alle mit einer Càsur versehenen Verse sind als Perioden oder Langzeilen
anzusehen, welche durch Zusammenfiigung zweier metrisclier Reihen oder Kurzzeilen
entstanden. ' Der trochàische oder jambische Rhythmus der betreffenden Verse ^vird
nur scheinbar unterbroehen, wenn die Càsur eine mànnliche ist, da die ihr folgende
' Nur don Aoht-SUbner mit Caesur moohte ich als oinfaclie Reiho aiizohen. Dio Hiinfizlteit der lyrisoben und
der schwaclion (d. li. n.aoh der fiinften unbetonten Silbe eintretenden) Caesur und die Abneignng vor der opisobon
scheinen mir anzudeuten, d.iss die Ciisur hier nur durch den Ictus der vierten Silbe entstanden ist. Die weniBon
epischen Gaesuren diirfton doni Zohn-Silbner ihr Dasein verdanken.
Pause iu der fur recitirenden Vortrag bestimmteu Poesie sicherlich deutlicli in die
Ohren fiel und somit lange geiiug wàhrte imi den Zeitintervall der unterdriickteu
ictenlosen Silben auszufitllen. Der trochàische Tonfali specieU des Fiinfzelm-Silbners
wnrde also niclit verletzt, wenn nacli der sLebenten betonten Silbe die Casur eintrat
iind damifc der Fiinfzehn-Silbner zu einem Vierzehn-Silbuer verkiirzt wurde. Will
man sich aber iiber die Entstehiing dieses Verses Klarheifc verschalfen , so wird man
zweifelsohue von der volleren Form desselben ausgehen miissen, und ebenso ■ndrd
man bei der Erklàrung der so volkstbumlichen und beliebten romanisclien Versart
des Zelmsilbners (des itaHenischen endecasillabo) zu verfaliren haben, zumai der
geschiclitliclie Verlauf der weiblichen Càsur hier ergiebt, dass sie anfangs auch
niamerisch iiberwog aber dann scimeli mehr und mehr von der mànnlichen verdràugt
■wiu'de. (Man vgl. nur Boethius, Alexis, Roland und Brun de la Montagne.) Wie
solite man sicli auch die voliere Form dieser Verse aus der kiirzeren entstanden
denken?
Bartsch hat aber auch ferner bei seiuer Beweisfuhrung unberiicksichtigt
gelassen, dass nur in einem der drei Lieder "VVilhelm's IX, welche den Vierzehn-
respective Fiinfzehn-Silbner aufweisen, die màunliche Càsur verwandt wird und,
dass auch in diesem neben sieben mànnlichen zwei weibliche (B. G. 183, 3 Z. 15.
24) vorkommeu, wàhrend -wir in den beiden anderen Liedern nur weiblichen Càsuren
begegnen. (183, 4 Z. 18 ist verderbt uberliefert; ich lese: si non pot aver cavai, donc
ella compra falafrei.) Auch Marcabrun verwendet in dem vom Bartsch angezogenen
Gredichte die mannUche und weibliche Càsiir nach der siebenten Silbe. Somit musste
jedenfalls die Melodie auf die fiinfzehnsilbige Form der Zeilen eingerichtet sein.
Diese Ausfiihrungen dùrften geuiigen um den Aiisgangspunkt der Barfcschschen
Ai'giimentation zuriickzuweisen und damit jeden Anlass zu beseitigen den Ursprung
unseres Verses statt in dem accentuirenden Tetrameter der ròmischeu Volkspoesie
in dem vierzehn- (aber auch oft genug fiinfzehn-) silbigen Vers der Kelten zu
suchen. Dass sie siimmtlich aus der sechzehnsilbigen Langzeile der Indoeitropaer
hervorgegangen sind, wie ja auch Bartsch annimmt (Zeitschr. Ili, 363), spricht
sicher nicht gegen den rijmischen Ursprung des romanisclien Verses. IJbrigens
erstreckt sich die Verwandtschaft unseres Fiinfzehn-Silbners mit dem accentuirenden
Tetrameter nicht nur auf die gleiche Silbenzahl und • die gleiche Casur nach der
acliteu (siebenten betonten) Silbe, sondern auch ausserdem uoch darauf, dass die
dritte und elfte Silbe einen durch den AVortton deutlich markirten Ictus erhalten,
so dass wir hier also einen romauischen Vers mit vier festeii Accenten (3, 7, 11,
15) voruns haben, wàhrend die bekannteren anderen romanischen Laugzeilen, der
Zehn-und Zwolfsilbuer, nur zwei solcher Accente aufzuweisen haben. _ Freilich hat
die schlechte ÙberUeferung der drei in Frage kommendeu Gedichte Wilhelm's IX
in dieser Hinsicht Aielfach den wahreu Sachverhalt verdunkelt, doch làsst sich
derselbe nodi durchweg leicht wieder herstellen. [183, 4, Z. 6: iant l'us {noill) larga
[noill] l'estaca que [plus] V altres (plus) no laill ■pleJ. Man beachte die so zu Tage tre-
tende deutliche dreifache Binnenassonauz und vgl. Z. 3 cìainaJa : ganlaiflors) —
Z. it: lì \froji\ meno (troj/) major ìuiaza qua (In) maiiiada \fa\ (lei rei — F. b): n'om In,
loigiia de [jroeza qu'aò mal\eza\ ìioii plaidei — 183, 5 Z. 15: [en\ i liaison, wie Bartsch
Zoitsclir. II, 196vorschlug— 183, 3 Z. 12: Que miels for' encavalguatz de nuill home
\el ìnon\ viveii — Z. 15: qne de bail[e] si defen — Z. 18: ni per aur ni per argon — Z. 21:
qu'ieu (lo) tengites [lo] mais de cen] Eine eigentliche Càsur wie nach der achteii unbe-
tonten, ist uatiirlich nacli der vierten iind zwolften Silbe niclit anzimelimen, wohl
aber stellte sich wie von selbst bei der oxytonirenden Accentuation der meisten
provenzalisclien Worte meisfc nach der dritten und elften Silbe eine scheinbare
Càsur eiu, die aber nie weiblioh sein kann imd schon dadurch von der eigentlichen
Càsur uacli der ackten unbetonten Silbe deutlicli unterschieden ist. Man vgl. z. B.
die Zeile in Marcabrun's Clediclit :
hclamcn ah solai:: ijen ah conort de fin amor
daneben finden sich aber ini uàmlicheu Gredichte die Zeilen :
c'amors vairc~àl meu vejaire a l'uzalgéHl trahidor
seus serta, sim volta, ses hau~ia è ses errar.
Ebenso wie der Vierzehn-(Fiinlzehu-) Silbner ist auch der Elf-Silbner zu erklàren,
welchen G. Paris gegenùber Bartsch mit Itecht als eine Verkllrzung aus dem
ersteren ansieht. Aneli der Elfsilbner hat drei feste Icten nàmlich auf der dritten,
siebenten und elften Silbe. [In Zeile 2 von Marcabruns Lied wird sicher wie schon
von Bartsch selbst vorgeschlagen worden, zu àndern sein: e (per lo) \23el] hroiìl
naisso [U\ foill. Die Ueberliefernng von Wilhelm's IX Licderii làsst auch hier viel zu
wiinschen ubrig. Ich bessere 183, 3, Z. 2: et aura (i) mais [de] foudatz no Uj) a de sen —
Z. 13, [Car] l'uns fo dels montanhiers lo plus correa — Z. 20: Pero eu retine de lei tant de
coven — 183, 4 Z. 4: diz que ges, wie P. Meyer in seinem Eecueil liest — Z. 8: l'us
es gens compìains a for mandacarrei — Z. 16: e sii ten{ez) [om] acarcat lo bon conrei —
Z. 17: [non] adoba(s d'aquel) co que troba viron sei — Z. 20: s'om (li) vedava [li] v in fori
per malauei]. Die Casur fiillt bisweilen nach der achten Silbe, ist also weiblich, dodi
tritt sie meisfc nach der siebenten betonten Silbe ein, und Marcabrun hebt daher
die dritte und siebente Silbe durcli Binnenreim hervor; allerdings verwendet er
auch hier wie bei dem Fùnfzehnsilbner einige weibliche Reime, sodass sich Einschnitte
nach der vierten und achten unbetonten Silbe einstellen. Eine Verkùi'zung des
Elfsilbners zu einem Zehnsilbner analog der des Fiinfzehusilbners zu einem Vier-
zehnsilbner làsst sich aber uicht beobachteii, demi 183, 3 Z. 1 leso idi: companhs
farai un vers [molt] covinen und Z. 5 o dins son cor roluntiers [o] no[n[ [l') apren. ' Es
liegt hiernach ziemlich nahe den Elfsilbner aus dem Fiinfzehnsilbner durch Unter-
druckung eines der drei viersilbigen Glieder entstanden zu denken und in der That
hat G. Paris sich zu dieser AufFassung bekannt. Doch hat ihm Bartsch hierin mit
' Dor volksthtìmliche Zehnsilbner mit Caesur nacli betonter fiinfter Silbe diirfte direkt aus dem fùnfzehnsilb-
ner mit Unterdriiclinng der Senkiingen naoli den drei ersten Hanptioten, Sohwachung der zweiton und vierten
Nebeuictus zur Senljung, sowie Vereinfaehimg der so entstandenen zwei zweisilbigen Senkungen abzuleiten sein.
Eecht widersprochen. Demi es bleibt dodi vollig dunkel, was die Unterdriickung
des einen viersilbigen Gliedes veranlassfc haben solite. An eine willkùrliche Verstùm-
mlung, wie sie wohl ein Knnstdichter vornelimen kann, darf bei einer volkstliitm-
lichen Versarfc, als welclie der Elfsilbner unzweifelhaft anzusehen ist, nicht gedacht
werden. Ich stelle mir daher die Verkiirzung lieber folgendermassen vor: Hinter
zwei der vier Haupticteii des Fùnfzehusilbners wurde, ahnlicli wie in der deutsclien
und altitalischen Laugzeile, der syllabisclie Ausdruck der Senkung unterdrùckt
uud die Zeile dadurch zu einem Dreizehnsilbner verkùrzt. Derartige Verse, die
anfangs nur facultativ, also neben voUstàndigen Fiinfzehnsilbnern verwandt wiirden,
mehrten sich jedoch bei gewissen Diclituiigen derart, dass sie als die regelrecht
gebauten galteu imd deshalb als von den Fiiiifzehnsilbnern verschieden betrachtet
wurden. Sobald man danacli die die Senkung ersetzenden Pausen (und die Debnung
der voraufgehenden Ictussilbe) aufgab, musste, um den sonsfc unverineidlichen
doppelten Zusammenstoss zweier Icten und die damit Hand in Hand geliende
Verletzung des trochaiscKen E,hytmus zu vermeiden, je einer der beiden Icten zur
Senkung herabsinken. Die Meraus sich ergebende nothwendige weitere Consequenz
war die Verkiirzung der Zeile um je einen Tact an beiden Stellen. Die Verkiirzung
gab sich zuerst uoch dadurch zu erkenuen, dass in den zusammengezogeuen
Tacten die Senkung durch zwei Sii- ben ausgedriickt war, aber die Vereiiifacliung
konnte hier nicht lange ausbleiben. Ich gebe zur Verdeutlichung des Vorganges
folgendes Schema:
il I '-^ i il ' ^ ! " 1 ZA \ '1\ W L 1 \ ^J.
i- A I ^ 1 II Z 1 I ^ 'ZÌI 1 \\ L\ \ -
Zll^l'IZlI Z ] -- - ' - \ 'i
L\ \ 'i\. '' L)l \ '1 \ \ L 11 -
Die von Wilhelm IX verwandte Strophe begegnet man auch noch — und das
beweist ihre Volksthiimlichkeit — in neufranzosischen Volksliedern. Man vergleiche
nur das von Bartsch Zeitschr. Ili, 3(i8 angefiibrte Volkslied
Margoton prend son pauier, s'on va-t-aux meures,
M'sieur l'curé s'en va après , lisant ses hcuros
Margoton attends ino , atteuds mo Margoton , attends mo dono.
Die Verwandtschaft zu der Strophe, welche die von Joh. Schmidt eiitdeckte
und in Zacher's Zeitschrift fiir deutsche Philologie XII, 333 veròffentlichte lateinisch-
provenzaUsche Alba aufweist, ist bereits von dem Herausgeber selbst angedentet,
doch nur mit Bezug auf die drei darin zu einer Strophe verbundenen lateinischen
Elfsilbner mit regelrechter Càsur nach dem zweiten Trochaus, aber nicht auch mit
Bezug auf den besonders interessanten provenzalischen Refrain. Ich habe naich
hieriiber schonkurz in meinem Bericht iiber die romanische Philologie von 1875-
1883 ausgesprochen. [Vgl. Transactions of the phUological Society 1882-4 S. 138
oder Pàdagogisches Arcliiv vou Krumiue 1883 S. 40. Waruni solite ùbrigeus poif
nicht = poi i sein kònneu?] Der Refrain besteht aus 21 Silbon , die ich iu eiueu
Neun-und einen Zwòlfsilbner zerlege :
L' alba par umct mar atra sol
Poy pass' a bigil mira dar tGncbras.
Da der Neiinsilbner in drei gleiche dreisilbige Abschnitte mit betonter letzter Silbe
zerfallt , so konnten wir es in ihm mit einem derarfc verkiirzten Elfsilbner zn thun
haben, dass die der dritfcen wie sechsfcen Silbe nrsprunglich fblgende iktenlose Silbe
nnterdriickt wàre, und ebenso liesse sich der ZwolfsUbner , der in vier gleiche
Abschnitte zerfallt als eine ganz analoge Verkiirzung des Fiinfzehnsilbners auffas-
sen. In strophischer Hinsicht steht unserer Alba zuniichst die anonyme, welche
Bartsch ini Grundviss nuter 461, 113 auffuhrt, der in ihr begegnende Neun-Silbner
aber entspricht genan dem von Bartsch (Zeitschr. Ili, 377) ebenfalls aus einem kel-
tischen Vers abgeleiteten der spàteren provenzalischen iind altfranzosischen Poesie.
Anch der Zwùlfsilbner der ^^ba konnte znr Noth dem spatereu Alexandriner
entsprechen, dodi uiochte ich diesen lieber als eine secundiire Erweiterung des
volksthiimlichen Zehnsilbners betrachten, wie ich diesen seinerseits fur eine den
eben besprochenen analoge volksthiimliche Verkiirzung der alten indoeuropaischen
Langzeile und speciell des jambischen accentuirenden Tetrameters balte. Auf diesen
selben Vers wird ja auch der lateinische Saturnier zuriickzufùhren sein (vgl. dazu
die umfangreiche Arbeit Havet's De Saturnio, Latinorum versu, Parisiis 1880).
Abzusondern von dem Zwòlfsilbner der Alba und dem gewòhnliclien Alexandriner
ist endlich der Zwòlfsilbner mit drei festen Icten auf der vierten, achten und
zwolften Silbe, auf welchen wir kiirzlich von Thomas und Boucherie aufmerksam
gemacht worden sind [vgl. Rom. XII, 131] und welcher gleichfalls sowohl schon
bei Wilhelm IX begegnet, wie noch in dem lieutigen franzosischen Volkslied
verwandt wird und von hieraus sogar dem alten Alexandriner in der heutigen
Kunstpoesie Gefahr zu bringen droht. Ihn leite ich iu folgeuder AVeise aus dem
alten jambischen Seclizehn-Silbner ab:
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E. Stengel.
PROBLEMI FONOLOGICI
SULL'ARTICOLAZIONE E SULL'ACCENTO.
. . . es babou ilocli alle cliese spraeli-
liohen Dinge nioht viol melir Wni'th als
andere Cxiriositaten, so lauge es nicht ver-
sucht wird sie alti die Ergcbnisse wirkender
Krafte, darzulsgen , in iìirer unendlichen
Viclheit die Einhcit zu entdecken.
SCHUCHARDT.
L' accento, che bene fu detto l'anima della parola, inquantochè con esso si do-
vette in origine dare ad una sillaba maggior rilievo su certe altre, creando 1' unità
nuova di un vocabolo composto, facilmente produsse nella vocale della sillaba fa-
vorita notevoli incrementi , che s' accompagnavano con 1' affievolirsi ' e col perdersi
di altre vocali, poste nelle sillabe che più ne erano abbandonate. Quegli effetti
Jìsici continuarono naturalmente, anche quando la predilezione ideologica che ne era
stato il primo motivo venne a mancare. E con essi si complicavano di necessità al-
tre alterazioni molteplici dovute agK impulsi de' suoni vicini ; le quali si potreb-
bero chiamare vicende di adattamento, per contrapporle alle prime essenzialmente
ereditarie. Cotali vicende di adattamento sono fatti fisiologici, dipendenti da quella
legge universale del massimo risparmio di forza, per cui gli organi della favella
tentano di agevolare il loro lavoro e di ottenere combinazioni sempre più facili
degli elementi primi delle parole, meglio conciliando o meglio equilibrando le suc-
cessive articolazioni della laringe e della bocca.
Ma alla eredità ed allo adattamento si aggiunge sempre la legge della lotta per la
esistenza, o, se meglio si vuole, della maggiore o minore vitalità, che vale come per
tutte le altre cose anche per le parole. E ben può accadere che 1' affinità acustica di
suoni tra loro geneticamente diversi trasporti gii uni nell' orbita degli altri più
numerosi o potenti ; come nella mente parole e gruppi di forme possono la-
sciarsi vincere e distruggere da altre parole o forme più fortunate. Così i corpi ce-
lesti non obbediscono solo alle forze centrifuga e centripeta del loro sistema parti-
colare, ma da corpi stranieri ad esso e lontani hanno turbate le leggi del loro
cammino.
' AVVERTENZA. — 1,' KxAove, che aveva prima inviato ano studio alquanto largo sulle articolazioni orali e
sui contatti che haii luogo tra le vocali e le consonanti, invitato ad abbreviarlo, ha creduto bene di tor via ogni mi-
nuta discussione di esempi e tutte le note e eli presentare più nudamente, ma insieme più compiutamente le sue
idee, aggiungendo alcune osservazioni anche sugli oftVtti dell'«rc(ì«Yo orale: per modo che questo scritto si jmtesse
considerare quasi come una introduzione a certi natmi fonolOHici, a' quali egli attende con molto amore, sebbene
con poca speranza che altri li abbia ad attendere con qualche desiderio.
— 12 —
Né basta ancora. Dopo avere notato tntte queste cause di alterazioni , non
bisogna dimenticare eh' esse non operano mai in un solo individuo, ma anzi in
tutti qiielli che parlano una lingua: che ogni linguaggio insomma è sempre iin
fatto sociale. Perciò anche nello studio del più isolato e modesto dialetto bisogna
essere disposti a riconoscere qualche mischianza di voci e forme esotiche e lettera-
rie. Come il pensiero ond' è strumento, si dilarga necessariamente la lingua nella
società e nella storia; di questo suo dilatarsi serbando le traccie in ogni sua parte,
ed anche nei suoni.
Ma lasciando stare per ora le mischianze dialettali e storiche, e tornando a quelle
tre prime cause trasfiguratrici delle parole, le discordie dei glottologi sono ben so-
vente assai gravi. Nello adoperarle, per ispiegare gli identici fatti, chi mette in
prima linea l'efficacia àeW articolazione, chi quella dell' occeHto, chi invece quella
dell' analogia. Si direbbe che vi sieno sètte diverse e che ognuna si proponga di far
prevalere un solo de' numi della Triade a scapito degli altri due.
A me giova a questo proposito e in questo luogo ricordare di preferenza le
belle Osservazioni sul vocalismo italiano del Caix (Firenze, 1876). Pensava egli che ta-
lora fosse determinata dalla vocale la consonante: p. es. in muggine , jwrfido , anemolo;
talora invece dalla consonante la vocale, come in rovaio, dattero, modano (pag. 24).
Lo Storm, che aveva dato occasione al nostro Caix di scrivere quelle osservazioni,
credeva invece di dover esaminare le tendenze delle vocali atone , quanto fosse pos-
sibile , nella loro purezza. Non aveva osato negare in generale gli effetti dovuti alle
consonanti vicine; ma pare che dell'azione di queste non abbia voluto toccare,
mancandogli la fiducia di poter ben domare siffatta materia, troppo ribelle tutta-
via ad una trattazione scientifica. E qui appunto stava il divario fra i due valorosi
campioni. Secondo il Caix erano indubitabili particolari affinità e particolari ripu-
gnanze fra talune consonanti e talune vocali; ma, se non esprimo male con la mia
formola il pensiero di lui, gli effetti àeW atonismo gli parevano assai men fidi di
quelli dell' articolazione.
Questi divari di opinioni, tra gli studiosi di glottologia, si estendono oltre i
confini del vocalismo italiano, nel largo campo delle lingue ariane. Né deve parere
strano ch'essi vi sieno, perchè nello studio di fenomeni complessi, a produrre i
quali concorrono più forze diverse, è sempre molto difficile di non concedere alla
virtù di ciascuna niente di più e niente di meno di quanto le sia dovuto.
Il Curtius ed altri glottologi valorosi, ebbero già ad esprimere più volte il
desiderio che la natura e le leggi fondamentali dell' acce/ìfo , àelV articolazione e del-
l' analogia si indagassero con ricerche larghe e metodiche ; ed anch' io credo che la
giusta determinazione del valore di ognuna di queste cause, possa promuovere l' ar-
monia e la forza del lavoro comune. Ma poiché della causa psicologica si è molto
ragionato in qiiesti ultimi anni, ed oserei anzi dire che non abbia per avventura
avuto mai tanti e tanto ardenti sacerdoti, quanti e quali oggi ne conta; mi pro-
pongo di studiare con qualche diligenza le altre due, persuaso che neppur esse
meritino plinto men fervido culto.
— 13
TENTATIVO DI CLASSIFICARE IN UN SISTEMA UNICO DI ARTICOLAZIONI
LE VOCALI E LE CONSONANTI.
ÈCTTt, xaì TfviToy TOÙTOV SióXektos
rn Y>.uTT7i Sióp^podic.
Presuppongo, come già accennai, che sieuo valide anche per gli organi vocali
le leggi fisiologiche onde sono retti tutti gli altri movimenti: che sia dunque su-
prema quella del minimo dispendio di forza, cioè della sostituzione de' muscoli più
vicini ai più lontani, de' meno stanchi ai più stanchi e via via. Ed escludendo per
ora le perturbazioni acustiche, ne deduco subito che le mutazioni delle vocali e
delle consonanti devano essere mstmilazimii per ottenere agevolezza di articolazione
o dissimilazioni per evitare la stanchezza soverchia; sicché per gli incontri de' suoni
devano prevalere le prime e per i ritorni men prossimi debbano aversi di regola le
seconde. Ma è chiaro che non si potranno determinare uè le une né le altre, senza
ordinare prima tutte le voci elementari in un sistema unico. Come può infatti il
glottologo trattare compiutamente delle affinità e delle ripugnanze possibili in una
o in più sillabe fra le consonanti e le vocali, s'egli non abbia esatta notizia delle
varie articolazioni di lingua e di labbra che occorrono per queste e per quelle?
E intanto uno schema ben determinato e universalmente riconosciuto delle so-
miglianze di articolazione, che stringono insieme le vocali con le diverse consonanti,
si cerca invano ne' migliori trattati di fisiologia delle voci. Di siffatte relazioni non
tutti parlano o ne parlano brevemente e con le contraddizioni più gravi.
Il Brùcke, ancora nella seconda edizione del suo classico libro, non dubitava
di muovere rimprovero agli antichi grammatici indiani, perchè essi vollero congiun-
gere le consonanti e le vocali in uno stesso schema. « Non è ben fatto, egli dice , di
distribuire, come le consonanti, anche le vocali secondo luoghi diversi di articola-
zione, perchè la formazione loro dipende da principi del tutto diversi; ma commesso
una volta questo errore , non se ne commette più altri , ove si assegni , come fecero
gli Indiani, a alla gola, i al palato, u alle labbra. » (C. IX, pag. 100). Ben fu costretto
— 14 —
dal facile e freqiieute passaggio dell' u e dell' i nelle spii'anti v, J a scrivere un ca-
pitolo , affine di determinare que' punti di sistema delle voci dove le consonanti e le
vocali si toccano ; ma lasciando stare che quel passaggio non è descritto da lui con la
solita perspicuità, esso gli fece inciampo e non l'aiutò punto a salire alla considera-
zione di una serie continua e intera de' contatti di articolazione tra le consonanti e
le vocali; serie che mi pare, con rapido cenno, affermata meglio che da ogni al-
tro dall' Ascoli, nelle Lezioni di Fonologia (a pag. 43), dove parla di sviluppi intermedj
tra vocali e consonanti « che domandano speciale indagine per ogni singola con-
giuntura. » Secondo il Briicke invece , solo perchè u ed i sono le due vocali più im-
perfette ed estreme segnano i punti di confine; e que' punti sono i due soli possi-
bili, sicché dimostrano, meglio che gli inizi di una linea continua di contatti con le
consonanti, la separazione delle vocali da esse (C. Vili, pag. 90).
Il Sievers, in quella sua opera accuratissima che è nelle mani di tutti gli stu-
diosi delle lingue ariane, non segue una teoria molto diversa da quella del Briicke.
Egli unisce bensì le liquide e le nasali con le vocali propriamente dette; ma solo
perchè quelle possono anche assumere natura veramente vocalica e sostenere l' ac-
cento sillabico, avendo nella loro formazione fisiologica lo stesso carattere di sono-
rità (reine Stimmtonlaute). Del resto tien distinte, anche più recisamente che non
avesse fatto il Briicke, le serie delle vocali dalle altre voci, da tutte le consonanti
propriamente dette , le quali non sono altro che romori {Gerauscldaide).
E lo stesso fa ancora il Techmer, nel suo recentissimo lavoro pubblicato nel
Periodico Internazionale per la Scienza del Linguaggio. Si contenta di notare la liquida e
la nasale sonanti, e di porre a parte le due semivocali j , w. Ma scinde, anch' egli,
la trattazione delle voci in due sezioni: di quelle che richiedono apertura della
bocca, e di quelle a cui occorre una forte stretta o la chiusura. Questa contrapposi-
zione di articolazioni egli pone a fondamento del suo sistema fisiologico genetico
delle voci; onde appare che la determinazione dei trapassi fra le consonanti e le vo-
cali avrebbe dovuto riuscirgli ben facile. Ma egli evita anzi le denominazioni di vo-
cali e di consonanti; avvertendo che si usano dai fonologi in significati troppo
diversi, ora in senso fisico-acustico, per indicare suoni o romori; ora in senso fisio-
logico-genetico per le articolazioni a bocca aperta e le articolazioni a bocca chiusa;
{Mimdoffner-und Schliesser); ora, -per le voci principali e per le voci secondarie nelle sil-
labe. Quasi gli sfuggisse l'armonia che v' ha fra tutti questi caratteri, i quali sono pure
stretti insieme da legami di causa e di effetto, non sente l'opportunità di integrare
la trattazione delle voci elementari con quelle de' loro contatti e dei complessi sil-
labici, sempre seguendo gli stessi criteri direttivi. E cosi la classificazione delle voci
riesce anche per lui propiziamente acustica. Anche il Techmer insomma, come il
Briicke e il Sievers, bada anzitutto a ciò che avvenga o non avvenga nel torace e
nella trachea. Io non intendo sicuramente di oppugnare siffatte considerazioni. Sta
bene che si cominci con esse, perchè non si riuscirebbe altrimenti ad avere una
giusta idea della diversa origlile delle voci. E senza dubbio l' ignoranza del diverso
accento espiratorio, il trascurare la diversa qualità dei rumori o de' suoni della glot-
tido, il coutouderli con i romori che dall'aria espulsa, si producono uella bocca o
con le varie modificazioni che ivi assumono le voci laringee, possono essere cause
di gravi errori anche allo storico della parola. La classificazione acustica è necessaria
non solo per lo studio primo degli elementi fonetici, ma si deve farne gran conto
anche per quello degli spiriti che iniziano o tei-minano le vocali, per quello delle
sillabe, per quello dell'accento musicale, della declamazione e del canto; per tutte
lo (piali cose la tensione dei muscoli d§l torace, delle corde vocali, e della trachea
ha importanza suprema. Ma dovrebb' essere anche evidentissimo che per bene inten-
dere la ragione delle reciproche influenze delle voci elementari, molto più che ai
fenomeni della stessa glottide, o jier dirla cogli antichi indiani al baliìjajjrai/atua, l'at-
tenzione debba rivolgersi al karana ed allo sthCiua, all' atto cioè ed al luogo di arti-
colazione delle voci nella cavità orale. Bisogna badare attentamente alla varia ener-
gia della mascella inferiore e de' suoi muscoli , a' movimenti propri delle labbra e
della lingua, studiando principalmente gli atteggiamenti molteplici di quest' ultimo
organo mobilissimo, chi voglia ben ordinare la serie graduale di conformità e di
difformità ck'e favoriscano o contrastino l' unione delle vocali e delle consonanti
nelle sillabe e nelle parole. E poiché le mutazioni fonetiche dovute al diverso ac-
cento orale ed alle affinità o ai contrasti delle voci elementari, per complessità di
fenomeni, per intensità di effetti, per frequenza di casi, non sono certo inferiori alle
alterazioni prodotte dal variare della forza espiratoria e dalla diversa musicalità,
per cosi chiamarla, dell'umano linguaggio; non si dovranno punto condannare,
come fece il Briicke, i grammatici indiani per avere volato classificare anche le
vocali insieme con le consonanti secondo lo sthdiia ed il kai-aaa. Piuttosto saranno da
biasimare i fisiologi moderni , i quali nelle loro esposizioni mostrarono di non aver
saputo apprezzare abbastanza l' efficacia capitalissima che hanno per le vicende
delle parole 1' articolazione e 1' accento orale. E agli antichi indiani si dovrà dar
lode tanto più viva, inquantochè dall' indole della loro lingua, dove non meno del-
l' accento orale erano efficaci 1' accento espiratorio e 1' accento musicale , erano per
avventura assai più di noi indotti a raccogliere intorno a questi ultimi i loro studi.
Qualche accenno alla desiderata classificazione delle vocali e delle consonanti se-
condo un unico sistema, fondato sulle attinenze delle articolazioni orali, non manca,
a dire il vero, nelF opera voluminosa e diligentissima pubblicata da C. L. Merkel,
fin dall'anno 1852, col titolo Antropofonica ; ma sono cenni troppo fuggevoli ed incerti.
« Noi possiamo (scriveva il Merkel, a pag. 772) limitare lo spazio fisiologico
per entro al quale si muovono le vocali, o per parlare più esattamente gli organi che
le formano, fissando tre punti estremi ne' quali il vocalismo comincia e finisce. Sono
essi H, G molle e W. Presso H comincia il vocalismo per via di A, presso G
qessa con I, presso W si chiude con U. Fra questi tre suoni giace tutto quanto il
vocalismo fisiologico possibile. » E più innanzi (a pag. 832) tornava su questo ar-
gomento e dichiarava, un po' più compiutamente , il suo pensiero con le parole se-
guenti: « Il consonantismo comincia dove il vocalismo finisce.... e termina poi esso-
stesso coUe voci esplosive, ossia coli' ammutire , coli' interrompersi della corrente
— IR —
dell'aria. Con H comincia la serie delle voci posteriori o palatali, che finisce con K;
con G molle la serie delle voci mediane o lingnali, che si chiude con T; con W
quelle delle voci anteriori o labiali, che ammutiscono in P. La prima serie trova la
sua vocale affine in A, la seconda in I, la terza in U. »
Il secondo passo è forse tanto più infelice, quanto è meglio determinato ; ma
anche nel primo si nasconde .un peccato capitale.
Mentre il Brucke, pur consentendo che l'A si potesse dire, senza grave danno,
affine alle consonanti gutturali, ammetteva due soli punti di contatto tra le conso-
nanti e le vocali e li segnava con le vocali più sottili U ed I, vorrebbe il Merkel
trovare un terzo passaggio nell' A; forse perchè mal si poteva rassegnare a staccare
una delle tre serie consonantiche da tutto il sistema delle voci, lasciandola senza
principio vocalico di fronte alle compagne. Il suo scrupolo era ragionevolissimo e
il difetto di una classificazione incompiuta, come quella del Briicke, non si può certo
negare; ma il rimedio trovato dal Merkel è anche peggiore del male. Si ricordi
come sia necessario per la formazione di tutte le consonanti, toltene solo le lab-
biali, le interdentali e le gutturali posteriori, che la lingua si sollevi in qualche
punto e faccia nella parte superiore della bocca una chiusura che dev' essere vinta
dalla corrente dell' aria esplodendo (e sj^esso anche implodendo) , od almeno una
stretta cosi angusta che possa generarvisi dalla corrente d'aria mentre la trapassa un
rumore fricativo. Per le vocali occorre invece che il romore nella bocca non sorga o
sia minimo e sopraffatto dal suono laringeo; che vi sia, come ben dicono il Merkel,
il Techmer e ogni fisiologo , anziché una stretta, un allargamento della cavità orale.
Se questo è vero, chi potrà consentire al Merkel che si ponga a pari grado con V u
e con l' i sui confini tra il vocalismo ed il consonantismo, e peggio che si collochi a
principio di tutte le palatali, quella vocale appunto a cui occorre la più grande
apertura della bocca, maggiore di regola che non sia quella richiesta dall' e e dall' o,
cui non verrebbe certo in mente a nessuno di situare sui confini del consonantismo?
Questa difficoltà dev'essere stata palese al Brucke, il quale non ha punto parlato di
contiguità tra 1' a e 1' /;. Essa è veramente una difficoltà insuperabile; e forse la in-
travvide lo stesso Merkel, che non tentò per la sua classificazione delle consonanti
una rappresentazione grafica, dopo averla data per le vocali. E infatti difficile im-
maginare com' egli avrebbe potuto mostrarvi le relazioni da lui ammesse tra
le vocali e le consonanti, senza rinunziare alla rappresentazione piramidale che
adottò per le prime. Posto V a al vertice, non v' era più modo di potergli avvicinare
nessuna serie di consonanti, le quali non possono certo cominciare entro la pira-
mide vocalica, ma devono apparire sotto la base di essa. Avrebbe dovuto proporre
prima di tutto anche per le vocali un sistema lineare, quale fu veramente adottato
di recente, ma forse con iscapito anziché con vantaggio della fisiologia delle voci.
Poste infatti sovra una stessa linea le tre vocali principali «, i, u, ben avrebbe po-
tuto il Merkel descrivere con tre altre Knee parallele, perpendicolari a quella pri-
ma, tre serie di consonanti che dilungandosi dalle vocali si muovessero sempre
nello stesso senso, per modo da finire con le tre sorde esplosive, che cosi rimarreb-
— 17 -
bero vicine tra loro. Ma qiial posto toccherebbe all' e ed all' o i quale resterebbe alle
vocali miste? E perchè solo «, m, t, dovrebbero essere iuizì di consonanti? La im-
possibilità di una rappresentazione grafica conveniente è per me una riprova delle
imperfezioni di tutta la teoria.
Ma i difetti della teoria Merk eliana, come dicevo, appariscono più manifesti
nel secondo passo citato; dove si ripete che H gutturale sia principio di tutte le
palatali (ohe sarebbero le gutturali piìi anteriori). Poi si aggiunge che in G molle
(ossia con la spirante j-, la qiiale richiede il sollevamento dorsale della lingua) co-
mincia una serie di consonanti finita da quel T che si produce per la chiusura
fatta dalla punta della lingua agii alveoli o anzi ai denti. La spirante imlatale in-
somma è presentata come inizio della serie dentale!
Eppure in qiiesto sixo punto di veduta si mantiene ancora il Merkel uell' altra
sua opera posteriore di circa un decennio, che in molti luoghi è tanto perfezionata:
« Se noi ci proviamo, egli dice, a sviluppare dalle vocali qualcosa di consonantico
troviamo che il tentativo è possibile per tre sole vocali.... Anche a passa in una
consonante e propriamente nel eh sonoro, quando nella sua articolazione la stretta
si impiccolisca ancora di più. Abbiamo dunque tre punti di confine nei quali il vo-
calismo tocca il consonantismo» (pag. 80).
Gli si può facilmente opporre che è per lo meno molto improprio il parlare di
una articolazione della lingua per Va teorico, il quale non può essere puro appena
un' articolazione di essa cominci, e deve subito turbarsi o piegare verso l' una o
verso 1' altra delle due vocali estreme. Nondimeno in quelle parole « quando la
stretta si impicciolisca ancora di più » abbiamo ben formulato il principio gene-
rale, semplicissimo, ma non per questo men giusto, di ogni distinzione 'orale tra le
vocali e le consonanti; dal quale avrebbe dovuto il Merkel essere condotto a con-
chiudere che le une sieno prossime alle altre non in due né in tre punti soli, ma
lungo una linea intera, determinata dalle vocali più sottili o dalle spiranti più tenui.
Il merito d' aver prima d' ogni altro tentato di tracciare quella linea e affer-
mata risolutamente la necessità di non fondare suU' azione della glottide tutta
la classificazione delle voci elementari, deve attribuirsi, se non m'inganno, a
M. Thausing; al quale si dovrebbero lodi ben maggiori, se non avesse dimenticato
quasi del tutto l' accento ed esagerato il suo nuovo indirizzo , occupandosi veramente
troppo poco della glottide , a differenza di tutti gh altri trattatisti moderni. Nel
suo volume, uscito nel 1863, conosciuto, citato e combattuto spesso dal Merkel, di-
chiara egli subito, come avea fatto Aristotele, ohe « la lingua insieme con l'astuc-
cio per entro al quale ella si muove è lo strumento proprio della formazione delle
voci, l'organo vero dell'umano linguaggio (pag. 7) « e nel suono laringeo non do-
versi a ogni modo vedere altra cosa che la materia o il sostrato onde si formano
le voci, per 1' articolazione delle quali è apparecchio essenziale unicamente la ca-
vità della bocca » (pag. 12). Ogni suono o rumore prodotto più addietro di questa,
deve, secondo lui, rimaner fuori del sistema naturale delle voci.
Ciò fatto, tra le vocali e le consonanti il Thausing riconosce solo una diffe-
— 18 —
renza quantitativa: epperò vuole estesa pure alle consonanti la nota rappresenta-
zione piramidale che anch' egli adotta per le vocali, ponendo al vertice 1' a, che è
« la voce più vocale, la voce delle voci {der lauteste Laid, der Laut der Laute), quan-
tunque non soglia apparire nelle lingue senza piccole alterazioni o turbamenti »
(pag. 36). Movendo poscia dall' a e cercando come, per varie disposizioni della
bocca e della lingua, possa quella voce tramutarsi in tutte le altre voci elementari,
trova che le tre categorie delle articolazioni secondo le quab gli antichi ritmici
greci distribuirono le nude « non producono queste soltanto, ma tutte veramente le
voci semplici, in una serie continua e progressiva di oscuramenti » (pag. 31), ohe
avvengono « secondo tre divisioni e sono sempre di sette gradi, » sicché risultano
contando nel novero anche 1' a « 22 voci semplici originarie » (pag. 38).
A questi numeri non si dia troppa importanza, come fece il Merkel, che se uè
valso a screditare tutto il sistema dell'avversario, chiamando con immeritata iro-
nia magica quella divisione e il tre ed il sette numeri sacri (pag. 253-254). Lo stesso
Thausing avvertiva che ogni categoria di articolazione si muove in una certa esten-
sione, sicché, ogni grado di oscuramento dando luogo a possibili distinzioni ulte-
riori , « teoreticamente si possono ammettere quanti gradi si vogliono , anzi infiniti ;
perchè non v' ha nulla nell' uomo che sia più individuale della lingua e si può af-
fermare con sicurezza che nessuno articoli le sue voci perfettamente come un' altra
persona » (pag. 39). Queste parole, a dirlo di passata, mi paiono piene di senno e
di temperanza e molto più giuste di quelle troppo ardite del Bruche, il qiiale non
dubitò di scrivere in un luogo dell' opera citata che « se domani si scoprisse una
nuova lingua, che come le indoeuropee e le semitiche si valesse esclusivamente
della fonazione espiratoria, tutte le sue voci elementari dovrebbero poter essere
classificate secondo il suo sistema naturale, senza bisogno non pure di alterare le gra-
dazioni fissate, ma nemmeno di introdurvene delle altre » (pag. 41). E aggiungeva molto
finamente il Thausing, dover scemare la possibilità delle gradazioni intermedie
quanto più forti siano gli oscuramenti dell' a; onde le differenze sono molto maggiori
per le vocali che per le consonanti. Ma vediamo quali sieno le sue proposte più generali.
Poiché il triangolo simbolico delle vocali deve continuare col consonantismo,
ei fa seguire alle vocali più sottili le consonanti fricative e poi le mute; ultime, e
dunque alla base, vuole che si trovino e chiudano tutto il sistema le nasali, come
quelle che nella loro origine si allontanano già alquanto dalla pura formazione
delle voci » (pag. 60). Ed ecco intero lo schema semplicissimo:
mbpfwuoAeijchkgf
— 19 —
Esso è tanto chiaro per se medesimo , da uon richiedere nessun' altra dichiara-
zione. Basti avvertire che il y rappresenta la nasale gutturale e le altre lettere il
suono tedesco.
Anzi tutto ferma 1' attenzione la posizione delle liquide ^, r, che per la prima
volta in un trattato moderno di fisiologia delle voci, son poste al paro con le vocali.
Queste liquide , riconosciute insieme con le nasali come capaci di sostenere 1' ac-
cento sillabico e di divenire perfettamente sonanti, dovevano poi aver molta fortuna
ed essere fatte risalire fino al periodo proetnico delle lingue ariane. Anche per que-
sto perfezionamento va dunque lodato il Thausing.
Ma notati i pregi, devo mettere in luce i difetti che mi par di scorgere nel-
l'ingegnoso sistema.
L' incongnienza di procedere prima dalle consonanti deboli alle forti (w, f; j ,
eh; s, /s) e di tenere poi il contrario cammino (p, b; k, g; t, d), sarebbe cosa ben
lieve. E se ne scopre subito il motivo. Il Thausing volle certamente porre accanto
alle vocali ed alle nasali , perchè più affini alle une ed alle altrq , le consonanti de-
boli, che sono di regola sonore, anziché le consonanti forti che sono sempre sorde.
Questa affinità maggiore delle consonanti deboli con le vocali e con le nasali è in-
negabile ; ma la sua ragione non dipende da articolazione orale e non occorreva perciò
di turbare in nulla l' ordinamento delle serie. Bisognava notare solo le consonanti de-
boli 0 solo le forti che per articolazioni orali non differiscono tra loro, sibbene per
forza orale e laringea, avvertendo il trapasso alla risonanza nasale.
Anche mòno giustificabile è la precedenza data alla l sulla r nella serie delle
dentali. Come infatti si può dire più vicina la prima della seconda all' a centrale?
Nella formazione della l, oltreché la punta della lingua si spinge innanzi fino a toc-
care i denti o gii alveoli o il palato, si ha sempre xva. rialzo laterale dei lembi di
essa, che si staccano dai denti mascellari. Si potrebbe piuttosto dire meno lontana
dall' a la r, per la qtiale non v' ha nessuno di que' contatti e nessuna articolazione la-
terale della lingua; e ci conforterebbe ad affermarlo anche il facile passaggio dell'i-
cacuminale in un a, che avviene p. es. in inglese. Ma il vero è che per la r e per
la l gli atteggiamenti della lingua sono troppo diversi : 1' articolazione é estrema nel
primo caso (non parlo qua della r uvulare), ed é doppia, estrema cioè e laterale, nel
secondo. Il porle nella serie stessa, anzi che in due serie parallele, è dunque un'in-
frazione manifesta della legge stabilita di ordinare le voci in ogni serie secondo il
grado diverso di una medesima articolazione. Anche qui siamo costretti ad ammirare
l' acume dei grammatici indiani , dai quaU le vocali ;■ , l furono congiunte con due
ordini distinti di dentali, con il cacuminale e con l'alveolare: quantunque qualche
riserva s'avrebbe pure a fare, specialmente per laZ, che per la sua doppia articola-
zione si mostra non solo affine alle dentali (e più che mai, tra queste, all'ordine
delle interdentali) , ma spesso anche meglio alle labbiali, ciò che appare manifesto
nello slavo.
Ma cerchiamo più da vicino le ragioni della successione delle tre serie di vo-
cali e di consonanti, quale fu ammessa dal Thausing. •
— 20 —
Egli non ripete gli errori del Merkel. Questi avrebbe segnato, secondo che si
vide, assai male gl'inizi vocaKci per due serie; cogKendo il vero solo a proposito
della serie più facile labbiale, clie muove indubitatamente dall' «.
Il Thansing non dice che la spirante j palatale sia principio delle consonanti
dentali, ma ci insegna che queste confinano con r, l. Basta, come osservai dianzi,
determinare meglio l' articolazione delle due liquide , quella sovra tutto della l, per-
chè la proposta si possa accettare. La parentela di articolazione tra alcune ma-
niere di r ed l e le molteplici dentali, ed anche la esistenza di un r e di un l so-
nanti è benissimo assodata. Ed è questo, ripeto, un bel progresso, anzi il più
difficile per avventura che si potesse fare nel nostro argomento ; sicché il buono
compensa qui ad usura il piccolo sbaglio notato.
Ma rimangono altre obbiezioni da fare alle altre parti della teoria. E scegliendo
quelle che mi paiono più poderose, domando subito se il Thausin* abbia corretto
ugualmente bene 1' altro errore commesso dal Merkel nell' ordinamento delle voci
gutturali.
Anche qui i diie fisiologi si contraddicono fieramente, perchè il primo vuole
che l'inizio sia in / e il secondo voleva che fosse invece in a. Ma questa volta lo
sbaglio del Thaiising mi par molto più grave di quello del Merkel e veramente ine-
scusabile.
Come mai potè egli immaginare che dall' articolazione dell' i, per formare il
quale si solleva fortemente la 2Mrte anteriore della lingua verso il palato anteriore e
verso gli alveoli, si debba svolgere via via, per semplice differenza di grado, cioè per
articolazione sempre più stretta e dunque per avvicinamento sempre maggiore a
quegli alveoli, la serie delle guttiirali _;, eh, g, k per le quali occorre invece 1' innal-
zamento della j^arte jjosteriore della lingua verso la parte mediana del palato ? La
vocale i non vuol essere disgiunta dalle palatali, con cui la vollero già unita i
grammatici indiani: e ciò fu riconosciuto, come vedemmo, sebbene un po' a ma-
lincuore, dallo stesso Briicke.
Degli studi indiani non faceva probabilmente la dovuta stima il Thausing, che
volle lanciare contro di essi una frecciata inconsulta, quando per meglio magnifi-
care le miniere, certo ricchissime, dei dialetti viventi, volle deprimere, a quel pa-
ragone, i tesori favolosi dell' Oriente {die Fahelsclidtze des Orientu, pag. ix). Egli, che
era acceso di così vivo entusiasmo per quella scienza del linguaggio che giudicava
essere « la più bella e la più alta parte dello studio della natura » (pag. 2) non av-
vertiva che essa si compie veramente solo come scienza storica. Sicuramente non
doveva a lui fare punto scrupolo lo allontanarsi dalle teorie antichissime de' Pràti-
r/ikhyas. E poiché si contentò di tracciare tre serie sole di consonanti e di esaminarne
in modo molto superficiale le articolazioni orali, possiamo comprendere come dovesse
facilmente cadere nell' errore notato. Non credendo di dover sempre tenere d' occhio
anche la posizione della lingua, ma badando per le labbiali a quella sola delle labbra,
ragionò di sicuro al modo seguente: Al varco e al contatto che si ottengono con le
due labbra, succedono prima quelli della punta della lingiiaepoi quelli del dorso di
— 21 —
essa colla volta superiore della bocca. Si devono dunque fissare necessariamente tre
articolazioni principali: del^j esterno, del t mediano e del k interno. Non rifletteva che
mentre l'articolazione labbiale ha assai poca varietà (accompagnandosi con essa al
più al. più la labiodentale), il dorso della lingua per la sua superficie cosi lunga si
presta ad articolazioni diversissime, che vogliono necessariamente essere suddi-
stinte : che devono pure essere suddistinte le articolazioni della punta della lingua ,
la quale si può recare in luoghi assai diversi sulla volta della cavità orale.
Fatte queste riserve, per le quali apparisce che la classificazione del Thausing
è da dii'6 imperfettissima, si può in certo modo giustificarla alquanto, e dire che
non abbia altro difetto se non questo di poca distinzione, ponendo essa insieme da
una parte le dentali alveolari con le cacuminali; dall' altra anche più grossolanamente
le palatali con tutte le gutturali. Così u, r, i rappresenterebbero convenientemente tre
modiche aperture di bocca e p, t, e tre diverse chiusure compiute, segnando un
procedimento continuo e sempre regressivo dall' esterno all' interno : dalle labbiaU
alle dentali e alle palatali.
Molto meno spiegabile è che la riuuuzia a tutte le squisitezze della classifica-
zione indiana sia stata fatta anche dal Whitney : cioè da uno dei più celebri vedi-
sti , da uno de' pochi dotti a' quali le sottili dottrine della fonetica sanscrita devono
essere molto famigliari, avendo egli non solo curato 1' edizione di uno de' Veda, ma
anche quella del suo Pràtiqàhliya.
Volendo pur trovarla una ragione, io non so pensare ad altro che a qualche
punto debole della teoria indiana, per togliere il quale non deve aver dubitato il
Whitney di abbatterla tutta e di edificare in suo luogo un altro sistema, che con-
corda quasi pienamente con quello testé esaminato del Thausing e che però
merita, a mio avviso, più gravi censure di quello indiano che volle abbandonare.
Il punto più debole, il lettore m'ha già capito, era la posizione dell' « in capo
all'ordine delle gutturali, della quale dovetti, toccare più addietro. Credo allora
d' aver messo in chiaro come quella collocazione sia del tutto oppugnabile ove si in-
tenda di parlare delle gutturali anteriori e meno profonde; potendosi ammettere
una certa affinità dell' a (non mai una contiguità vera) soltanto colle gutturali più
interne, per le quali la lingua si ritrae veramente alla sua radice verso il palato
molle, senza sollevare punto la sua parte mobile per fare nessuna articolazione.
E se le gutturali indiane erano appunto le gutturali più profonde del Bruche?
In questo caso la classificazione dei grammatici indiani, fatta qualche lieve riserva
intorno all' oscuramento gutturale dell' a, che non pare accennato (il sanwrta ed il
nivrta dell' a breve e dell' a lunga, dovendo essere stato ben altra cosa), si dovrebbe
approvare interamente. Ed essi avrebbero poi anche, con la teoria del guna^ impli-
citamente riconosciuta la maggioranza dell' a sulle vocali estreme.
Ma prima di tutto non pare che si possa consentire, sebbene qui non sia il
luogo di provarlo, che le gutturali indiane sieno state veramente le gutturali più
profonde. Senza negare che a principio le lingue ariane abbiano avuto anche que-
ste, che anzi m' ingegnerò altrove di portar qualche ragione a conforto di siffatta
- 22 —
tesi, pare assai verosimile che le gutturali indiane fossero le mediane del Briicke
{h\ non U'). E ad ogni modo, quando pure per la lingua indiana potesse valere per-
fettamente la teoria indigena , rimarrebbe sempre a cercare l' inizio vocalico delle
gutti;rali più avanzate; non potendo il fatto indiano valere per le altre lingue man-
canti di gutturali profonde.
Questa necessità non poteva sfuggire all' acutissimo "Wliitney; il quale conside-
rando che le gutturali men vere, ma più comuni per noi, che sono le più anteriori
(fc' del Brucke) hanno stretta aiSnità con le palatali, pone anch' egli a principio
delle nostre gutturali, eh' ei chiama anzi un po' leggermente palatali senz'altro, la
vocale i. A questa contrappone poi la vocale u onde si comincia la serie labbiale. E
finalmente tra palatali e labbiali inserisce una terza serie linguale o dentale, avver-
tendo che essa piglia le mosse dall'i- o dall'? vocalici. Fa insomma quello che ve-
demmo fare al Thausing.
Ma io ripeto contro il "Whitney, come contro il Thausing, che questa succes-
sione di u, r, i rappresenta solo la situazione delle articolazioni, trascurando del
tutto per la vocale ?t la posizione della lingua e che perciò è incompiuta ed erronea.
Si viene per essa allo strano risultato, che le vocali u ed i siano meno vicine tra
loro, di qiianto ciascuna di esse sia vicina all' r vocale (ed alla l)\
Basta, credo io, enunziare questa conseguenza, per dimostrare la necessità di
modificare le premesse e di modificarle badando principalmente alle articolazioni
della lingiia. Non e' è bisogno di addurre le troppo facili prove del passaggio di u
in t, manifesto per tanti fatti, e di porle in bilancia cogli sviluppi vari di a, di u,
di / dalle liquide.
Ognuno consentirà senza sforzo che la natura fisiologica e acustica delle vocali
propriamente dette le contrappone tutte insieme alle liquide, come a vocali meno
perfette.
Non posso sapere se il "Wliitney abbia avuto notizia del Sistema naturale del
Thausing, perchè il glottologo americano, avendo, solo due anni dopo la pubblica-
zione di quel libro, scritto sulle relazioni delle vocali con le consonanti, non ricorda in nes-
sun luogo il suo predecessore; almeno nella seconda edizione del suo lavoro, uscito
1' anno 1874 nel 2" volume degli Studi orientali e linguistici, che soli ebbi sott' occhio.
Certo la concordanza delle due teorie è grandissima, come apparirebbe subito dalla
tabella di classificazione dataci dal Whitney. Ma per risparmio di spazio non voglio
nemmeno riportarla. Potrò bensì chiamare l' attenzione del lettore suUe poche e lievi
differenze dei due sistemi, e se ne vantaggerà tutta la mia trattazione.
Un miglioramento è innegabile, sebbene incompleto, rispetto alle liquide, le
quali sono presentate dal "Whitney senza differenza di grado, ma non ancora, come
pur si dovrebbe, in diverse serie: sicché date ivi come una coppia di voci gemelle,
in compagnia di tutte le altre voci semplici, sono una stonatura. Un'altra differenza
poteva pur riuscire ad un vero miglioramento; ma cosi com' è bisogna dirla in-
vece un regresso. Ed è insieme tale da scoprirci un' altra imperfezione dell' in-
tero sistema del Whitney e insieme di quello del Thausing. Questi aveva, come
— 23 —
notai, commesso un piccolo sbaglio di iucoerenza nell'ordinamento delle esplosive,
volendo mettere in luce la sonorità delle nasali. Il Wliitney, perchè questa qualità
sia anche più evidente, non colloca le nasali in fine della piramide, dove si poteva
pur concedere che fossero poste le vere nasali, per la chiusura della bocca che ad
esse è veramente necessaria; ma le trasporta più in sii tra le semioocali e le fricative,
sicché nonostante la loro affinità manifesta, separa crudamente questi due ordini.
Ma del luogo che spetta alle nasali nella classificazione unica delle vocali e delle
consonanti dovrò trattare più innanzi. Qui, come dicevo, m' importa solo di notare
che il Thausing, oltre ad essere più esatto nel modo suo di considerare le nasali, ve-
niva a nascondere meglio un altro grave difetto del suo schema, il quale in quello
del Wliitney diventa troppo palese, ed è il seguente:
Entrambi vengono a porre tutto il vocalismo come un gruppo centrale in mezzo
a tre correnti di consonanti, le quali muovono in direzioni diverse e si separano al-
lontanandosi via via r una dall' altra sempre più, di mano in mano che per cia-
scuna si fa maggiore lo stringimento della cavità orale. Si avrebbe dunque questo
strano risultamento, che tra nessun' altra voce la differenza sia più forte che tra le
consonanti esplosive e p. es. tra j^, t, ek; mentre la stòria della lingua prova che per
virtù di una parassita facilmente possa essere sostituito un k dal j^ e dal t. Nello
schema del Thausing 1' opposizione rimane più coperta dalla vicinanza delle nasali,
che forse indicava, anche nel suo pensiero, una certa loro parentela latente con le
consonanti implosive (esplosive) e per così dire un ritorno, per via della risonanza
nasale, alla perfetta sonorità vocalica; benché egli non l'abbia punto accennato! Ma
nello schema del Whitney quelle tre voci appaiono remotissime 1' una dall' altra e
rappresentano i tre punti di massima divergenza dal suono fondamentale e naturale
dell' a.
Se non erro, la principale cagione per cui furono tanto imperfetti i pochi ten-
tativi di classificazione unica delle voci , fu 1' aver badato troppo poco alle articola-
zioni della lingua, prescindendo del tutto dalla posizione normale di essa per la forma-
zione delle labbiali. E si aggiunse, come conseguenza ed occasione di nuovi errori,
la poco felice rappresentazione grafica delle diverse voci , che si raffigurarono quasi
si trovassero in rapporti semplicissimi di linee rette su di una superficie piana;
mentre, a mio credere, sarebbe stata molto più opportuna una rappresentazione
di linee curve, che • significassero non ricisi e duri ma dolci e continui trapassi dal-
l' una all' altra voce.
Ed ora la parte positiva del mio studio potrà essere molto breve; avendo io
mirato sempre ad essa in tutta la parte precedente storica e critica. Ecco dunque
senz'altro le mie considerazioni più generali. Sopprimo anche quella rappresentazione
grafica che vorrei proporre, perchè mi richiederebbe troppo lunghe dichiarazioni.
Per prima cosa le nasali, a cui occorre sempre un maggiore o minore abbassa-
mento del velo palatino e la vibrazione dell' aria nella cavità del naso, dovranno essere
contrapposte a tutte le altre voci orali jìure per le quali il velo palatino sollevatosi
impedisce ogni comunicazione colle narici, sicché la risonanza avviene unicamente
— 24 —
nella cavità della bocca. E a mio giudizio un grave errore lo inserirle tra queste
ultime, in questo o in quel punto, teuend.o conto solamente delle articolazioni
della lingua e delle labbra.
La diversità del tubo di risonanza è qui certamente il carattere supremo : opperò
articolazione essenziale dev' esser detta per le nasali quella del velo pendolo. Secondo
le sole articolazioni della lingua e delle labbra la designazione del grado che esse
devono tenere nella serie delle voci riuscirà sempre impossibile o sarà sempre ar-
bitraria. E vero che, per la chiusura della bocca , con le nasali confinano le consonanti
implosive (esplosive) che sono fra tutte le più opposte alle vocali. Ma non è men vero
che le nasali anche a queste danno la mano, essendo tutte le vocali, quanto più si
allontanano dai punti estremi della serie , ossia quanto meno sono sottili e lontane dal-
l' rt, facilmente nasalizzaòili. Vi ha dunque come un circolo continuo e compiuto.
Per le nasali perfette il velo pendolo lascia del tutto libera la via normale della re-
spirazione ,. che è quella del naso. Esse non allontanano , a questo riguardo , dallo
stato d' inerzia l' apparato vocale, che veramente produce con facilità de' suoni na-
sali, anche nel sonno; e sta dunque bene che sieno poste a principio. Ad esse si
dovranno far seguire primieramente le vocali nasalizzate, per cui il velo pendolo già
si rialza alqiiauto e la voce laringea risuona propriamente nella bocca. La via del
naso si chiude del tutto per le vocali pure ; trovando per queste la corrente sonora
dell' aria la bocca aperta e non incontrandovi ostacoli veri , sebbene vi sia varia-
mente guidata. Ma gli ostacoli ricominciano per la formazione delle consonanti e cre-
scono più e più fino alla chiusura compiuta, che dà luogo ai romori implosivi ed
esplosivi. Ove questa chiusura continui non è possibile alla voce altra uscita, se non
mediante il riaprirsi del varco del naso: ed ecco che così si ritorna alle voci nasali,
da cui si partiva.
Questo sistema naturale delle voci mi pare che sia bene i-appresentato dalla sil-
laba sacra degli indiani arem, che ci dà i due punti estremi della bocca interamente
aperta e della bocca interamente chiusa e il punto intermedio della serie labiale.
Volendo significare anche la situazione propria delle consonanti esplosive (implo-
sive) in cui si riesce ad un vero interrompimento della fonazione, basterebbe na-
turalmente frapporre tra la vocale labbiale o la nasale labbiale l' esplosiva debole o forte
dello stesso ordine, scrivendo auhn, anpm. Ma nulla vieterebbe di fare analoghe rap-
presentazioni per le altre serie: per la dentalo alveolare p. es. ardn od artn, per la
dentale cacuminale nrrZw, artn, per la palatale aig'ri, aic'n; notando naturalmente che
per la doppia articolazione propria dell' l occorrano diverse formole.
E per le altre serie? Per trovare le formole convenienti alle diverse gutturali,
che sono le principali voci non ancora classificate, mi è necessario di ripigliai'c il
filo delle mie considerazioni, esaminando più accuratamente le varie articolazioni
della lingua.
Questa ha assai minore agio e spazio di muoversi abbassando la punta, che pro-
tendendosi o ritraendosi o sollevandosi verso il palato. Un'inclinazione ad abbassare
senz' altro la punta appare specialmente per le voci labbiali , quasi la lingua debba
cedere il luogo all' azione delle labbra cui spetta la vera articolazione. Rispetto alle
labbiali la lingua avrà dunque ben poca varietà di movimenti, e le altre serie si po-
tranno contrapporre ad esse come più propriamente Unrjuali nel più largo senso
della parola; saranno naturalmente molteplici e tanto -^m. bisognose di accurata
distinzione, quanto più diverse possono essere le loro alterazioni.
• Ma si avverta subito come le articolazioni anteriori della lingua, rispetto al
punto ove avviene il contatto, sieno bensì da riconoscere quali mediane tra l'artico-
lazione delle labbra e le articolazioni posteriori della lingua; ma quanto alla natura
stessa dell' articolazione non si possa punto concedere che le voci dentali serbino lo
stesso rapporto di fronte alle labbiali ed alle gutturaK. V ha come un cerchio conti-
nuo cU articolazioni della lingua, sicché la situazione mediana è di tutte le serie e
•non è di nessuna. Piuttosto che alle dentali si potrebbe dire che il posto mediano
sia da dare alle gutturali od anche alle labbiali, che meno rimuovono la lingua dallo
stato normale. Le dentali sono invece le articolazioni più energiche ed estreme. In-
fatti le gutturali hanno comune con le dentali un innalzamento della lingua verso
la parte superiore della bocca, con le labbiali l'abbassamento della punta. Le dentali
e le labbiali, sebbene vicine di luogo, non concordano per nulla nell'articolazione
della lingua che è protesa per le prime e sollevata , abbassata e invece ritratta per le
seconde; sicché, a questo riguardo, sono opposte recisamente le une alle altre e piut-
tosto per via delle gutturali si avvicinano e in esse s' incontrano. Anziché essere
giusta la successione apparente u, r, i delle vocali ovvero quella p, t, e delle con-
sonanti, riescono dunque legittime e naturali le successioni u, i, r; p, e, t; meglio
ancora : u, i, r, «. Epperò si deve conchiudere che male sieno messe le dentali come
voci intermedie e più affini di tutte all'a puro nei sistemi del Thausing e del Whitney.
Ma non s' è detto, peranco, con queste formole, qual posto tocchi alle gutturali
propriamente dette: si è segnato piuttosto quello richiesto dalle palatali, che si dissero
già gutturali o anche dentali imperfette, come quelle che sorgono di solito dal lo-
goramento di quelle o di queste anziché essere voci native. Queste formole triplici
non possono dunque bastare; occorre che diventino almeno quadruplici e accolgano
anche le gutturali , che sono più semplici e schiette delle palatali.
Sebbene il luogo che tocca alle gutturali perfette non possa rimanere più dubbio
per i ragionamenti fatti dianzi, che misero in chiaro l' affinità di esse con le labbiali,
riconosco di buon grado 1' opportunità di ristudiare la cosa sotto un altro aspetto.
Esaminando le leggi di articolazione delle diverse vocali si giungerà anche più
facilmente allo stesso risultamento.
E noto come alla vocale fondamentale , ossia all' a teorico puro , non occorra
la Ungua sia tolta da quella posizione di assoluta inerzia che essa ha naturalmente
quando , a bocca chiusa , riempie quasi del tutto la cavità orale. Basta a quell' «
r apertura della bocca ; e il suo suono si fa tanto più cliiaro e compiuto quanto
più la mascella inferiore si scosti dalla superiore.
Ma la lingua si muove e, coi suoi diversi atteggiamenti variando la forma della
cavità orale, altera più o meno il timbro di quel suono fondamentale. L' u si pro-
i
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duce, come i fisiologi affermano concordemente, quando la lingua si solleva alquanto
nella parte posteriore verso il mezzo del palato; onde avviene che la punta della
lingua si abbassi e si ritragga ben discosto dai denti inferiori. Per contro si pro-
duce l' i , quando la lingua si avanza e si solleva con la siia parte anteriore verso il
palato e gli alveoli. Cosi questi suoni estremi della serie vocalica, che si oppongono
l' uno all' altro anche per valore acustico (perchè per il primo il suono primitivo la-
ringeo viene rinforzato ne' suoi toni complementari più bassi , laddove per il secondo
si debbono questi ultimi ammorzare pigliando invece incremento i più acuti), sono
in reciso contrasto. Perciò appunto son possibili parecchie vocali intermedie, che si
generano per altri sollevamenti della lingua fatti colla parte centrale. Io mi contento di
fissarne una sola, l' il (greco, francese, ec), e domando: quale serie di consonanti sarà
affine per articolazione a siffatta vocale frapposta fra l' te e Vi, che è certo sottilis-
sima anch' essa, ossia posta nello stesso grado di lontananza dalla vocale a e in-
somma allo stesso punto di cammino verso il consonantismo? Poiché la punta della
lingua per tutta la serie vocalica dall' ì« all' i rimane sempre bassa, l'ordine delle
consonanti cercato non potrà trovarsi tra quelle dentali che vogliono un avvicina-
mento o un contatto coi denti superiori o cogli alveoli. Ma quella serie richiede
pure un sollevamento dorsale della lingua; il quale essendo più che mai posteriore
per 1' « , pili che mai anteriore per l' i , per la vocale ii frapposta sarà naturalmente
mediano. Non potrà dunque corrispondere a questo il la serie labiale ond' è proprio
il massimo abbassamento della punta; e neppure la serie 2>alatale , perchè questa ri-
chiede mi forte sollevamento del dorso anteriore. Or dopo le dentali, le labbiali e
le palatali si giunge finalmente, per esclusione delle altre serie, alla quarta, guttu-
rale. Queste gutturali, che congiungendo veramente con un certo abbassamento della
punta della lingua un sollevamento posteriore, si devono collocare necessariamente
tra le labbiali e le palatali , troveranno il loro giusto inizio in quella vocale m.
Aggiungiamo dunque subito alle formole date più sopra anche la formola delle
gutturali più comuni, che sarà aìig-f ovvero ailk-i. E inutile avvertire che oltre le quat-
tro serie principali che furono discusse, rimarrà sempre possibile, o anzi sarà ne-
cessaria, secondo i diversi casi, la determinazione di altre ed altre ancora, che si
interpongano fra quelle; e che per farla a dovere converrà sempre osservare dili-
gentemente le articolazioni della lingua. Le dentali cacuminali si verranno a porre, per
esempio, accanto alle jialatali; e di esse si potrà dire che la punta vi si sostituisca
alla parte anteriore della lingua e ne faccia le veci. Tra le labbiali e le dentali pro-
priamente dette staranno le interdentali, per cui la lingua non avrà né abbassamento
né innalzamento della punta, ma semplice protensione. E a questa articolazione se-
nile (a cui giunge p. es. nello spagnolo, per massimo abbandono della lingua, la si-
bilante succeduta ad una gutturale antica), si opporrà più d'ogni altra quella jji«.
giovenile di tutte delle gutturali del tutto interne, che soi'gono per ritiramento della
lingua alle sue radici e non trovano veramente il loro luogo in nessun punto del
cerchio, ma son centrali rispetto a tutte le altre serie.
Ed ora, fissate anche siffatte distinzioni ulteriori, che potrebbero essere più
minute, troppo mi importa di avvertire come, secondo le migliori descrizioni dei
fisiologi, il carattere essenziale delle gutturali più comuni o anteriori sia vera-
mente il sollevamento più o meno centrale della lingua verso il palato; di che
oo-nuno può del resto persuadersi con facile osservazione sopra so medesimo mediante
un semplice specchio. Or si può anche da quel carattere derivare immediatamente
la loro situazione mediana tra le palatali e le labbiali. Per poco che il sollevamento
si avanzi dovrà tramutarsi infatti in palatale; per poco che retroceda dovrà far
luogo al forte abbassamento anteriore. E poiché alle labbiali succedono per via delle
intordeutali le dentali e dall' altro lato alle palatali son prossime le dentali cammi-
nali e dorsali, ecco riapparire la catena che ritorna sovra se medesima, a cui m' av-
venne di paragonare la successione dei gradi in ciascuna serie.
Ma, a conforto delle considerazioni fisiologiche fatte fin qui, credo opportuno
d' aggiungere qualche riprova tolta alla glottologia storica. La scelta è facile perchè
esse abbondano.
Prima di tutto , poiché il caposaldo secondo U quale ho riordinato tutto il sistema
delle voci articolate , è la grande affinità delle gutturali comuni con le labbiali , le
quali secondo il Thausing e il Wliituey avrebbero invece dovuto giudicarsi lonta-
nissime da quelle e separate perla serie dentale o linguale, voglio ricordare la esistenza
di consonanti labiogutturali , che darà certo uno dei più forti rincalzi alla mia teoria.
Io lo farò citando un luogo delle Ricerche Etimologiche del Pott: « Nel linguaggio
dei Yorubi si trovano, perfino inizialmente, unite volentieri ^& ytjj, due strane combi-
nazioni , perchè per esse si deve varcare tutta intera la distanza che è dalla gola alle
labbra. » A noi non devono parere strane, ma legittime e naturalissime, per la grande
affinità di articolazione della lingua onde sono stretti insieme i due elementi; U
Pott le giudicava, anche lui, badando solamente al luogo del contatto. « Eppure, egli
prosegue, il Crowther {Yoruha Gramm.) descrive queste combinazioni con le seguenti
parole: Gh e Kp danno ciascuno un suono che è tra Z» e </, tra 2^ e k; perchè tutti
e due gli elementi /«jmio insieme una sola consonante. P non comincia nessuna parola
per sé solo (e v' hanno lingue ove manca affatto). Esso vi si trova sempre unito col
h: cosi lo si sente in kpakijork unire, mescolare. Anche la lingua Ève conosce 1
suoni labiogutturali fcp, gh ed i suoni labiolinguali e gutturali insieme fcjs^, ghl »
(Schlegel, pag. 14). Dopo quello che s'è detto sull'articolazione dell' Z e della sua
articolazione laterale essen^almente posteriore , anche questi complessi devono parere
appieno giustificati. Potrei continuare a tradurre il Pott che ritrova le labioguttu-
rali in altre lingvie, degli Haussa, ào' Bullom, ecc. {Etym. Forscli. "11, pag. 71); ma ba-
sti aver rimandato ad esso il lettore, il quale nella stessa opera troverà un altro
passo molto importante (pag. 63) , .ove si nota che anche nel massimo numero delle
lingue americane (Kechua eco.) ha prevalenza il gutturalismo.
Onde non gli parrà forse improbabile che abbia predominato il gutturalismo
nelle lingue più antiche e che si serbino queste traccie dello stato primitivo nelle
lingue meno perfezionate de' selvaggi. Eecando in aiuto delle considerazioni filoge-
niche, ossia della specie, quelle degli individui, che chiamano ontogeniche, non
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lascerò di notare che nello sviluppo primo della facoltà del linguaggio i bambini
cominciano ad emettere dei gridi gutturali. A poco a poco acquistano le varie ar-
ticolazioni della lingua e imparano a muovere senza incertezza quest' organo mobi-
lissimo : e per lungo tempo nelle loro voci senti spesso commescersi veramente l'ele-
mento guttiirale. Senonchè per quanta attrattiva possano avere per il glottologo
anche siffatti riscontri, temo che ognuno li trovi qua troppo fuori di luogo.
Più facilmente mi si consentirà di addurre un argomento tolto alle lingue ro
manze e più propriamente al francese, che anche dimostra la parentela delle guttu-
rali con la serie labbiale.
Il francese avanti alle vocali labbiali {u ed o) serba di regola intatta la guttu-
rale antica, forte o debole che sia ; ma davanti alle vocali palatali (/, e) ed anche da-
vanti air a la tramuta variamente in sibilante. Di questo vario assibilantismo si
può anche trovar le ragioni, come tento di dimostrare in altro lavoro. Ma intanto
si noti subito che il testimonio del francese è più che mai valido in questo caso;
perchè esso avvicina 1' m labiale all' i palatale, assottigliandolo appunto in quell' il
che dimostrai essere naturale inizio delle gutturali anteriori.
Ed ora da questi fatti seriori , forniti da uno degli idiomi viventi della famiglia
ariana , senza uscire da questa si risalga a fenomeni che appartengono a' periodi più
antichi. E si considerino alcuni fenomeni di fonologia sanscrita che sono per sé
semplicissimi, ma che invano si vorrebbero spiegare senz' ammettere uno stretto
accordo delle labiali con le gutturali. Esse si oppongono subito alle altre consonanti
palatali, cacuminali o dentali per la mancanza della corrispondente sibilante che
queste tre serie posseggono. E noi vediamo che tra un n finale ed un i, un |, un e
iniziale la sibilante analoga si introduce o serba [s, sh, §) occupando l' intervallo che
è necessario tra il contatto voluto dalla nasale e quello che occorre alla esplosiva.
Basta infatti a produrre le sibilanti iin movimento anteriore della lingua, che,
ne' luoghi appunto ove si articolano il t, il t, ed il e, formi, ritraendosi alquanto, una
piccola stretta, dove 1' aria passi, gettandosi contro i denti e fischiando.
Le gutturali e le labbiali non possono, come queste tre consonanti, favorire quella
stretta, perchè richieggono invece un sollevamento della parte posteriore della lin-
gua e nella parte anteriore della bocca piuttosto un gran vuoto.
Come mancano sole di propria sibilante, cosi si accompagnano poi ancora nel
consentire, contrariamente a ciò che avviene per le altre consonanti, la tramuta-
zione dell' ?t dentale in n cacuminale, quando esse si trovino frapposte tra quell'»
ed f-, r, s, tutte cacuminali, precedenti. Le consonanti che richiedono per sé il
lavoro della parte anteriore della lingua impediscono dunque il lingualizzamento :
facilmente lo permettono invece le gutturali e le labbiali che lasciano così largo
spazio nella parte anteriore della bocca e liberissima la punta della lingua. Al qual'
proposito si può pur ricordare come per Vs invece non provochi quella mutazione 1' a
che non richiedo sollevamento della lingua: ma sì lo determinano le vocali sottili
u, i a cui occorre una stretta della bocca e che sono estreme nella serie vocalica.
Un altro fatto analogo è la persistenza di e', y palatine nel più antico loro stato
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di gvitturali quando sieno in fine di temi , se precedono a gutturali od a labbiali. Così
occorre spesso nel Eig Veda di notare che avanti ad u , v del suffisso si abbia la gut-
turale invece della palatale {reìcu- da rie, vankii- da vane). E lo stesso fatto fu notato
per 1' antico battriano {liikil- rispetto ad hàecaya).
Non è meno chiara un' altra legge del samdhi indiano; che fa pure all'uopo no-
stro: quella cioè per cui si converte in visarga (in jilivamùliya ed in upadlimàniya)
una sibilante finale , incontrandosi in una sorda gutturale o labbiale che cominci la
parola seguente. Qiiel concorde ammutire della sibilante (e dell' r) innanzi a k, kh,
^>< , jj/i riconferma mirabilmente la speciale natura della costoro articolazione, che
meglio appare nella energica formazione delle sorde.
A questo punto ricorderò ancora, che no' sidri di Civa, cioè in quell' artificioso
ordinamento delle lettere dell' alfabeto sanscrito in 14 gruppi (pratyaharfis) che si
trova in principio della grammatica di Panini (ordinamento che non fu certamente
fabbricato a priori, ma conquistato con pazientissima induzione) , il & ed il p sieno
posti insieme e vi formino da soli il duodecimo gruppo. Anche questa mi pare una
bella conferma della tesi da me sostenuta.
Ed oramai , sopprimendo ogni altro argomento che potrei arrecare in sostegno di
essa, oserò bene di soggiungere che da siffatta determinazione delle gutturali comu-
ni, le quali vengono poste quali voci molto affini alle labbiali ed intermedie tra que-
ste e le dentali, debbano derivare corollari di molta importanza per la dichiarazione
fisiologica delle alterazioni prodotte nelle vocali dalle consonanti vicine o in queste
da quelle: come p. es. se ne spieghi con la più bella evidenza il noto palatalismo (o
dentalismo) delle gutturali seguite da vocali chiare ed il labialismo cui vanno sog-
gette innanzi alle più cupe. Questi fatti importantissimi riconfermano pienamente
la mia classificazione. E chiaro infatti che se fossero per articolazione assolutamente
intermedie le voci dentali, queste piuttosto dovrebbero farsi facilmente e labbiali e
gutturali; od almeno dovremmo trovare che le gutturali si tramutassero in lab-
biali soltanto per via delle dentali frapposte.
Si potrà dunque , correggendo l' ordinamento delle vocali e delle consonanti che
fu proposto dal Thausing e dal Whitney, considerare le formole trovate per gli
oscuramenti consonantici delle diverse vocali come i più siciiri criteri generali che
possano guidarci nelle spiegazioni particolari di tutte quelle alterazioni fonetiche,
che mi piacque in principio di contrassegnare col nome di adattamenti delle artico-
lazioni orali.
— so-
li.
DIVERSE GRADAZIONI DELLE VOCALI TONICHE
E PERDITA O NATURALE ROTAZIONE DELLE ATONE.
La mascella inferiore è il primo , la
mascella superiore è il secomlo , la voce ò
1' unione , la lingua il mezzo dell' imioue.
Prcitit^akhya del Riti Veda.
Al compianto Canello si deve gran lode anche per avere tentato di scoprire le ca-
gioni fisiologiche dei fenomeni che si osservano nella storia delle vocali toniche. Ubbi-
diva il valentuomo, in quella sua fatica, all'incomparabile ardore che sempre lo ani-
mava nella ricerca del vero, al bisogno prepotente del suo acuto ingegno che si chie-
deva con insistenza le ragioni più remote di ogni cosa. Ma il tentativo falli del
tutto, perchè egli aveva troppo frantesogli insegnamenti dei fisiologi sulla formazione
delle vocali e non era riuscito a farsi un chiaro concetto della natura degli accenti.
Quella trattazione vuol essere ripresa con uguale amore e posta su basi più salde.
E a me pare, per voler dire sùbito il mio pensiero, che anche per 1' accento ac-
cada in generale, come per la classificazione delle vocali e delle consonanti, che si
badi troppo esclusivamente ai fenomeni della trachea e dei polmoni e si dimentichino
(juelli deUa cavità orale. Ce lo mostra quella stessa divisione degli accenti in esj)/'-
ratorlo e vitisicale della quale oggi si fa tanto clamore. Quasi tutti 1' accettano, ma
in generale con troppa indeterminatezza di definizioni, che non accenna a sicura
precisione di concetti.
Anzi tutto è ovvio notare che senza maggiore impulso espirntorio non si debba
avere incremento di nessuna maniera di accenti : che perciò contrapponendo l' espira-
zione alla musicalità si viene a porre malamente accanto al genere una sua specie par-
ticolare. Meglio sarebbe distinguere forza , altezza e durata dell' accento come si fa
solitamente in acustica , e come già facevano gli Indiani e i Glreci.
Non si dica che la censura sia futile, volendosi con accento espiratorio indicare
appunto la forza maggiore e con accento musicale la maggior altezza delle voci, sic-
ché nel secondo caso si segnerebbe un incremento di tensione nelle corde vocali, che
mancherebbe nel primo.
Questa giustificazione non basta. L' organo vocale umano non può considerarsi
— 31 —
come uuo strumento semplicissimo a linguetta, ma lia un tubo di risonanza continua-
mente variabile. Questa variabilità, che è di suprema importanza per 1' articolazione
delle voci, importa pure per la teoria degU accenti. Bisogna a ogni modo tenerne
conto, cred'io, ed ammettere anche un accento orale determinato dalla maggiore o
minore apertura della bocca. Né è difficile provare che sia necessario distinguerlo
dall' accento musicale.
Gli studi felicissimi dell' Helmholtz , e quelli di parecchi altri fisici e fisiologi che lo
precedettero e lo seguirono, hanno posto in sodo le leggi da-cui sono governate nella
loro gradazione musicale le diverse vocali : dimostrando che la varietà di esse altro
in fondo non sia se non vma differenza di timbro, cui va soggetto il suono fondamentale
laringeo. Il tubo di risonanza si accorcia via via nella serie «.... i; nella serie a.... u
si allunga invece più e più; sicché per la prima si ha un oscuramento dei sopra ttoni
più bassi e un rinforzamento dei soprattoni più alti, per la seconda invece tutto il
contrario, avendo incremento i toni complementari bassi e gli alti ammorzandosi. Ora
l'accorciamento e l'allungamento della bocca non si possono solamente ottenere per-
chè le labbra si ritraggano o si protendano, ovvero perchè la lingua con moto con-
trario, ritraendosi o protendendosi, venga in certo modo a sostituirsi alle labbra.
Oltreché per siffatte articolazioni delle labbra e della lingua , deve prodursi un ac-
corciamento od un allungamento, che può essere molto sensibile, anche dalla tensione
■maggiore o minore delle corde vocali, quando noi alziamo il tono della voce; perchè
ad essa si accompagna naturalmente anche una tensione analoga della trachea; né
questa avviene senza un divario nell' innalzamento della epiglottide verso la radice
della lingua, che viene ad essere più o meno spinta avanti. Quella tensione dimi-
nuirà quanto più il tono si abbassi; ed allora anche quell' avanzamento della lingua
dovrà mancare. Tutto questo si dimostra del resto anche sperimentalmente, peri' im-
possibilità di pronunziare l' u nei toni più alti e 1' i nei toni più bassi. E se ne
deve deduri'e che l'accento musicale, per sé solo, non possa crescere senza tendere
a portare le vocali sempre più in alto nella serie u.. a... i e deva, mancando, la-
sciarle ricadere. E questa è infine la legge del Veruer.
Ben diversi sono gli effetti prodotti dal vario accento orale. La mascella inferiore
deve, rimanendo uguale l'altezza del tono, per secondare l'incremento della forza
espiratoria cresciuta, allontanarsi con maggiore energia dalla mascella superiore.
A questo fatto non si suol porre attenzione. Eppm-e è un fatto palese all'osserva-
zione più volgare. Io non mi meraviglio che nei canti omerici sia notato come atto
caratteristico dell' umano parlare appunto lo schiudersi della chiostra de' denti
(spxo? oScvtwv) : né che da un luogo del Praticàkhya per il Eig Veda appaia essere
state le mascelle anche dagli antichi indiani giudicate fattori principalissimi della
favella. Certamente il solo movimento della mascella inferiore lascia, aprendo la
bocca, libero il varco alle voci. Essa sola, scostandosi dalla superiore e riavvicinan-
dosi tosto, distingue di regola la successione delle parole nelle varie battute che
si potrebbero quasi dire costituite dall' andata e da' ritorni di quella. Ed è pure un
fatto innegabile il forte spalancare della bocca, che si fa da chiunque voglia gri-
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dare è farsi sentire da lungi o cantare o spiccar meglio le sillabe: dovechè abbas-
sando la voce e bisbigliando il movimento mascellare diventa minimo.
Or bene non è egli manifesto che qiianto agli effetti di siffatto spalancare della
bocca, o com'io dico, dell'accento orale, le vocali u ed * non possono più essere
situate, così com' erano per 1' accento musicale, una sotto e l' altra sopra la vocale a,
ma che, richiedendo un'apertura orale minore, entrambe si trovano inferiori di
grado rispetto ad essa?
Tralascio qua, com'è naturale, la maggiore o minore energia di articolazione
della lingua e delle labbra, che può certo unirsi all' accento orale, aiutando anch' essa
o contrastando , secondo il diverso atteggiamento fonetico di questo o di quel po-
polo, le tendenze dell'accento musicale che porta le vocali verso le tonalità più
alte o più basse.
Riconosco ben volentieri la possibilità di siffatte alterazioni; ma stimo di po-
tere per ora prescindere da esse, come da condizioni d' ordine subordinato e ulte-
riore rispetto al movimento mascellare da cui sono presupposte. Basti avvertire che
esse potranno turbare gli effetti di quest'ultimo o esagerandoli, o diminuendoli se-
condo i diversi casi.
E sempre si dovrà affermare che l' accento orale per uè solo non possa punto cre-
scere senza portare sempre più in alto, verso l'a, o insomma verso il vertice della
piramide simbolica, ogni altra vocale.
Appunto pensando a siffatta necessità di far conto anche dell' accento orale, di-
cevo pili addietro che la sostituzione della linea alla piramide nella rappresenta-
zione grafica delle vocali non mi pareva un utile progresso. La rappresentazione li-
neare, che si deve giudicare anche per altre ragioni poco felice, fu proposta infatti
da chi imaginò falsamente che per ciascvma delle vocali 1' apertura orale fosse di
necessità determinata, e sempre costante, epperò volle che cogli accenti essa non
avesse punto che fare.
Lo Scherer a cui accenno , fu indotto in errore dalla teoria delle vocaK da lui
studiata nel Briicke: il quale ebbe forse il torto di esporla senza le dovute riserve,
cioè senza tener conto dell' accento orale : che è del resto difetto comune di lui e
di parecchi altri trattatisti, intesi quasi unicamente a studiare la genesi delle voci
elementari e troppo dimentichi delle sillabe e degli accenti.
La teoria del Briicke era stata accettata dallo Scherer con piena fiducia, non
solo come vera sostanzialmente, ma come non modificabile da nessuna forza pertur-
batrice e veramente come assoluta; onde abbattutosi un giorno ad un libretto nel
quale s' affermava il fatto cosi comune ed ovvio del maggiore allargamento di bocca
nelle sillabe accentate, non dubitò di rimproverarne con amare parole 1' autore e
di rimandarlo a leggere pazientemente almeno quelle poche pagine del Briicke prima
di voler dare nessuna spiegazione fisiologica di fatti fonetici. {Ziir -Gesch. d. d.
Sprache, pag. 40).
Mi par questo uno dei più singolari esempì degli errori che si possono commet-
tere in causa d' un dotto pregiudizio.
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Avrebbe ben potuto lo Scherei- da sé, molto facilmeute, persuadersi della verità
di una osservazione cosi semplice, anziché perfidiare nel negarla, cedendo alla
inerzia d'un preconcetto scientifico. E avrebbe anche potuto vincerlo, se oltre la
teoria del Brtìcke avesse ben ricordato gli insegnamenti dati dal Merkel nella sua
opera maggiore.
Non si trova a dir vero neppure in questa nessuna dichiarazione esplicita degli
effetti deli' accento orale ; ma avrebbe almeno dovuto lo Scherer riconoscerne la pos-
sibilità, leggendovi a pag. 817 le seguenti paróle: « si può, sebbene non benissimo
pur distintamente, pronunziare tutte e cinque le vocali mantenendo la stessa aper-
tura di bocca; purché la lingua sola entro la cavità orale eseguisca i movimenti
necessari: così come j^uò 1' azione della lingua scemare alquanto se in vece di essa
lavorino le labbra, sempre ottenendosi lo stesso effetto. »
Io credo che molti tralignamenti fonetici delle vocali si devano introdurre a
poco a poco e furtivamente, appunto per il diverso intreccio dei loro massimi fat-
tori, per lo squilibrio cioè dell'articolazione e dell' accento.
Questo squilibrio dev' essere frequente , e solo per la molta elasticità e per gli
agevoli accomodamenti a cui si prestano le articolazioni orali, nonne risultano alte-
razioni repentine e pertui'batrici. L' accento orale può essere assunto da tutte le vocali
indistintamente , anche dalle più sottili , da quelle che come 1' u e V i richiedereb-
bero per sé poca apertura di bocca ; ma devono per via dell' accento essere proffe-
rite con apertura anche maggiore di quella che nella stessa parola sia conceduta
alle sillabe non accentate , sebbene si ritrovino in queste delle vocali naturalmente
più larghe, come Va, Ve, V o. Pronunziando Attilio, acidulo, furano e altre parole
siffatte ognuno può certificarsi della verità di quanto asserisco. In queste parole
l'apertura della bocca è maggiore per le tre vocaili accentate, sebbene siano per sé
le men larghe di tutte {i, u).
Ma una forza latente deve pur operare di continuo contro lo squilibrio notato
6 favorire uno stato più normale di corrispondenza dell' accento orale più forte con
le più larghe articolazioni.
E dopo aver constatata questa forza, non dovrà parere strano che, succeduto a
poco a poco nel latino volgare e nelle lingue romanze l' accento orale in luogo del-
l'accento musicale più antico, un i siasi avvicinato all' a allargandosi in é; ed un e
già molto vicino all' a abbia potuto allargarsi ed allungarsi dittongandosi anche
per aggiunta di ixna vocale più aperta, di un è o di un « a dirittiira. Così si ebbe éè
(i'e) nelle lingue romanze; così V ea dall' e nel rumeno.
In modo analogo si spiegheranno, nelle stesse lingue romanze, la mutazione di
a accentato in o e di o in o'ò {uo); così quella di oa da o nel rumeno. /
De' quali fatti si hanno anche fuori del campo romanzo bellissime analogie nelle
lingue germaniche, nel celtico e meglio che mai nel lituano.
Mi basti per quest'ultimo riferire poche notizie tolte alla grammatica del
Kiirschat (pag. 19-20). Egli spiega le vocali miste re ed u come una continuazione
di due vocali diverse {ein solcìier Mischlaut ist eine Lautbewegung) e avverte: « Non
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sono vocali originarie, ma sono nate per incremento od allungamento organico. E
veramente sorge lo ié per incremento od allungamento di ì per aggiunta di un e
(ovvero anche di un a) e 1' é dall' ?« per aggiunta di un o (o di a) ; lo iè è dunque un
è con lieve preposizione di ?, ed u un o con analoga preposizione di u ».
Si badi che Vi, come insegna lo stesso Kurschat, è aperto e si avvicina alla
vocale e (p. es. in 'wìrti cuocere) a differenza dell' * lungo che è sempre chiuso (come
p. es. in sakyti, dire).
La brevità impostami non mi concede di riferire dallo stesso autore altri fatti
preziosi, e specialmente i vari riflessi dialettali de' due dittonghi. E per le analogie
accennate delle altre lingue, dovrò contentarmi qui di ricordare lo studio diligente
e acuto di H. Moller (Zeitschrift di Kuhn, XXIV. pag. 510). Ma il cenno dato mi
pare che basti a giustificare la mia dichiarazione fisiologica.
Il fenomeno seguirà sempre a questo modo : la mascella inferiore per accentuare
fortemente una vocale essendo costretta a valicare d' alquanto i limiti che sono
normali per essa e ad invadere quelli della, più larga vocale che le sia prossima, o
la trasporterà insensibilmente a questo grado superiore, cessando ogni compenso di
articolazione orale, ovvero, insistendo la voce, svilupperà U. dittongo.
Questo infatti sarà 1' effetto necessario dell' accento orale sulle vocali , eh' esso
le allarghi crescendo e diminuendo le ristringa. Ma si accompagnerà naturalmente
all' allargamento e al restringimento un altro fatto. Poiché la maggiore o minore
apertura di bocca richiede più o men tempo, dovranno di leggieri le vocali allun-
garsi anche od abbreviarsi; e cosi la contrapposizione delle vocali complesse alle vo-
cali sempKci (intendendo per complesse non meno le vocali lunghe che i dittonghi)
mal si potrà dispaiare da quello delle vocali toniche ed atone. Indicando con 0 1' ac-
cento orale, con A 1' apertura od allargamento della vocale e con L la lunghezza o
durata si potrà ben stabilire la formola O^AL.
E qui mi pare opportuno di trarre una conseguenza, che dovrebbe avere per
sé qualche importanza e riconfermare insieme le cose dette.
I nostri versi sono governati appunto dall' accento orale; e in essi meglio che
mai si notano le sue leggi. Vi si osserva, anche più agevolmente che nella prosa,
come per 1' allargamento maggiore della bocca si dia maggiore forza e maggiore
lunghezza alle sillabe accentate rispetto alle altre, le quali si pronunziano breve-
mente e spesso quasi fognate e nascoste fra 1' uno e 1' altro dei massimi allontana-
menti della mascella inferiore, facendosi quasi sillabe incompiute e talora veramente
trascurabili a piacere; che è poi il fondamento della nuova metrica barbara..., la quale
è diinque invece uno squisito raffinamento dei poeti colti.
Or se questo è vero, si avrebbe a modificare una sentenza comune, che, male
intesa, può farsi facile eausa di errori. Si suol dire che le lingue romanze hanno
perduta la quantità e serbato 1' accento. E in certo, senso si può dire benissimo.
Ma sarebbe forse più giusto, in altro senso, il dichiarare che hanno piuttosto per-
duto V accento e .'serbato la quantità.
Mi spiego.
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Esse hanno perduto nella parola, serbandolo solo nella frase, 1' accento musi-
cale, che è l' accento vero (sTpoceoSw.), 1' accento per eccellenza. Noi non abbiamo in-
fatti altro accento che 1' accento orale, il quale ha natura diversa ed effetti quasi
del tutto opposti: perchè laddove l'accento musicale più alto abbreviava le vocali
che lo sostenevano , aUungaudo piuttosto la sillaba vicina, mal può crescere 1' accento
orale senza che il valore quantitativo della sillaba aumenti. Le lingue romanze in-
somma non hanno vero accento musicale, perchè in generale le parole come parole
non vi si cantano più; ma hanno certamente ancora sillabe diverse di quantità, ed
è assurdo pensare che non ne abbiano.
Ond' io direi che siano in fondo identiche le leggi della ritmica e della me-
trica presso gli antichi e presso i moderni. Né per noi né per loro riposarono esse
mai su diversità di accento musicale delle varie sillabe, cioè sulla tensione mag-
giore o minore della trachea e delle corde vocali. Le loro leggi furono e sono sem-
pre quelle dell' ictus o, com' io dico, dell'accento orale; nella poesia dei greci e
dei romani come nella nostra, le battute furono sempre quelle della mascella infe-
rìore; e sempre le misuriamo con l'orecchio e le valutiamo con le dita: legitùnumque
soHum digitis callemus et aure.
Né è forse difficile, almeno in complesso, di determinare la ragione prima per
cui 1' accento passando dalle lingue antiche alle moderne dovette mutar natura.
L' accento orale è mnemonico e niente più. L' accento musicale è invece -patetico
essenzialmente : e noi lo serbiamo bene nella proposizione e nel periodo. Si può dire
che sia come il colorito che si aggiunge al disegno di una frase intera, e presup-
pone di necessità un pensiero compiuto.
Non è dunque sti'ano che esso appaia vigoroso e variatissimo nelle lingue
monosillabiche ed agglutinanti. Finché non v' ha altro che radici e proposizioni e
non vi sono vere parole, 1' accento musicale deve rimanere padrone assoluto; per-
ché tutto vi è attuale e vivo e non vi sono ancora, per cosi dire, notizie tesoreggiate
dal pensiero ed antiquate.
Quando sorsero le vere parole, che si staccarono a poco a poco dalle serie ag-
glutinate e si irrigidirono in forme flessive, è naturale che non perdessero d'un
tratto tutta la nativa freschezza, che serbassero a lungo le leggi di quelle proposi-
zioni dalle quali si erano divulse. Ma oscuratasi col tempo sempre più ogni consa-
pevolezza etimologica dei vocaboli, e sulla fantasia e sul sentimento prevalendo via
via la memoria e l'intelletto, di necessità la gamma musicale cedette al bisogno
di spiccare fortemente le sillabe. La trachea fu vinta dalla bocca: il canto dalla
parola vera.
Gli effetti che si avevano per 1' accento musicale si hanno ora in gran parte
per 1' atonismo.
E chiaro che crescendo 1' accento musicale dovesse, per sempre maggiore di-
spendio di forza, assottigliare le vocali e portarle dall' a verso l' i e cagionarne anche
la perdita compiuta. Ma ora questo digradamento avviene invece per mancanza di
accento orale, e insomma per risparmio di forza sempre maggiore.
— 36 —
Indicando sempre con 0 1' accento orale , con M 1' accento musicale , con F la
forza espiratoria, avremo infatti la formula: F:=MO, dalla quale scaturisce l'altra
F , . F
M=-TT e, sostituiti ad 0 i suoi fattori dell' allargamento e della durata: M = ^T) •
Stanno dunque 1' allargamento e la durata vocalica in ragione inversa rispetto al-
l' accento musicale. Ma poiché stanno in ragione diretta con 1' accento orale , con 1' ato-
nismo orale que' fattori staranno anche in ragione inversa. Dovrà 1' atonismo necessa-
riamente assottigliare ed abbreviare le vocali.
Senonckè 1' atonismo nella sua opera deleteria trova pure degli impedimenti; o
per dir meglio trovano contro di esso le vocali qualche riparo e sostegno.
Anzitutto la favella non vive tutta in un individuo, né solo nella sua bocca.
Essa è fatta per il sociale commercio e per 1' orecchio che la raccoglie e la dirige.
Anche le illusioni acustiche possono perciò cagionare alterazioni nelle parole. E,
come dice benissimo lo Scherer {Zur Gescli. d. d. Sprache, pag. 73): « La lingua si
propaga per riproduzione di pronunzia delle voci udite: epperò le apparenze diven-
tano spesso cosa reale ». Quando 1' orecchio non riesce a distinguere bene il valore
di una vocale troppo indebolita, che pur non giovi sopprimere del tutto per la spe-
ciale condizione in cui si trovi, permetterà facilmente agli organi orali la sostituzione
di una vocale più normale, e spessissimo p. es. quella dell' a che è la più natiu-ale
di tutte. Non altrimenti io stimo che si possa rendere ragione di quella rotazione
vocalica, che è un fatto innegabile e frequentissimo e forse merita il nome di rota-
zione assai meglio del tralignamento germanico delle consonanti mute, per le quali
non avviene punto un vero corso e ricorso come per le vocali.
Ma anche si incrociano con gli scadimenti dell' atonismo e coi rinnovamenti
acustici le spinte delle consonanti e delle vocali vicine, di cui si cercavano le norme più
generali nella prima parte di questo studio. Potranno esse trovarsi con quelli ora in
armonia ora in contrasto. E si vorrà bene ammettere, anche a priori, senza bisogno di
prova, che siffatte azioni dell'ambiente debbano avere maggior presa suUe vocali
atone che sulle toniche troppo più vigorose. A designare le complicazioni di tutti que-
sti effetti può valere un paragone che rappresenti la tonicità come una forza d' im-
pulso e r atonismo come la forza contraria di gravità. Si potrebbe cioè dire che que-
st' ultima faccia precipitare le vocali verso la linea di confine con le consonanti;
ma che toccata questa linea rimbalzino quasi palla elastica, volendosi mantenere
vocali. Lo stesso oscuramento acustico pei'metterebbe quel i-isorgere, quel rinvigo-
rirsi dell' articolazione nelle vocali. Ma per costruire il parallelogramma delle forze
e determinare esattamente la linea della discesa e quella della salita, dicevo che
s' avrebbe sempre a tener conto delle influenze vicine; perchè nell' una e nell' al-
tra, sebbene mosse da forza propria, aderiscono le vocali alle consonanti prossime
e ad altre vocali. Sostenute o contrastate da queste non potranno far sempre le
atone né tutta la caduta né tutta la salita. Prima di raggiungere il massimo assot-
tigliamento o la perfetta rintegrazione esse saranno ben sovente arrestate: così come
i corpi lanciati in alto o cadenti verso terra possono capitare sui tetti o sui muri
— 37 —
0 restare impigliati fra i rami di qualche pianta. Le nasali , prescindendo dall' ar-
ticolazione della lingua, dovranno, per il solo abbassamento del velo palatino, fer-
marle ben alto: ad una altezza discreta le labbiali ed anche alcune varietà di Z e
di r; ma le lasceranno abbassare più che mai le consonanti dentali t, d, s che vo-
gliono esse stesse, come vedemmo, stringei-e la lingua al palato.
Io non presumo di dar qua le prove sufScienti di tutte le fatte considerazioni.
Solo per mostrare, un po' più determinatamente, quale sia il mio pensiero soggiungo
pochi esempì: e devo, sebbene a malincuore, restringermi al vocalismo italiano. Per
indicare il digradamento, la, perdita, la rotazione e l'adattamento della vocale voglio
che mi valgano le lettere iniziali di queste parole appunto: D, P, R, A.
E avrò dunque, 1" per la vocale a:
D. imbasciata, an/tra;
P. 'bottega, 'guglia;
R. anatra ;
A. margherita, comperai'e; coyone, do»iasco; scandoto, bufolo.
2° per la vocale e:
D. signore, pigione; empito, soccida; lungi, tardi;
P. 'pitaffio, 'sciame; ver'gogna, s'cure; asp'ro, tor're;
R. avorio, malinconia, albergo, asciugai'e, asciolvere, celabro, tartufo;
donare?
A. domandare, dovere, rovistare, rojnito; angioto, risipola; giovane?
3° per la vocale /;
P. 'nimico, 'zotico; nobiltà, vantare, sentiero; lindo, so'do, sozzo.
R. annaffiare, salva tico, zampogna, marmocchio, marmaglia; Gerolamo,
sindaco, calonaco.
A. laberinto, dattero; gradevole.
4° per la vocale o:
D. (orale) («bbidire, uffizio, fucile, ntgiada; dimestico; attimo.
P. 'cagione, 'spedale;
R. prolago, filosafo, cravatta, cavelle, gracidare, carola, smaniglia;
A. albej'O, valeroso.
b° per la vocale «.-
D. (labbiale): cotenna, corsiere, coltello;
P. 'bubbola, 'bellico; occhio, specchio;
R. allocco, gargozza, drappello, modano;
A. popolo, capito/o, donnola; albera.
In questi -ultimi esempì, per la vocale ti, il digradamento notato può parere
strano. Si aspetterebbe altro , dopo che s' è visto l' o indebolirsi per atonismo
in u; e rispetto a questo 1' o può anzi giudicarsi un rinforzamento. Ma non è altro
che una contraddizione apparente, e mi dà occasione di ripetere che resta pur
— 38 —
sempre un'altra causa di divergenze, per le vicende delle vocali •atone, che nello
studio de' singoli fatti non può essere dimenticata. L' w è men forte di o per arti-
colazione della mascella; ma o è men forte di u per articolazione labbiale. E nel-
r accento orale si combinano le due articolazioni; e si possono secondo il diverso at-
teggiamento normale dei parlatori combinare in varia proporzione. Quantunque la
fisiologia delle voci cerchi di porre in sodo le leggi universali delle articolazioni
orali , supponendo che tutti gli uomini abbiano organi vocali fatti allo stesso modo,
non si deve per questo dire che gli atteggiamenti delle corde vocali e del velo pala-
tino, della lingua e delle labbra non siano facilmente diverse per lunga abitudine
de' diversi popoli. Queste abitudini etnologiche bisognerà indagarle con molta dili-
genza; e vi si troveranno le cagioni di fenomeni, che le leggi più generali del-
l' articolazione e dell' accento lascerebbero inesplicate.
E evidente, p. es., che un popolo il quale parlando abbia normalmente una forte
protensione di labbra od una retrazione di lingua , deva spingere , rimanendo uguale
ogni altra condizione, fino all' u un suono che altrove raggiungerebbe appena l' o; e
da un a per modico ristringimento di bocca ricavi un o invece di un e che ne sa-
rebbe altrimenti risultato. Così nel provenzale moderno, ne' dialetti mesolcini, ecc.
abbiamo un o di fronte all'è francese per a fuori d'accento {campagno^ oumbro,
ounglo; migo; Ardi. Glott. II. i. 272).
Queste diversità di atteggiamenti orali, che perle lingue neolatine vorrei ricercare
ne' miei saggi fonologici, non rendono impossibile la determinazione eh' è stata fatta
delle leggi più generali; anzi le presuppongono. Ma esse sole spiegano appieno le
evoluzioni fonetiche tanto dissomiglianti tra lingua e lingua, tra dialetto e dialetto;
mostrandoci come gli uomini degU stessi organi vocali abbiano fatto diverso uso,
moltiplicando in varietà infinite il sistema fonetico teorico e fondamentale :
Opera naturale è eh' uom favella ;
Ma, cosi o cosi, natura lascia
Poi fare a voi secondo che v' abietta. ,
Lo diceva già 1' Alighieri, intrawedendo in qualche modo la selezion naturale
nella vita degli umani linguaggi.
P. Merlo.
ETYMOLOGIEK
1. frz. AlGUILLE
{aig"iUe), aiguiUqìi {aig"illon) behandelteu ziiletzt W. Foerster und H. Suchier
Zeitschr. f. R. Ph. HI 515. 626. Foerster hielt fiir wahrscheinlich, dass die singulare
A^erwandlung des altren iV in H in beiden Wòrtern in einem aquilens statt aculeus
iliren Grund hàtte, wàhrend sie nach Suchier, wie bei Bourguignon^ ihre Erklàrung
darin findet, dass j, « sonantischer » sei als il; s. dazu Gr. Paris, Romania IX 391 £
lek mòchte die Ursache diesar Lautanderung darin gegeben glauben, dass 1) aiguille,
als das einzige Wort der Sj)rache mit dem Ausgang -inle{vioille = Ye\ii,fuile^folia,
sind òrtlicli beschrànkte Formen : Benoit, Anglonormannisch), und danach aigiiillon,
Einwirkung des in begrifEiclier Bezieliung zu aiguille, aiguMon stehenden aiginse etc.
von aigtdsier erfuliren, worin ein Wortstamni aigui- vorzuliegen schien, der, in
aigié-le substituirt, aiguille als eine Weiterbildung von aigui- aigu-, wie die Wort-
stàmme in point-ille, éjpont-ille, coMr<-i7fe auffassen liess. Dieselbe Lautfolge "«' war
ausserdem 2) in dem formverwandten anguille noch vorhanden, dessen II die Mouil-
lirung durch Einwirkung der Suffixwòrter auf -ille erst im 16. Jahrhundert
erhielt, und 3) musste das stammgleicke Adj. aigu (acutus) das Subst. (aigil'lle) erst
recht in die Reihe der Derivata a,nf->.lle hineindrangen. Picard, agotdlle, berry.
aguéille sind wohl, wie wallon. aw-é-ie, rouchi eiv-i-le als ag'^ille, ag"'éille zu fassen;
vgl. anguilla auf picard. auioille, aingidlle, wallon. anvé-ie, (wallon. allgemein -ille zu
-e-ie). Der Uebertritt von aiguille in die Reihe der "Wòrter auf -ille fiihrte nicht zur
Viersilbigkeit des scheinbaren Derivata von aigid- (aigu-), weil -ui auch altfrz. eine
ausschliesslich einsilbige Vokalfolge ist. Die Belege fiir aig"ille seheinen nicht
ùber das 13. Jahrh. zuriickzugehen.
Bourg"ignon ist nach Bourg"i.n(g) zu beurtheilen, von dem es ja abgeleitet ist
(lat. Burgundius, vgl. Burgundii ueben Burgundio-nem).
2. it. Ammiccake,
(nur florentinisch?), zu sich wiuken, aus admicare (Castelvetro) erscheint Diaz, 11%
niil Recht zu pretios. Ueberdies làsst dieses Etymon das geminirte e (vgl. replicare
— 40 —
implicm-e) uncl i gegenuber lat. i unerklart, wofur in einem volksublichen Worte
doch e (^/ie^9are=plicare) zu erwarten steht; das Fehleii eiues Primitivs im Ital. làsst
sogar auch die Betonung ammicca fiir admicat anomai erscheinem. Winken heisst:
zu sich, zu mir winken, /are venire a mi etc. (wegen mi = miì s. Blanc, Gr. S. 244).
Ein Wink oder Ruf « ammi » mit unausgesprochenem , weil durch den Gestus
sich verstehenden Imperativ, konnte ein Verbum ammiccare, « zu m,ir winken,
winken », zur Entwicklung bringen, wie das Franz, z. B. in tu-toyer, das Deutsche
in du-tzen besitzt. « Quando tu vuoi che porti le -paste, ammiccami. » Das ableitende
Element -(i)care tritt hier mit ce auf, weil hinter betontem Vokal {ammi-cco,
ammi-cchi, ammi-cca, ammi-ccano etc.) wenigstens nach der in der Wortcomposition
giltigen Regel (là-DDove , già-MMai , dà-Mui), der Suffixanlaut sich verdoppeln musste.
Eine stricktere Analogie fiir den zu erlàuternden Fall existirt nicht, da das Ital.
keine weitren von Oxytonis gebildeten Verba besitzt. Logisch betrachtet, sollten
f'reilich neben ammiccare auch Bildungen aus den librigen Personalpronominibus
{ti, si etc.) bestehen. Aber ein Ausdruck wie der vorliegende geht naturgemass von
der ersten Person aus und wird auch ohne Vergessen der etymologischen Grundlage
auf andre Personen libertragbar in Verbinduug mit dem Gestus.
3. it. And.'Uie,
span. port. andar, cat. anar, prov. anar, ohne Riicksicht auf frz. aller, und auf eiu
latein. Wort zurùckzufiihren, legt der letzte missgluckte Versuch mit ambulare
wiederum nahe; auf ein latein. deshalb, weil das Wort keinen Culturbegrilf dar-
stellt, der aus der Fremde zu entlehnen war, sondern zu den uuentbehrliohen
Benennungen allgemein menschlicher Thàtigkeiten gehòrt, die in den romanischen
Sprachen lateinischen Ursprungs sind, und weil andare sich in den drei Hauptgebie-
ten derselben wiederfìndet, italisch, iberisch und gallisch zugleich ist. Eine Re-
construction des Etymons von den roman. Formen des Verbums andare aus fiihrt
zunàchst auf andare selbst, fur das aber im lat. Sprachschatz jeder Anhalt fehlt. Diez'
hypothetisches anditare fiir aditare ist formell in doppelter Hinsicht unannehmbar.
1) bleibt zu beweisen ubrig, dass nd't ital. zu nd wird und 2) ist fur die angenommene
Einschaltung des n: re-n-dere keine treifende Analogie. Denn re-n-dere erhielt sein n
durch Einwirkung der zahlreichen Verba aiif -n-dere (it. prendere, rispondere etc), mit
denen reddere gleiches Perfect (it. resi wie presi, risposi; frz. rendi wie cendi,
respondi), gleiches Particip (it. reso -wì& preso, risposo ; ùz. rendu 'wì&vendu, respondu)
und andere Formen ùbereinstimmend bildete ; it. andito = lat. aditus aber ist Anbil-
dung an andare. Nach welcher Analogie n in aditare eingedrungen ware, ist nicht
abzusehen ^^nd einer solchen bedarf es, um anditare glaublich zu finden. Derselbe
Einwurf ist gegen ad-dare caddero zu richten. Zu leicht dagegen hat man sich mit
*ambitare abgefuuden. Der einzige dagegen vorgebrachte Gruud, m'f ginge nur span.
in nd tìber, ist nicht stichhaltig; dami 1) handelt es sich bei ambitare gar nicht um
m't, sondern uni mh't und 2) wird auch ràtor. mb't wie m't zu nd (vgl. amita=anrfa onda;
sambata aus sabata durch samb'ta zu somda , sonda). Auch im Prov. und Frz. ergibt
— 41 —
h't: d (cubitus wird prov. code frz coitela; *subifcamis frz. soudain); und so wird aucli hier
mb't: nd,z. B. bombitare, (s. Georges' Lat. Wòrterbuch: bombire bombita-tor) , zu
picard. òondìV, nprov. èoMNDw, nfrz. òoNDtr; (vgl. Diez. "W. II"^ bandir), t assimilirt sich
also an b, um so eher an zwe i vorausgehende tò nende Laute (mb). Dass diesa Assimi-
lirung auch im Ital. stattgefunden , wo bt b't zu tt, subtus zu sotto, debita zu detta
wird, ist freilich nicht auf eine Lautregel zu griinden; aber nur darum nicht, weU
der ital. Wortschatz kein weitres Wort mit ìnb't oder einer analogen Gruppe {rb't) auf-
weist. Das Substrat *ambitare fùr andare etc. liat vor den andern vorgeschlagenen.
Etymologien jedenfalls deu Vorzug voraus, dass diesa feststehende Lautregelu
verletzen, wàhrend fiir das allerdings nicht belegte *ambitare nur keine vielgesttìtzte
Hegel der ital. Lautlehre geltend gemacht werden kann. Die Substantiva frz. and-ain,
Schritt, Gang; nprov. and-ano, span. and-ana (daher port. andaina?), Schritt des
Màhers, Eeihe; it. and-ana, Seilerbahn, sind niclit aus andare herleitbar; denn das
Suffix -anus verbindet sich nur mit der Nominalform. Sia setzen daher das Substantiv
ambitus (romanisch: andò, ande, vgl. conto, conte := co mputus) voraus, das im altfz.
onde (Rich. le bici) vielleicht noch vorliegt (s. Zeitsch. f. E.. Phil. Il 313; cfr. aber Ro-
mania 1878 S. 630) ; wegen o fiir a vgl. rouchi ondarne = frz. andain. Das prov. anar
hat festes n, also hinter a eiuen Consonanten eingebusst, und zwar einen Dentai,
da Labiale und Gutturale hinter Nasal im Prov. erhalten bleiben, die .Gruppo Na-
sal + liq. nicht auf n reducirt wird und n'm zu in , nicht zu n wird. AVer also nicht
*annar{e) ansetzen, sondern prov. anar mit cat. anar ital. andare u. s. w. vereinigen
will, wird auf andare selbst hingewiesen. Das Rathsel der Umbildung von nd zu n{nn)
bleibt freilich hierbei bestehen, und die Muthmaassung , die endungsbetonten For-
men des prov. anar seien aus den stammbetonten Formen des Conj. Pras. (an ans
an) entstanden ist eine ebenso wohlfeile Ausflucht (der Conjunctiv man = mandet
hat kein manar neben mandar aufkommen lassen) wie die Annahme der Entlehnung
des "Wortes aus dem Catalanischen , dàs man als einflussiibend auf das alte Proven-
zalisch bisher nicht kennen gelernt hat. Das Rathsel lasse man vorlaufig nur bestehen;
wenigstens solange man duroh Anomalie in der Entwickelung gieichartiger Laut-
folgen (vgl. z. B. frz. as n ont = lat. habes habet habent mit ses set sevent = lat. sapis
sapit sapiunt u. dgl.) sich nicht bestimmen lasst an den sicher stehenden Etymis zu
zweifeln. Da kein Thema existiren kann, das nach ital. Lautregel nd, nach prov.
n ergabe, so- muss die Anomalie, die zwischen ital. andare iiud prov. anar, gegeniiber
*ambitare besteht , eben aus der die Anomalie darbietenden Sprache , hier der prov.,
zu erklàren versucht werden, wie frz. set set sevent und daneben frz. as a ont nur in
der franzòsischen Sprachentwicklung ihre befriedigende Erlàuterung findeu. Die
Kiinste, die nòthig sind um die mannigfaltigen Gestalten des Verbums des
Gehens im Ratoromanischen unter den Hut von ambulare zu bringen ware es ein
Leichtes mit gleichem Erfolge mit ambitare nachzumachen. Sie miissen viel bes-
ser noch analysirt werden, ehe ihnen bei Bestimmung des Etymons von andare
nàchst den Formen so durchsichtiger Spraohen wie das Italienische iind Spanische
ein entscheidendes Wort zu sprechen gestattet werden kann.
— 42 —
4. frz. Akroseb,
prov. arrosar leitet Diez I ì-os, wie spau. rodar aus dem Adj. roscidus , Littré s. v.
aus einem fictiven Verbum roser ab. Die Gruppo -scid- kann sich im Frz. und Prov.
jedocli nicht auf s reduciren und Littrés Annahme ist uberfliissig. Frz. arroser,
prov. arrosar sind verba denominativa vom Subst. ros (prov.), wie al-lmn-er aus lum
(lumen), wie a-cah-ar aus cab (caput) u. dgl.
5. it. Astore, Habicht,
aspan. aztor, span. port. azor, cat. astor, prov.' austor, afrz. ostor, frz. aidovr, aus
gutbezeugtem acceptorem^accipiter ist nocli vor Kurzem, Zeitsch. f. Rom. Phil. II
166, von W. Foerster vertheidigt worden, der auck die Regelmàssigkeit des Ueber-
gangs von ak- zu au im Prov. (au-stor) zu beweisen sich anheischig maclite.
Unbegreiflicii ist, wie man bei dem oft citirtem Etymon die Unmòglichkeit einer
Reduction von -ccept- auf -s«- tibersehen konnte, und dass man, ehe Horning, Zeitschr.
f. Rom. Phn.. VI 440, die altfr. ImparisyRaba genauer beleuchtet batte, nicht
an dem Fehlem eines altfr. prov. Nominativ. Sglr. *ostre, *austre neben ostor, aitstor
Anstoss genommen. Das Etymon ist lateinisches astur, von Georges 1. e. s. v. belegt
aus dem 5. Jahrh. bei dem Astrologen Firmiciis Maternus, der V, 7 unter andern.
Raubvògelu und neben den accipitres auch die astures nennt. Georges setzt astùr,
astùres an, offenbar nach Analogie von vultùr, turtùr. Nach turtùr: it. tórtore,
tórtora, prov. tortre, frz. tourtre erwartet man aus astùr: it. astore, prov. austre, frz.
ostre; aber bei der Entwicklung von sichrem vultùr zu it. avoltóre, prov. voltór, frz.
vautour, ist auch an der von Georges angesetzten Quantitàt nicht Anstoss zu nehmen.
Direkte Grundlage von avoltore, voltar, vautour kann gleichwohl schriftlateinisches
vultùr neben it. tórtore etc. aus turtùr, so.wenig sein, wie astùr fur it. astóre u. s. w.
Da vulturius it. avoltojo ergibt, so ist auch nicht an ein *asturius mehr zu denken.
Einzige Grundlage des roman. -óre, -ór, -óur ist lat. Órem. Daher sind *ast-órem und
*vult-órem als vulgàrlateinische Analogisiruugen wie acceptórem neben accipiter
anzusehen, und als die direkten Grundlagen der romanischen Wòrter anzusetzen. Da
aber -orem im frz. zu eur wird, so sind frz. aitTOUR wie vawsauR aus dem Prov.
entlehnt. Der Geier ist ein Vogel der Siidens. Die hosturs gehòren im Rolandslied zu
den Thieren, die der spanisclie Sarrazene dem frànkischeu Karl als werth volle
Gesehenke anbieten kann ; die Namen éperoier, hoube u. a. mogen fùr den im nòrd-
lichen Frankreich einheimischeu falco palumbaris die ublichen Benennuugen und
vor dem Bekanntwerden des austor daselbst die allein volksublichen gewesen sein.
Prov. azt = a in austor fasse ich als Anbildung au sinnverwandte Wòrter wie ausel,
auzelar u. dgl. Hehns Versuch (Kulturpflanzen S. 526) astore aus asterius herzuleiten
verbieten Bedeutungs- und Formverschiedenheit.
6. afrz. Blkbon, Wasserhuhn,
neben bluire (G. de la Bignè) , blarie (G. de Coiucy), pikard., Seine-Iuf. blarie, blairie,
bléry (s. Godefroy, s. v. bleroii) vom- niederlànd. blaar, weisser Fleck auf der Stime,
— 43 —
« Stirnblàsse », die clas ina Deutschen danach benannte Blàsshuhn oder Wasserhuhn
(lat. fulica) tragt. Vgl. lothring. blèse (Grloss. dn patois Messiti, Nancy 1876) == dtsch.
Blàsse, d. i. Pferd mit -weissem Stirnfleck. Auch das frz. hellèque, Wasserliiihn, isfc
eine deutsche Benennting; es ist=ahd. belihha die Belche, oder Wasserhuhn, womit
die fiilica atra, deutsch auch Bellhenne oder Schwarztaucher, bezeichnet wird. Ob
ein drittes frz. Wort fiir Wasserhuhn: macroule, macrole, das auch die macreuse =
Trauerente (anas nigra) bezeichnet , die , wie die fulica atra als Fastensj^eise
empfohlen war, mit macreuse auf dem hollandischen nieyrkoet,=rMeerhuhn
basirt , soli nicht entschieden werden, — das Verhaltniss der Laute ist nicht hinlàn-
glich klar. Der Name des Seevogels wird aber -w-ohl ebenfalls den germanischen
Kustenbewohnern entnommen sein.
7. span. BoREAJA, Boretsch,
prov. barrage, frz. bourrache, it. borrace neben borrana, rum. boranfze, (it. borraggine
port. borragem aus dem gelehrten lat. Terminus borrago) mòchte Diez aus dem
Sglr. von burrae, Possen, der im Romanischen als borra u. dgl. = Scheerwolle,
fortlebt, ableiten, unter Hin-weis auf die haarichten Blatter der Pflanze. Littró
dagegen, das frz. Wort, s. v. bourraclie allein betrachtend, legt ein arab. aboukach=
pére de la sueur, zu Grrunde, von dem auch das mlat. borrago herstammen soli. Die
romanischen Worter sind jedoch deutliche Adjectivbilduugen mit -aticum , -aceum
-acem, -anum und lassen pianta als hinzugedachten Gattungsnamen erganzen. Diez',
dem augenfalligsten Merkmal der Pflanze gerecht werdende Herleitung hàlt auch
Stand vor einer andern, scheinbar sich empfehlenden Ableitung aiis dem Lateini-
schen. Da der Boretsch ausser der Stengel-, und Blattbehaarung auch die Eigenschaft
besitzt, in seinem Safte eine blaue Lackfarbe zu gewahren und den Essig blau
zu fàrben, was, da Boretsch namentlich in Italien Gemuse-, und Salatpflanze ist,
(cfr. Scelta di Curios. lett. N'^ 40. S. 4. 84) allgemein beobachtet werden konnte, so
kònnte Zusammenhang mit lat. burrus, dunkelroth, woher it. buio, dunkel, prov.
biir-el, braunroth, frz. bur-el, Purpurschnecke, vorhanden zu sein scheinen, um so
mehr, als burr-ancia (scil. potio) schon in ròmischer Zeit ein mit Mostsaft gefarbtes
Getrànke von offenbar dunkler Farbung bezeichnete und in der romischen Volkspra-
che Worter fiir die blaue und braune Farbe und deren Nuancen nicht bestanden
zu haben scheinen. Demnach wiirde der Boretsch von seinem Farbegehalt als Pflanze
mit dunklem Safte benannt sein. Allein das allgemein romanische u in den roma-
nischen Produkten aus burrus setzt ein latein. bùrrus voraus, wàhrend burrae mit
seinem Tonvokal dem allgemein romanischen o (ou) in borraja etc. wiederum gerecht
wird. Auch aus diesem Grunde ist von Diez' Etymologie nicht abzugehen.
8. frz. Encre,
altfrz. enque und encre von s-cx7.05tov , woher it. inchiostro (a. Diez. W. I inchiostro) ,
ist eine merkiirdiger Weise noch immer unbeanstandete Ableitung, die aber Diez
selbst durch den Beisatz « die starkste Abkiirzung, die in dieser (der frz.) Sprache
- 44 —
vorkommt » als unhaltbar characterisirt. Die bei dieser Ableitung bestehendeu laut-
licken Schwierigkeiten erregen jedenfalls gròsseres Bedenken als , bei unserer man-
gelhaften Kenntaiss spàtgriechiseher Wortbedeutung, die Annahme einer nicht
nacligwiesenen Verwendung des enque und eìicre durchaiis entsprecliendeii sYy.c.o[j.a zu
erwecken vermag; s-,'xau[j.a und sYxauatov begegnea sich in der Bedeutung des
'Eingebrannten , nicht aber, don Lexicis zu Folge, auch in der der 'eingebraunter
Fllissigkeit'. Aus eYZ,ao[i,a entwickelt sich durch *eìic'me regulàr encre, vgl. dia-
cortus und diacRe oder pampiwus und pampRe; der Schwund des m hat seine Paral-
lele in marcje, vierge a. dergl. Wòrfcern.
9. frz. Jadis,
'erklàrt sich aus jamdiu' (so noch W. Foerster, Aiol s. v.), « wie tandis aus tamdiu »
(Diez II e.) Aber in einem latein. Compositum jamdiu bàtte m nicht spurlos ver-
scliwiuden kònnep; jadis muss daher ein franzòsisches Compositum sein. Da aber
das Franz, diu nicht besitzt {(juandiu, nur Leodegar und Boethius, gehòrt der
gelehrten Sprache an), kann in jadis, wie schon Littré dachte, nur lat. dies enthal-
ten sein, wie in tozdis, totdis; tandis, {taiiz dis). Aber damit ist die morphologische
Seite der Frage noch nicht erledigt. Denn wie ist ja-^dis syntaktisch zu fassen?
In tozdis , tandis liegen regulàre Casus obliq. in adverbialer Verwendung, von der Art
des lat. Ablat. absol. vor, mit dem, hierbei das Substantiv nothwendig begleitenden
und congruirenden Adiectiv. Fine solche Verbindung stellt aber die in gleichem
Sinne funktionirende Vereinigung von ja und dis nicht dar; sie ist unfranzòsisch ,
da im Frz. sich Adverbium und Substantiv nicht verbinden, und dis nicht selbst
Adverbium geworden ist. Daher muss jadis cine Verbindung wie j)ieq'a,, d. h. aus
ja a (habet) dis zusammengeschmolzen sein. — Ein wirkliches Compositum von
ja, mit einem Adverbium, wie sich versteht, ist dagegen altfrz. jelmi, gehui; jìdmi,
iewi, ju{,^h.eute, fiir das W. Foerster, Chev. as deus esp. S. XLVI Stellen beibriugt
(weitre Besant de Dieu 3136; so statt 3156), ohne es jedoch zu deuten. Ich fasse es
als Ja hd, ein verstàrktes Imi; jE-ui a,xis ja-ùi erklàrt sich, wie ge-usse aus ja-cuis-
sem, se-US aus sa-puisti, e-us aus ha-buisti u. dgl. Die Umbildung von a zu e wixrde
naturlich erst moglich , dadurch dass ja Compositiousglied und vortonige Silbe wurde.
In y[«]MÌ ist e an ui assimUirt (vgl. Tristan bei Bartsch, Chrest. S. 106 jjUMSse3:=potuis-
setis); die stets 2sLlbig geltende Schreibuug jui besonders anglonorm. Hss. findet
ihr Seitenstiick in «ts^ii/is^habuissemus, rec/iwsse =recepissem der Q. L. d. E., etc.
Bei dieser Gelegenheit sei auch einmal auf den oft wiederholten fehlerhaften
Ansatz von frz. déjaz=zde jam (trotz ital. di già) hingewiesen; altfz. desja, wie
nfrz. dÉja, zeigen hinreichend deutlich die Entstehung aus dès (=-de ex) und Ja an
(so schon Littré).
10. prov. Jassè, ancsé, desse,
bespricht Diez II*^ unter se; er beschrànkt sich dort jedoch darauf semper als
Etymon zuruckzuweisen. Man hat auszugehen von cZessc=: alsobald, desse ^Me=sobald
— 45 —
als d. h. zu jener Zeit, von der Zeit an, da; also von lat. exin, verkiirzfcem exinde,
das mit quiim verbunden spatlateinisch genau im Sinne von desse que verwendefc
wird. Durch de erweiterfces exin {^desin; vgl. DEHirfe oder roman. fZes=de4-ex u. dgl.)
wurde regelrecht prov. elesse; j^(i^)-r- exin verschmolz ebenso zu /asse (vgl. des aiis
dE EX, oder (Zesai=dE Eccehac) und erhielt die Bedeutung « bereits von da an » d. i.
immer (in Zukunft). Da in a»cse, =immer,nichtder Begriff ununterbrochener Dauer
in der Vergangenheit liegt, so ist nicht ante exin (*antexiu durch antosin zu
ancse ist uberdies eine nicht beweisbare Entwickehing) bei ancse zu Grunde zu legen,
sondern eine Uebertragung des se von ja-sse auf das synonyme anc=je anzu-
uehmen, also eine Erweiterung von anc durch se nach Analogie von jasse.
11. it. Malvagio,-a,
prov. malvatz, iem.. maluaiza (s'p'àt), afrz. malvais, fem.-se fùhrte Storm , Rom. IV
362, unter Zuriickweisung von Diez' Etymon balvavesi, auf ein supponirtes *malva-
tius zuriick, das von einem ebenfalls vermutheten *malvatus, der angeblichen Grund-
lage von span. malvado, prov. malvat^ afrz. malve, gebildet sein soli. Diese letztren
drei Wòrter darf man getrosfc von den erstren trennen, auf male levatus. wie
bisher, zuriickfiihren , und so der mangelhaft begriindeten Hypothese entsagen, wo-
nach aus Adj. oder Partic. AdjectivbUdungen auf -ius lateinisch oder romanisch
mòglich gewesen wàren. Das fùr malvagio etc. von Storm vorausgesetzte Etymon
wird dadurch nicht unsichrer. Denn es ist, was Storm ubersehn, vorhanden. iliaZ-
ya^io ist^lat. male-- vatius; vatius heisst krumm, eine offenbar volksiibliche Benen-
nung (schon den Autoren nach , die sie brauchten) von den Gliedmassen insbesondre
gesagt, z. B. crura vatia, krumme Beine, (bei Varrò; desgl. homo vatius u. dgl.);
vatius ist synonym mit vatax. Die Correctheit der lautlichen Entwicklung von
vatius zu it. -vagio, prov. -vatz, frz., -vals zeigt die Vergleichung mit palatium : it. pa-
lagio, '^xoY. palatz, frz. palais, und mit *adsatiat: afrz. cessa ise (vgl. auch Horning,
Geschichte des lat. e. vor e, i, S. 25), Die Bedeutungsentwicklung vergleicht sich
mit der von tortum : frz. tori. eto. , dem Gegensatz zu directum = frz. droit etc. Das
gesetzlich iind moralisoh Ungerade, Krumme, ist das gesetzKch und moralisch
Verwerfliche, Bòse; mnl verstàrkt und verdeutlicht den bildlichen Begriff, àhnlich
wie in frz. male peste, male peur, male rage, male mori oder wie in mal-ingre , krankUch,
wenn male + aeger zu Grunde liegt.
— Bei der Correctur dieser Stelle kommt mir WoliSins Archiv 1 , 4 zu
Handen, worin K. Hofmann, S. 592, mauvais auf ein *malvax aus malva. Malve,
zuriickfuhrt: das tertium comparationis zwischen « Malve » und « schlecht » sei das
« Weiche ». Aus dem angesetzteu malvax, und sebst aus dem vorhandenen Adj. mal-
vaceus =. malvenartig ist lautlich jedoch weder frzos. manvais, -e, noch ital. malva-
gio, -a zu gewinnen und die Bedeutung zwingt so wenig zur Anerkennung der neuen
Etymologie, dass sie doppelt unannehmbar ist.
— 46
12. frz. MORCEAD,
altfrz. morcel , morsel, nicht aus *morsellus (it. morsello etc.) iiuter Vertauschung von s
mit e. wie Diez. II<= s. v. meint, sondern aiis *morscellus , wie vaisseau, altfz. «ameZ
aus vascellum, arbrisseau, altfz. arhrissel aus arboriseellus (s. WòMflin, Archiv fiir
Lat. Lexikographie I. S. 242; Horning, Gesch. des lat. e. S. 4). Dafiir spricht pikard.
morclid (vgl. pikard. vacìié vascellum). Auch frz. vincer und percer sind keine Belege
fiir Vertauschung von s mit e; denn vincer kommt nicht vom dtsch. hreinsa, da die
altfrz. Form va-incier lautet und percev -wird Niemand mehr &v£ pertusier grunden;
frz. sauce, altfrz. salse und salce, sausse una salice, ist allerdings schon Schreibart des
13. Jahrh.; das "Wort reimt aber immer nur mit s, z. B. mit false fausse (vgl. Cre-
stien de Tr. Chev. au lyon 4193 etc), nicht mit chance calceat u. dgl., solange c+e noch
nicht .s war.
13. frz. NiÈCE,
prov. netsa, it nesza (Valentini), bezeichnet Diez, II'',als cine auf *neptia beruhende
Form, « die sich der Franzose mil Hilfe des ableitenden ì in uepti-s verschaift bàtte. »
Diese Auffassung ist nicht Mar , denn der ' Franzose ' bewahrte das ' ableitende i '
nicht. Vielmehr ist neptia eine lateinische, den latein. Lexicis, auch Georges, aller-
dings fehlende Bildung. Das Wort steht aber z. B. auf einer Inschrifb von Aquileja,
C. I. L. V. N" 2208. Zur Bildung vergleicht sich lat. acia, Einfàdelfaden, von acus,
Nadel; suppetiae, Hilfe, zu suppetere. Zu Grunde liegt nept-is, das auf spanischem
Boden zu *nepta analogisirt, span. nieta (dazu Msc. nieto), catal. neta (Msc. net), prov.
nepta (neben netsa), picard. en-nette ergab; auch sardisch nepta, netta. Der Diphthong
ie im frz. Wort erklart sich durch Einfluss des Msc. 7t('es = lat. nepos (nicht durch
Einwirkung des Hiat-t, wie Horning, Gesch. der lat. e. S. 22 meint); s. auch u. pièce.
14. frz. Patois,
kann , wie in andern Sprachen die Bezeichnungen fiir ungebildete Rede , nur ein Wort
der franzosischen Sprache, und, wie die Endung zeigt, nur ein abgeleitetes Wort
sein. Es bedeutet zwar altfrz. noch, wie latin, die fremde, die Individualsprache ,
die nicht allgemein verstandene , im Gegensatz zur allgemein anerkannteu Sprache ,
ohne Betonung des Begriffs der ungebildeten Rede, ist aber auf keine Weise, mit
Diez und Littré, aus dem gelehrten iind nicht-altfranzòsischem jjatrte, patria, lautlich
zu entwickeln. Es ist vielmehr Ableitung aus patte, Pfote, das die Akademie friiher
noch paté schrieb. Daraus zog die Sprache auch pat-aud im Sinne von plump, platt-
fussig, ungeschlachter Mensch, Bauernliimmel. Einem solchen ist, wie plumpes
Wesen (Gegensatz: courtois), so eine, 'plumpe" Sprache eigen, die mit jjat-ois figiirUch
bezeichnet wird, auf dieselbe Art, wie mit narqu-ois, Rothwelsch, die Sprache und
das abgefeimte Wesen des Gauners, wie mit altfrz. clerqu-ois das gelehrte Wesen
und Sprechen; vgl. noch mat-ois, verschmitzt, von mate, griv-ois, zotig, von grive.
— 47 —
Die Bedeutung 'landschaftliche Sprache uugebildeter Leu te" entwickelte sioh aus der
Bedeubuug ' robe Sprache' mit der Herausbildung der frzòs. Schriftsprache. Vgl. aucli
deutsches platt = frz. patois, plattdeutsch u. dgl.
15. frz. Pièce,
YiTov.^eza, j}essa; c&t. pessa; port. 2>eca; span. pieza, it. pezza, pezzo. Diez, I s. v.
2jezza, weist ein petia, petium in lat. Urkunden seit dem 8. Jahrh. uach und erwàgt
Zusammeiiliang mit span. ped-azo, Stiick, mit kymr. peth, Stùck, oder daraus
gewonnenem *petìiia und, da hierbei bedeutende lautliche (und morphologische)
Schwierigkeiten bestehen, mit Tié'Qy., Fusssohle, Fuss, Unterstes. BucHstàblicK
entspricht den romanischen Wortern der zweite Theil des von Sulpicius Severus ,
Dialogi II 1 4 (ed. Halm) gebrauchten tri-peccia, Dreibein(stuhl) : « in sellula
rusticana, ut suut istae in usibus seruuolorum quas nos eustici Galli tripeccias,
nos scholastici aut certe tu, qui de Graecia venis, tripodas nuncupatis. » Fiir tripec-
cias (cod. Veron. 7. Jahrh.) schreibt der cod. Frising., X. s., tripecias, der cod Monac,
XI. s., tripetias. Das Originai mag immerhin tripeccias oder tripecias geschrieben
haben; der bei Sulpicius Severus das rustike Wort gebrauchende gemeine Gallo-
ròmer mag es in der Weise seiner Zeit ausgesprochen haben und der Sulpicius-Text
es in dieser Form haben wiedergeben soUen. Dann ist es nur ein Zeugniss mehr
fiir vulgàris (c)ci aus tiVoc. aus dem Ende des 4. Jahrh.! Die Form tripetias,
obwohl in einer jùngeren Hs. ùberliefert, darf auf keinen Fall verworfen werden;
denn in <»-ipeccias liegt nothwendig der Begriff des Fusses; tri-pedas aber zeigt
sich stammverwandt mit lat pet-iolus , Fiisschen, Obstiel, fiir welches Wort Ausgaben
des Apicius (cf. ed. Schuch I 20) andrerseits peciolus bieten, und auch bei diesem
Wort bestàtigt Nouius, p. 109, petiolus a jjetZe diminutive. Auch lat. pet-ilus,
spàrlich, scheint zu diesem p6t = Fuss zu gehòren. Nicht minder verlangt span.
ped-azo, Stiick, ein ^ei- als Grundlage. Der abstracte Begriff des ^^ec^-azo als Stiick
kann aber nur ein aus eoncreter Raumanschauung abgeleiteter sein, und ist aus
naheUegenden Bedeutungen von pes=: Fuss, 1) = der vom Fusse bedeokte Raum 2)
kleine Maasseinheit, die in den romanischen Sprachen sich mit pedem
thatsachlich verbinden, sehr wohl zu entwickeln. Auch das span. pieza, das
catal. pjessa = spatium, intervaUum, bezeichnet ja neben Stiick, d. i. ein der
geringeten Maasseinheit entsprechendes Ganze, den kleinen Zeitraum und eiue
geringe òrtliche Erstreckung. In jenem bei Sulpicius Severus erhaltenen -petia
mòchte daher das Etymon fiir frz. pièce und die oben angefiihrten Wòrter ebenso zu
suchen sein , wie in pet + aceus span. pted-azo scine Grundlage findet. Die Endung
ia in tri-petia zeigt ein Adjectiv, also pet -|- ius = ' fiissig " an, wie es x[À-tzooq,
lat. tripus und alle àhnlichen Composita mit tri etc. der Bedeutung oder Bildung
nach urspriinglich sind. Zu tri-pet-ia ergànzt man leicht ' sedes. " Daher erklàrt
sich dann auch mlat. pet-iww und it. pezzo. Der Diphthong te im span. pieza làsst
sich nicht als lautgesetzlich begrùndet erweisen, da analog gebaute Worter dem
volksthtimlichen Sprachschatze der Spani er abgehen; jsrecio = prètium ist gelehrt.
— 48 —
Die Wahrscheinlichkeit der Einwirkung des sinnverwandten pie = pedem aber auf
spaniseli moglicherweise regulàres *2^eza, die bei der Sinnverwandtscliaft von jjje und
j)ieza Niemand beanstanden wird, ùberhebt der Mute, auf Umwegen festzustellen ,
wie in volksmassiger span. Sprache lat. -ètj- sich darstellte. Analogiscb ist siclier
das ie im frz. ixièce (das weder peccia noch pecia erklaren); denn prétium ergab liier
2}r>'s, prètiat: 2jrise. Aber wie obeu «lÈce durch «ies, so wird pmce durch jjieiì =:
pedem verstàndlich. Die von Horning, 1. e. S. 22, aufgestellte Vermutliung, das
Hiat-t in *peccia oder *petia habe e bei ie erhalten, kann sich demnach vorlaufìg
nur noch auf das dunkle tiers = tertius berufen, worin aber ie fiir gedecktes è gegen
die Lautregel ist. Da pièce vind Sippe aus latein. Sprachgut ableitbar sind, ist es
nicht nòthig , das Etymon anderwàrts zu suchen. Kymr. Herkunft lehnt die Ver-
breitung des Wortes auch in Spanien ab ; die keltischen Wòrter des spanischen
Sprachschatzes stammen aus dem Vulgàrlafcein ròmischer Zeit. An KéC,% zu denken
verbietet die mlat. Schreibung: peJtum pe^ja, da C mlat. wenn auch durch ce, nicht
doch durch ti (oder ce?) vertreten zu werden pflegt.
16. nfrz. RcissEAD,
afrz. ruicel, russel und roissel, roisseaus, rossel, (s. W. Foerster, Ztsch. f. R. Ph. V
96 f), it. ruscello, mòchte W. Foerster von einem Stamme ni-, in altfrz. rn, ruz, rus
a.bleiten , den er in lat. Rù-mo (Tiber) etc. zu erkennen meint. Das altfrz. oi neben .
ni, in roissel neben ì-uissel, verlangt aber 6 -f- i als Grundlage und weist auf mlat. ro-
gium = Bach, das, wie exagium: essai, so *rot ergiebt, und, wie hodie neben hoi ein
Imi stellt , so auch rivi werden musste. Aus demselben rogium leitete schon Diez II''
s. V. arroyo, span. a-rroy-ar, iiberfliesseu, iiberfluthen (cfr. span. ejisat/e?' = *exagiare,
und span. a-rroyo, Bach, mlat. arrogium (Urkunde vom Jahre 775), port. arroio,
Bach, ab. Altfrz. roissel, ruissel ist ebenso gesetzmassig aus einem Deminuti vum
*rogi-scellum zu ziehen, wie frz. arbri-sseau aus arbori-scellum (s. o. morceau .
Schwierigkeiten wiirden nur bereiten 1) afrz. ru, wenn daneben nicht die von Diez
1. e. angegebene Nebenform rui existirte, die "W. Foerster 1. e. beanstandet, und 2) it.
ruscello, das von Diez 1. e. als franzòs. Fremdwort aufgefasst wird und nach ital.
Lautregel allerdings nicht aus *rogiscellum zxi entwickeln ist (vgl. it vascello = vas-
cellum; ramoscello zu ramo; arhuscello stammt nicht von arborisceUum , sondern ist
Deminutiv zu arbusculum). Die altfz. Form rui gibt Foerster mit Raynaud im Aiol ,
V. 4931, selbst zu. Ebenso steht wie dort mit Bezug auf fontaine, Huou de Bord.
5541: ruis und in dem Parallelverse 5549 wechselt mit ruis: ruisiaus. Dann diirfte es
aber auch an andern Stellen, wo vom rui de la fmiiaine die Rede ist, z. B. Munch.
Brut. 3911, Beuve de Com. 2360. 2952 (Scheler: rin), Durmarfc 2625 {rìu) Mousket
2420 {riu) gelesen werden, wàhrend ib. 7088: del sane ki partout ceurt a uro: (Griit),
und Adelleicht auch Mon. de Namur II 2, 604 deleis un rin (1. riu), da wallonisch:
riu, riew, besteht, das bekamite r4M=rìvum. vorliegen mag. Ein, ì-iii oder rui sichernder
Reim steht mir nicht zur Verfiigung. Das von Contejean im Gloss. du pat. de
Montbóliard prwahnte Deminiitiv ruij-of (so etwa zu schreiben Bastart d. B. 320
— 49 —
statt ì-uissoit im Reim mit -ot, wo Scheler willkiirliche Entstellung von ruisseau
erblickt) bietefc keinen sichern Halt fiir rui, weil dieselbe Mundart daneben das
Wort rti besitzt, das im ganzen Osten bis ins Elsass hinein (hiei" auch Ru])t^ aber
ru gesprochen) verbreitet ist. Wie ridt (Champagne, nach Lorrain Gloss. ; bei Joinville :
rie) aufznfassen sei , ist nicht klar ; ist t stumm , so liegt die gesuclite Form aber auch
hier vor. Die Entscheidung hàngt von einem Reime rui mit ui ab. Die Form ru aber
fiir jiinger als rui auzusehen, berechtigen die ostfranzòsischeu u fiir ui, z. B. cestu, celu=
cestiti celiti, 3. Burguy I 154, Apfelstedt, Lothr. Psalt. S. XLIX u. XXXVI, Poulet,
Vocabulaire du Patois de Plancher-les-Mines (Haute-Saòne) , S. 36: fi-u :^ fruii,
jjechu = jjertuis u. dgl. Das it. ruscello , schon von Dante gebrancht und der
Umgangssprache angehòrig, wird man trotz alledem ungern als franzos. Fremdwort
betrachten. Alletn es fàllt hierbei ins Gewicht 1) dass ruscello ohne Primitivum im
Ital. dasteht, wahrend ein solches bei den iibrigen Deminutiven auf -scello vorhan-
den ist; 2) wird man das Etymon von ruscello vom frz. ruisseau nicht trennen
diirfen, und 3) ist ein latein. Primitiv zu it. ruscello nicht denkbar. Nach vascello
(zu vasculum) arhuscello (zu arbusculum) hatte es nur rusculum, oder nach (jungem)
ramo-scello etwa *rù-um lauten miissen. Letztres Wort aber ware unlateinisch ,
und rusculum fiele mit dem Deminutiv zu rùs', Land(-gut), zusammen, und setzte
denselben Stamm rus- voraus, der sich aber weder mit Foersters Wurzel »•?< vertragt,
noch in der erforder lichen Bedeutung iliessen u. dgl. im Latein existirt.
G. Geòbee.
088EMAZI0NI
SOPRA UN VERSO DEL POEMA PROVENZALE SU BOEZIO.
Il verso 26 del Boezio non fu ancora , eh' io sappia , interpretato in modo sod-
disfacente. La frase Non i mas foiso è tradotta dal Eaynouard {Choix, II, p. 9): N'y
mit foisoìi; il Diez {Altr. Spraclid. p. 50) pensa, non però senza mostrar qualche
esitanza, che il senso possa essere: Er setzte es niclit dtirch, cioè non ne venne
a capo, non ottenne il suo intento; il Bartsch {Clirest. Prov.) segue la stessa inter-
pretazione del Diez, poiché nel suo Glossario fa di mes un perfetto di metre (lat.
mitteve) e attribuisce a, foiso il valore di effet, Wlrkung. In sostanza, tutti e tre i sul-
lodati interpreti spiegano mes per misit. E quanto a foiso , il Raynouard con la sua
traduzione letterale non lascia intravvedere ' il senso preciso che abbia voluto
dare a quel vocabolo; il Diez, osservando che nell'antico francese avoir foison
vale aver potenza, aver resistenza {Macht, Widerstand haben), suppone che metre foiso
possa voler dire ' venir a capo del suo intento {etwas durchsetzen) ,' ossia che foiso valga
quanto effetto; il Bartsch, senza darci, come il Diez, la traduzione completa della
frase, assegna esplicitamente, come s' è detto, a, foiso il valore di effetto.
Ma, in primo luogo, anche volendo ammettere che avoiV /oi'soji significasse effet-
tivamente nell'antico francese, secondo che opina il Diez, aver potenza, aver effi-
cacia, non basta una semplice congettura, senza la prova dei testi, a stabilire che
foison abbia ricevuto lo stesso significato nel costrutto provenzale metre foison; poi-
ché, a parte la disparità delle lingue, noi vediamo che un vocabolo, unendosi con
altri vocaboli per formare ima frase, muta bene spesso per effetto di tale unione la
sua accezione primitiva ; né si può stabilire a priori , che lo stesso vocabolo , tra-
sportato in altra frase, debba neUa nuova unione conservare quel particolar signi-
ficato che aveva assunto nella prima. Secondariamente, il costrutto metre foiso, pre-
supposto dal Diez e dal Bartsch, non ha, se bene ci si guarda, un saldo fondamento
nell' analogia romanza , poiché l' italiano non dice propriamente ' metter effetto ad
una cosa, ' ma ' mettere ad effetto una cosa (un disegno, un affare); ' né il francese
mettre effet, ma mettre à effet; né lo spagnuolo poner efecto, majjower en efecto. Di più,
quand' anche si voglia menar buono il costrutto grammaticale e concedere che ' met-
ter effetto ad una cosa ' sia lo stesso che ' metterla ad effetto , ' ossia ' metter effetto '
— 52 —
equivalga a ' dare effetto , ' il senso che uè risulta non è ancor quello eh' è voluto
dal Diez e dal Bartsch, e che del resto chiaramente apparisce dal contesto, cioè che
Boezio col predicar la fede cristiana non venne a fine del suo intento , non ne cavò
costrutto. Poiché altro è mettere ad effetto un proponimento, un disegno, ed altro
ottenerne l' effetto che si desidera.
Bisogna dunque cercare una interpretazione diversa da quella che è stata data
sinora della frase sopra riferita ; un' interpretazione che meglio risponda al concetto
e alla parola dell' originale.
Ora a me pare, che per giungere a tale resultato bisogna rinunziare innanzi
tutto al vedere in mes un perfetto di metre (;mittere), e prenderlo invece per un per-
fetto di jntv^re, meire, lat. métere, it. viietere; ài -poi, che si debba lasciare a /bi'so il suo
significato primitivo e naturale di abbondanza, quantità grande; per modo che Non
i mes foiso venga a dire nel latino del tempo Non ibi messuit fusionem ; in latino
schietto Non messuit uberem messem , non ci mietè gran cosa , non ci mietè una messe
abbondante, non fece gran frutto.
Discorriamo brevemente dei due termini che costituiscono la frase in questione,
incominciando dal verbo.
Il latino metere, it. mietere, proV. medre, meire (Rayn. Lex. IV, p. 214), ha un
perfetto messivi, di cui fanno menzione Carisio (3, 1 p. 217), Diomede (1 p. 364),
Servio {Virg. Georg. 4, 54 ed Aen. 11, 68) e Prisciano (10, 8, 47 p. 903). Quest'ul-
timo cita demessuit di Catone, demessuerunt di Cassio Emina; il Kiihner (Ausf.
Gramm. I p. 566) v'aggiunge messuissent di Paulo (Fest. 319, 2); il Neue {Formenl. der
lat. S2jr. H, p. 498) demessuerint di Amobio (5, 11), messuit e me.ssuerunt di Ma-
mertino {Grat. ad. Jid. 22 , 1 , 2). Son questi tutti gli esempi a noi noti del perfetto
messui , che è del resto una formazione irregolare , composta molto probabilmente di
-si ed -ui; vedi Schleicher Conip. § 301; cf. Kùhner 1. e. Se non che Diomede, pur
registrando nel luogo sopra citato questa forma di perfetto , ne avverte che alcuni
grammatici la. mettevano in bando: quod quidam exterminant ; altrove (1, p. 375) an-
novera meto tra i verbi dei quali non è facile trovare un perfetto. Carisio, mentre,
come s' è detto, in una parte della sua opera riconosce messui, in un' altra parte
(3, 2 p. 222) coniuga il/e<o, metebam, metam, messem feci, messem feceram, cioè a messui
sostituisce messem feci , a. messueram messem feceram. Prisciano (8, 11, 59 p. 817) : Bleto
quidam messui, quidam messem feci, sed usus vetustissimorum. messui comprohat. Final-
mente Foca (9, 3 p. 1718) esclude ricisamente messui: Meto messem feci, nam al iter
■proferri non potest (v. Neue 1. e). Dall' insieme delle quali dichiarazioni apparisce in
modo non dubbio, che messui, già contestato dai grammatici anteriori o contempo-
ranei a Carisio e Diomede, cioè alla seconda metà del IV secolo , non era più in
uso nel latino popolare dei secoH V e VI, cioè ai tempi di Foca e di Prisciano , poiché
il primo nega del tutto l'esistenza di tale forma, l'altro ricorre, per legittimarla,
all'uso arcaico {usus vetustissimorum). Or questo fatto può già renderci ragione,
come il provenzale non abbia dato un mese che potrebbe sembrare a prima giunta il
corrispondente normale del latino messiw. Laddove , per ispiegarci la forma wes, basta
— 53 -
considerare che il perfetto con s ha avuto una grande espansione in romanzo, tanto
da cacciar di seggio in non pochi verbi le altre maniere di flessione; cfr. in particolare,
per lo scambio di -ui, -vi con -si, prov. somos {siibmonui) , tevis, tens (tinmi), sols (solvi),
vols (volvi); ùa,nc. ant. semons {suhmonui) , creins (trermii), sols (solvi), vols (vaivi; anche
volui da véll^; ital. apersi, copersi (aperta, cooperui), colse (caluit), discersi, scersi (discrevi),
dolsi (dolui), mossi (movi) , parsi (parui), assolsi, risolsi ecc. (absolvi, resolvi etc), valsi
(valui), volsi (volvi), e tose, volsi (volui). Ma c'è di più. Anche data la sopravvivenza
nel latino volgare del perfetto messui, si può tuttavia affermare con sicurezza, che
il suo continuatore provenzale non sarebbe stato mese ma mes, poiché si vede che
tutti indistintamente i perfetti latini con s davanti a -ui si risolvono in romanzo in
un semplice perfetto sigmatico, come se il. tipo latino non fosse -sui, ma si; cfr. it.
connessi (lat. connexui); it. posi, sp. puse, sp. ant. ^ose, prov. jpos (ìat. positi, nelle iscrizioni
anche post ;cf. Corp. Inscr. Lat. 3, 4415; 5. 1685; e vedi Neue II p. 491); frane, ant. re-
puns (lat. reposui). Lo stesso avviene delle forme in -s-i-vi; cf. it. chiesi, sp. quise, prov.
quis, ques, fr. ant. quis (lat. quaesivi, anche quaesi secondo Prisciano 10, 8], 46 p. 902);
it. co Hg Misi (lat. conquisivi); fr. mod. acquis, requis ecc. (lat. acquisivi, requisivi etc. •
vedi Diez, Gramm. der Bom. Sjir. II p. 128 sg.). Prove più dirette per stabilire in
modo inconcusso la forma genuina in questione non ne posso addurre; poiché del
perfetto di medre, meire non m' é riuscito di trovar alcun esempio da questo infuori
del Boezio; e fra le altre lingue romanze, l' italiana, eh' é la sola, oltre alla proven-
zale, che ci fornisca iin rappresentante diretto del latino metere (il moissonner francese
è un derivato di moisson, lat. messionem; lo spagnuolo dice segar, recoger las mieses)
forma il proprio perfetto alla maniera dei verbi deboli (mietei). Con tutto ciò mi par
dimostrato a sufficienza, che mes può stare per messuit , né v' è necessità alcuna di
riportarlo a misit.
Quanto a foiso, non può esser dubbia la sua provenienza da, fusionem. Da. fusio-
nem così il provenzale ed il francese come l' italiano han dedotte due forme paral-
lele, 1' una strettamente conforme al tipo latino, l'altra con attrazione o con caduta
dell' ^.• ■proY. fusio e foiso, fr. fusion e foison, it. fusione e fusone, quest'ultima usata
soltanto nel modo avverbiale antiquato a fusone: Leggeri d' arme, con balestri e dardi
e giavellotti a fusone (Gr. Vili. 8, 78, 4); JE oltre a questo, pece, olio e sapone Sopra lo
stuol gittavano a fusone (Bocc. Tes. 1, 52). E notevole questo fatto comune al pro-
venzale, al francese e all' italiano dell' aver riprodotto lo stesso vocabolo latino in
due diverse maniere, e tanto più notevole in quanto che non solo le due forme si
sono svolte nelle tre lingue con procedimento analogo , ma vi hanno preso ciascuna
rispettivamente il medesimo significato; poiché fusio, fusion e fusione denotano
tutte e tre l'atto e l'effetto del fondere, mentre foiso, foison e fusone valgono
abbondanza, quantità grande. ' E poi chiaro, che il significato di abbondanza, che
s' è fissato nelle voci della seconda maniera , non è che un' estensione del valore
' Noto qui una svista nel Dizionario del Littrè, ohe sotto foison assegna per corrispondente a foison fr.
il prov. fusion, mentre avrebbe dovuto contrapporgli /oi50, /oì50h.
— 54 —
originario del latino /wsio, spandimento, versamento; in quanto che all'idea dello
spandere, del versare, si è associata quella dello spandere, del versare con profu-
sione. Se non ohe nella frase dell' antico francese, allegata dal Diez, avoir foison,
la voce foison riceve un' ulteriore modificazione del proprio significato, cioè in
vece di abbondanza, di quantità o misura più che sufficiente, denota semplice-
mente « sufficienza, » e auoir foison vale propriamente aver in sé quanto basta,
esser sufficiente, come avoir besoin, avoir fante ecc., esser bisognoso, mancare. Che
tale sia il preciso significato di avoir foison apparisce chiaramente da tutti gli
esempi a noi noti della detta frase, sia da quelli citati dal Diez, sia da quelli re-
gistrati dal Lacurne e dal Littré; per es. Cantre lor cop n'ait nule arme foison (Gerard
de Viano v. 2813, sec. XIII), contro il lor colpo niun' arme è sufficiente (basta
a resistere, può reggere; cf. Virg. Aen. 9, 810: Nec sufficit umbo ictibus); Quanque
lor toil ne m'a foison (Roman de Partonopeus de Blois, sec. XIII), qualunque
cosa tolgo loro non mi basta (non mi sodisfa, non mi fa prò), ecc. Lo stesso dop-
pio significato di abbondanza e di sufficienza si riscontra, del resto, nel derivato
foisonìier; cf. frane, mod. Cette province foisonne (abbonda) en blés , foisonne en vins
(Dict. de l'Académie) ; frane, ant. A^e poreient pas foisonìier les vis jjour les mors en-
ferrer (Roman de Brut, sec. XII), non potrebbero bastare i vivi per seppellire i
morti. E insomma avvenuto, rispetto al frane. /ofso?i , lo stesso scambio d'accezione
che s'è verificato, sebbene in ordine inverso, nel frane, assez, prov. assatz, it. assai,
che in origine valsero a bastanza, a sufficienza {ad satis), e passarono di poi a signifi-
care anche molto. ' Così che l' idea fondamentale espressa da foison, anche nell' an-
tico francese, è sempre quella di quantità, di misura più o meno grande, non quella
di effetto; e manca quindi il precipuo fondamento alla supposta locuzione proven-
zale metre foiso in senso di conseguir 1' effetto che si desidera.
Rimane ad esaminare il concetto racchiuso nell' intera frase Kon i mes foiso,
così come la intendo io , cioè Non ci mietè una messe abbondante, non fece gran frutto
(col suo sermonare). A me pai'e, che tale interpretazione sia avvalorata non poco
dall'uso frequente nel latino popolare, assai più frequente che nel latino classico, di
metere, messis in senso figu.rato; come si può scorgere dal modo proverbiale riferito
da Cicerone: Ut sementem feceris ita vietes (De Or. 2, 64, 261), al quale fa riscontro
Quae seminaverit homo, liaec et metet di S. Paolo {ad Gal. 6,7) e Di mia semenza cotal
paglia mieto di Dante {Purg. 14, 85); e non meno dai seguenti esempi di Plauto : Eoruvi
(cioè morum malorum) licei iam messem metere maximam {Trin. 1,1, 11), dove messem.
metere maximam equivale perfettamente al prov. medre foiso; Uberem messem mali {Rud.
3, 2, 23); Pro benefactis cummali messem metas {Epid. 5, 2, 53). Più aiuto ancora si
ha dal linguaggio delle scritture che assomigliano spesso la parola di Dio alla buona
Lo stesso rapporto ideologico è quello clie ha servito di baso alla balzaua etimologia del latino oppido,
per valde , multavi , dataci da Paulo (Fest. 184 , 6): Ortum est autem hoc verbum ex sermone inter se co^fabulantium ,
quantum quiaque frugum faceret, utque multitudo signiflcaretur , saepe respondebatur « Qaantnm ve! oppido satis
esset. » //ine in consuetudinem venit, ut diceretur oppido pi-o valde , multum.
— 55 —
sementa, e paragonano il frutto che se ne raccoglie ai prodotti della terra; cf. Matt.,
Gap. XIII; Marc, Gap. IV; Lue, Gap. Vili; Giov., Gap. Ili, 36. Per ultimo, non
è da pretermettere l' uso che Dante fa della stessa similitudine laddove {Farad. XI ,
100) tratteggiando la vita di S. Francesco, dopo aver detto che Nella presenza
del Soldan superba Predicò Cristo e gli altri che il seguirò , seguita : E per trovare a
conversione acerba Troppo la gente , per non stare indarno, Eeddissi al frutto dell' italica
erba; cioè vedendo di non poter fare più frutto in quelle parti, si dispose di ri-
tornare tra i fedeli d' Italia per adempiere ivi con miglior successo la sua missione
(cf. Fioretti, 4).
G-. B. Gandino.
MOLIERE'S DON JUAN.
Die spanische Sage von dem Verfuhrer Don Juan und seinem schrecklichen
Ende, welche in dem grossartigen Drama Tirso's de Molina ihre poètische Gestal-
tung erhalten batte, wtirde in Frankreich zwischen 1658 und 1669 nicht -weniger
als vier Mal fiir die BtOine bearbeitet. Die italienischen Schauspieler stellten einen
Convitato di Pietra in der Form der Commedia dell'arte auf ilirem Tbeater im Petit-
Boiirbon dar, und das Publikum fand daran so viel Gefallen, dass nun jede der
franzòsischen Truppen ihren Don Juan haben wollte (s. Rosimonds Vorrede). Den
Anfang machten die Schauspieler von Mademoiselle , welche 1658 in Lyon das
Stiick Dorimonds auffiihrten: Le Festin de Pierre ou le Fils Crìminel, tragi-comédie,
gedruckt zuerst in Lyon bei Offray, 1659; in Paris gaben sie es seit 1661, und 1665
ward es daselbst neu gedruckt unter dem Titel: Le Festin de Pierre ou l'Athée
Foudroyé, dami noch ofter, auch irrthiimlich an Stelle von Molière's Don Juan, in
den Ausgaben seiner "Werke von Amsterdam, 1675, 1684, 1691; die erste derselben
(voi. n) habe ich benutzt ; ein kiirzlicher Neudruck in Schweitzers Molière-Museum,
Heft 2, war mir nicht zugànglich. Der Titel Festin de Pierre, welcher fiir- alle
franzòsischen Bearbeitungen ilblich wurde, benihte auf einem Missverstandnisse,
nach Mesnard (Oeuvi'es de Molière, V, 10) keinem so schlimmen, da man nach
seiner Ansicht « steinernes Grastmahl » zu verstehen hàtte, nicht « Gastmahl
Peters » ; freilich miisste dann ein ueues Missverstàndniss in den ersten der franzò-
sischen Stiicke dem Comthur gerade diesen Namen verschafft haben, den er bei
Tirso (Gonzalo) und den Italienern nicht fiihrt; bei Molière ist sein Name nirgend
genannt, wie er ja hier uberhaupt eine ganz untergeorduete Rolle spielt. Es folgte
De Villiers' Tragicomòdie, 1659 im Hotel de Bourgogne gegeben, gedruckt 1660 unter
dem Titel: Le Festin de Pierre ou le Fils Criminel, tragi-comédie, traduit de Vltalien
en Francois, neu herausgeg. von W. Knorich, Heilbronn, 1881. Molière's Dom Juan
ou le Festin de Pierre kam am 15. Febr. 1665 auf die Biihne; den Schluss bildete
das Nouveau Festin de Pierre eu l'Athée Foudroyé, tragi-com. von Rosimond, im Marais-
Theater Nov. 1669 aufgefllhrt, gedr. 1670, new bei Fournel, Contemporains de Mo-
lière, ni (Paris, 1875), p. 225 ff.
— 58 —
Die Franzosen haben wenigstens m der Hauptsache deu Stoff uicht aus dem
spanischeu Originai direkt eutlehut, sonderu sie Jialimen ihn von den Italienern
heriiber; darin stimmen alle Zeugiiisse iibei'ein; De Villiers nemit sein Stiick auf
dem Titel aus dem Italienischen iibersetzt; Rosimond sagt in seiner Vorrede: Les
comédiens italiens l'ont ajjporté (le siijet) en France, et il a fait tant de hridt chez etix,
que toutes les troujjes en ont voulu régaler le jjidilic. Sliadwell in der Vorrede seiues
Libertine (1676, s. Mesnard, p. 13) bemerkt, von den Spaniern hatten den StoiF die
italienischen Schauspieler erhalten, und von diesen wiederum die Franzosen.
Molière selbst muss sich beztiglich des italienischen Ursprungs seiues Stoffes
geàussert haben; denn das Pamphlet Rochemonts "wirf't ihm vor (bei Mesnard,
p. 224) : Molière a très mauvaise raison de dire quii n'a fait que traduire tette pièce de
l'italien en francois; car je lui jìourrois repartir que ce nest point là notre coutume ni
celle de VEglise. L'Italie a des vices et des libertés que la France ignare.
Das Natllrlichste wàre hiernach anzunehmen, dass das Originai der franzòsischeu
Stilcke eben jene Commedia dell'arte gewesen sei, welche die Italiener naoh Paris
gebracht hatten, und welche tiberhaupt ja die Anregung zu ali diesen Produktionen
gab. Zu voller Gewàssheit kann man freilich hier uicht gelangen, weil eine durch-
gehende Vergleichung uumòglich ist. Das scenario des italienischen improvisirten
Stilckes ist uns nur zum Theil tìberliefert, und zwar ausfiihrKcher nur ftlr die Par-
thieu, in denen Arlecchino eine Rolle spielte; ja auch diese Fragmente stammen
nicht aus der ersten Zeit der Auffiihrungen , sondern aus einer weit spàteren
Aufzeiclmung, haben also mòglicherweise Ziige aus den franzòsischeu Stiicken selbst
aufgeuommeu (vgl. Moland, Oeuvres de Molière, III, 344. Jenes unvollstandige
scenario ist abgedruckt, ib. p. 345 fF. und bei Moland, Molière et la Comédie Ita-
liemie, p. 192 fF.). Ladessen empfiehlt sich eine solche Annahme betreffs der Quelle
der franzòsischeu Drameu auch dadurch, dass sie uns am einfachsten ihre gròssere
und geriugere Uebereiustiinmung mit dem Werke Tirso's de Molina erklàrt. Mesnard
hat (p. 27 ff.) gezeigt, dass die Commedia deU' arte aus einer literariseheu italieni-
schen Comòdie geschòpft ist, nàmlich dem Convitato di Pietra von Cicognini; die
Uebereinstimmungen sind so augenscheinlich , dass man nicht daran zweifeln kann.
Leider sind Mesnards Angaben llber die mir uicht zugàugliche Comòdie Cicoguini's
(p. 22 ff.) recht mager; doch gelit aus ilmen hervor, dass dieselbe Tirso de Molina am
Aufange und am Ende sehr uahe blieb ; auch die Namen der Personen werden wohl
die nàmlicheu' gewesen sein; wenigstens hiess der Comthnr noch Oliola (span. UUoa).
So hat denn auch die Commedia dell' arte noch vielerlei mit Tirso gemein, was die
spàteren Bearbeitungen uicht mehr bieten. Die Toohter des Comthurs heisst hier
noch Donna Anna; ihr Brautigam tràgt wenigstens deu Namen der einen von
Tirso's Personen, Ottavio; Donna Anna sucht beim Kòuige Gerechtigkeit , wie die
betrogenen Màdcheu im Burlador de Sevilla. Die Fischerin Rosalba halt wie Tirso's
Tisbea den vom Schiffbruche besinnungslosen Don Juan in ihren Armeu, wird von
ihm durch ein Heirathsversprechen verfiihrt, stilrzt sich betrogeu in das Meer, wie
Tisbea es zu thuu beabsiohtigt. Don Juan sagt zu Rosalba: Si je ne vous donne pas
— 59 —
la maiìi d'un époux, je ueux ètre tue par un homme.... un liomme qui soit de pierre,, n'est-ce
pas, Arlequinì tind der Don Juan Tirso's zu Aminta (III, 7): Me de imierte un
hombre.... (Muerto, Que vivo, Dios no permita). Arlecchino, in das Grabgewolbe
tretend, bemerkt: Il faut que la blanchisseuse de la maison soit morte; car tout est hien
noir ici, wie Catalinon (III, 21): Mesa de Guinea es està. Pues f^ no hay por alici quien
lave'? Der Don Juan der Commedia: Je mangerais, quand tu me servirais tous les ser-
pents d'enfer^ und derjenige Tirso's (III, 21): Comeré, Si me dieres dspid, dspides
Cuantos el infierno tiene. Wie bei Tirso so in der Comòdie erschallen in dem Grabge-
wolbe traurige Gesànge. Es fragt si eh, ob alle diese Einzelheiten auch bei Cicognini
vorhanden sind, oder ob der Verfasser des scenario hie und da ax\i das spanische
Originai zuruckgegriffen hat. Von Dorimond und De Villiers steht der erstere dem
scenario, «oweit es iiberliefert ist, und im iibrigen Tirso de Molina bedeutend
nàher. Vor allem ist, wie Mahrenholtz mit Recht bemerkt (Archiv £ das Stud. d.
neueren Sprachen, 63, 183), ' Dorimonds Don Juan nicht, wie der De Villiers',
Athe'ist, sondern bei aller Simdhaftigkeit glaubig wie der Tirso's; es felilen die
Bravaden gegen die Gòtter in der Scene mit Alvaros (I, 5), und dem Geiste gegen-
iiber erkennt Don Juan ausdriicklich die AUmacht Gottes an; der Titel l'Athée
Foudroyé passt daher gar nicht und hat sich erst nachtràglich eingefunden. Bei De
Villiers trifft Don Juan nach dem Schiffbruche zwei Schaferinnen und bemàchtigt
sich der einen mit brutaler Gewalt, worauf Philipin der anderen die Liste der von
seinem Herrn Betrogenen zeigt. Bei Dorimond findet Don Juan Amarante allein
und gewinnt sie durch Versprechen der Ehe, wie in der Commedia und bei Tirso,
und ihr sebst zeigt Briguelle spater die Liste, wie Arlecchino der betrogenen Ro-
salba. Die Entflihrung bei der Bauernhochzeit folgt in der Commedia und bei Do-
rimond alsbald auf jene Verfiihrung der Rosalba- Amarante (nur bei Dorimond vor
der Klage des Madchens, in der Commedia verstandiger nach dieser) und die Scene
vor dem Grabmal, wàhrend De Villiers die Bauernhochzeit in den 5. Akt vor den
Besuch im Grabmale des Comthurs setzt. Dorimonds Briguelle weiss von Don Juan
die Erlaubniss zum Beginnen der Mahlzeit vor Erscheinen des Gastes zu erhalten,
indem er ihm von eiuer Liebsehaft redet, und wird dann von ihm bestandig mit
Fragen unterbrochen , wie Arlecchino; auch bei De Villiers hat eiu solches Fragen
des Herrn statt, aber es handelt sich dabei nicht um Liebesangelegenheiten. De
Villiers endet damit, dass die Bauern Philipin nach Don Juans Untergang am
Boden liegend finden; dagegen bildet bei Dorimond, nachdem der Himmel den
Gouverneur geràcht hat, den Schluss die Heirath Amarille's mit Dom Philippe,
entsprechend den vier Heirathen am Ende des Burlador. Auch hier ist wieder zu
fragen, ob Dorimond Uebereinstimmuugen mit Tirso bietet, welche die Commedia
dell'arte nicht ebenfalls batte, woriiber, da diese nur theilweise bekannt ist, Cico-
' Dieser Ruhm bleibe Malu-enholtz, cler wicli im iibrieren iiin den Don Juan nicht so vie! Verdienste erworben
hat, wie er selber glaubt; die meisten anderen Unterschiede, welche er zwisclien Dorimond und Do Villiers ent-
deckte. ergeben sich aus einer ganz fehlerhaften Analyse von dem Stiicke des letzteren.
— 60 —
gnini's Stilck wenigstens vermutkungsweise belehreu kònute ; hat Dorimoud etwas
von Tirso, was man bei Cicognini vermisst, so mixsste man direkte Beuutzung
des spauischen Originals annehmen ; im andern Falle konnte er AUes , worin er von
dem italieuisclieu Stlicke abweioht, selbst dazu erfunden liaben. De Villiers
seùierseits kat kauptsachlich aus Dorimonds Werke geschòpft; von da ist fast der
ganze Gang der Handlung und sind auch die wichtigsten Namen (ausser dem des
Pliilipin) entlehnt. Von seinen Hauptànderungen war schon die Rede. Weniges
fìndet sich, was er direkt aus der Commedia dell'arte haben muss. Es ist dies der
Fall mit dem Gesange Philipins ver dem Schatten bei Don Juans Gastmabl. Bei
Tirso de Molina (IH, 13) wird gesungen, aber hinter der Scene, iind ein Lied von
der Leichtfertigkeit in der Liebe, ohne bestimmten Bezug. Catalinon erinnert hier
an die betrogenen Madchen, und als er auf Doiìa Ana kommt, gebietetiitm Don
Juan zu schweigen , weiL es den Gast verletze. In der Commedia dell' arte singt
Arlecchino und bringt eine Gesundheit auf Donna Anna aus, auf seines Herren
Befekl; der Geist verneigt sich. Bei Dorimond weigert sich Briguelle zu singen.
Bei De Villiers nun tragt Philipin ein Lied allgemeinen Inhalts vor; Don Juan
fordert ihn auf von Amarille zu singen, indem er sich (wider die Wahrheit) des
combat ^«^«e rtìhmt, was den Schatten verletzt. Auch mit Tirso stimmt De Villiers
in einer Meinigkeit gegen Dorimond iiberein; Catalinon, der sich weigert, beim
Esseu mit dem Geist Platz zu nehmen, sagt (HI, 13): Seììoì-, vive Dios, que ìmelo
mal, und Philipin (V, 2): Jiistes Di.eux! que ferai-je? L' Ombre ou moi sentons mal. Steht
das bei Cicognini? Einen solchen Zug liess sich Arlecchino wohl kaum entgehen;
die Farce wird ihn gehabt haben.
Danach scheint also die Genealogie der Stiicke diese zu sein: aus Cicognini's
Comodie stammt di Harlekinade, aus dieser Dorimonds Festin, und aus Dorimond
und Harlekinade die Tragicomodie De Villiers'. AUein gegen eine solche Auffassung
macht man die Angabe auf dem Titel von De Villiers' Stùck geltend, dass es aus
dem Italienischen iibersetzt sei. Das Originai meint man somit nicht in Dorimonds
Stiicke suchen zu dùrfen, auch nicht in der Commedia deU' arte, da von ihr De
Villiers viel zu sehr abweioht, um sie iibersetzt haben zu kònnen. Aus demselben
Grande ist nicht an Cicognini's Convitato di Pietra .zu denken. Nun hat man die
Erwàhnung eines anderen Convitato di Pietra aufgefunden von einem Onofrio Gili-
berti aus Solofra; ' das Stùck ist heut' trotz aller Bemtihungen nicht mehr aufzutrei-
ben; wie es beschaffen gewesen, weiss man nicht; aber um nicht noch einen dritten
italienischen Don Juan annehmen zu miissen, von dem sich gar keine Spur fande,
glaubt man jetzt allgemein , dieses Stiick Giliberti's sei es, welches De Villiers liber-
setzte; und da Dorimonds Werk ihm so nahe steht, so mtìsste auch er jene verschwun-
dene Comodie als seine Hauptquelle benutzt haben. Freilich ware es auflPaUend,
' In Allacci'? Drammaturgia und noch bei Goldoni in dei- Vorrode zu seinem Don Oiovanni Tr.norio (1736) wo
es heisst:/a in italiano tradotta da Giacinto Andrea Cicognini, Fiorentino, ed anche da Onofrio Oiliberto Napoletano,
pochiaaima differenza essendovi fra queste due traduzioni. Darf man ihm also glauben, so untersohied sich Giliberti's
Stiick selli' wenig von dem Cicognini's, und dann kSunto das De Villiers' gar nicht desseu Uebersetzung sein.
— 61 —
dass, nachdem die Italiener den G-egenstaud nach Frankreich gebracht hatten, man
in den Prodnktionen , welclie sie damit hervorriefen , uicht ihre eigene Anffiihrung
nachahmte, aucL nicht das Stiick, welches ihnen als Originai diente, und allgemei-
ner bekannt war, soudern ein auderes, das wahlgeringe Verbreitung gehabt haben
mnss , wenn es so spurlos verloren gehen konnte. Ferner wird damit das Verhaltniss
zu den anderen Quellen ein verwickeltes. Dorimond batte ausser Giliberti auch die
Commedia dell'arte und Tirso de Molina benutzt; den Charakter des Don Juan
bàtte er mit einem Geschicke umgebUdet, wie man es bei seiner sonstigen Plattlieit
schwer begreift, und bei dieser Umbildung wàre er, wunderbarer Weise, gerade wie-
der auf den Staudpunkt Tirso's zurilckgekehrt. De Vniiers batte, indem er llbersetzte,
doeb wieder Dorimonds Stiick mitbenutzt. Die Sammlung von iibereinstimmenden
Reimwor-ten, welche Kuoricb (p. XIII f.) giebt, und zu der sich noch Ausdriicke in-
nerhalb des Verses fiigen lassen, ist durcbaus iiberzeugend und làsst sich nicht
durch blossen Zufall erklaren. Auch den Namen Amarille fiir die Tochter des Com-
thurs kann, wie ich glaube, De ViUiers nur von Dorimond haben ; ein Italiener koimte
Amarilli bòchsteiis eine der Schaferinnen nennen (bei Rosimond heisst Amarille die
Bauembraut im 5. Akte). Und andererseits , ist demi jenes Raisonnemeut, welches
sich einzig und allein auf das traduit de l'ìtalien des Titelblattes griindet, ein so
unanfechtbares ? Man hat den Ausdruck traduit ehedem ofters in einer Weise
verwendet, welche uns irre fiihren wiirde, wemi wir es damit so genau nàhmen,
theilweise geradezu um zu ttìuschen, theilweise in weitem Sinne von blosser
Heriibernahme des Lihaltes oder Gegenstandes. Die Comédie des Comédìes (1639) , in
welcher Balzac verspottet ward, nannte sich traduit de Vitalien und war es dodi
bestimmt nicht. Rochemont wirft Molière vor, sich mit Unrecht der Entschul-
digung zu bedienen , qu'il n'a fait que traduire cette pièce de Vitalien et la mettre,
en francois (bei Mesnard p. 224). Scarrons Nouvelles tragicomiques nennen sich tra-
duites de Vespagnol und sind es wenigstens sicherlich nicht alle. Auch Goldoni be-
zeichuet di Stiicke Cicoguini's und Giliberti's als Uebersetzungen von Tirso's Dra-
ma; aber wàre De ViUiers' Stiick wirklich die Uebersetzuug einer Uebersetzung des
letzteren in unserem Sinne , wie ganz anders miisste es aussehen ! De Villiers ,•
in seiner Widmung an Corneille, redet von dem peii, d'invention, welches er
aitf den Gegenstand verwendet habe; mag seine Erfindung gering sein, so ist sie
doch nicht Nuli, und danacli hat er nicht bloss tibersetzt in unserem Sinne. AUein,
was mehr ist, De Villiers hat ebeudaselbst ausdriicklich Dorimonds Stiick und das
der italienischen Comòdianten in Paris als seine Originale bezeichnet, in der so oft
citirtèu und stets so schlecht erklàrten Stelle: Les Frangois à la campagne (d. h. die
Truppe von Mademoiselle in Lyon), et les Italiens à Paris, qui en ont fait tant de bruit,
n'en ont jamais fait voir qu'un iniparfait originai, que notre copie surpasse infiniment.
Mesnard sagt dazu (p. 17): «Gomme il s'exprime d'ailleurs modestement sur le mo-
rite de son ouvrage (die gewohnliche falsche Bescheidenheit der Widmungen) , il est
clair qu'U ne se iiatte que d'une fidélité de traduction plus parfaite que celle de
Dorimond et des Italiens du Petit-Bourbon. » Aber wie wunderlich bàtte sich da
De Villiers ausgedrilckt! Er batte cloch sageu mlisseu: ih n'ont jamait fait voir
(ju'invparfaitement l'originai oder une cojiie iviparfaite de l'originai; denn das Originai
ist ja nicht voUkommen oder unvollkommen , je nachdein man es gut oder schlecht
iibersetzt. Vielmehr sagt De Villiers klar iiud deutlich, dass die Stticke Dorimonds
imd der italieuischen Schauspieler das Originai seien, welclies er vervollkommene,
indem er es nachahme, gerade wie z. B. Corneille seinen Menteur die Copie des spa-
nischen Stiickes nannte, aus dem er schòpfte. Man wendet ein, dass ein solches
Plagiat batte Larm macben milsseu. Aber in den Dingen des Tbeaters war man
damals nicbt so empfindlicb; man denke, wie Gilbert mit der Rodogune Corneille's
verfubr, obne dass dieser die Sacbe beacbtete; Rosimond bat Molière's Don Jnan
ftlr den seinen sehr stark benutzt, und De ViUiers gestebt dodi eben selbst, dass
er copire. '
Molière mussten natlirlicb die Stticke seiner Vorganger , welcbe in Paris gege-
ben wurden, bekannt sein. Ob er Cicognini's Comòdie benutzt bat, lasst sicb nicbt
sagen; denn wir wissen nicht, wie viel aus jener in die Commedia dell'arte iiberge-
gangen war , wie sicb denn iii beiden der Ausruf des Dieners am Ende Ah, mes gages!
findet, den Molière seinem Sganarelle in den Mund legt. Aucb ob er von Tirso de
Molina direkt etwas entlebnt bat, vermag icb nicbt zu entscbeiden. Bei jenem sagt
Don Juan (III, 13) zum Geiste : Aguarda, irete alumbrando, und Don Gonzalo: Ao nlmn-
hres , qii£. en grada estoy, wozu MoHère's Ende des 4. Aktes stimmt : Don Juan zu Sga-
narelle: Prends ce flambeau. Die Statue: On n'a pas besoin de lumière, quand on est
conduit -par le ciel; aber abnlicbes stebt aucb bei Cicognini (s. Mesnard, p. 24), und
vielleicbt stand es in der Harlekinade, wo wir die Stelle nicbt baben. Bei Tirso
(III, 21) sagt Don Gonzalo: Dame esa mano. No temas la mano danne. Don Juan: ^; Eso
dices? yo temor. {le da la mano.) Que me abraso, no me abrases con tu f nego. Molière, V, 6,
die Statue: Donnez-moi la main. Don Juan: La voilà.... Don Juan: OCiel! que sens-je?
Un feti, irrésistible me brille, je n'en puis plus, et tout mon corps devient un brasier ardent.
Bei Dorimond fasst der Geist, oline zu sprecben. Don Juan bei der Hand, und aucb
dieser redet nicbt; De Villiers bat nicbts von alledem. Wie ist es bei Cicognini?
Die Aebnbcbkeiten, welcbe Mabrenboltz (Franz. Studien, II, 176 f.) auffubrt, sind
sehr gering und beweisen nicbts. Bei Tirso scbwort Don Juan der Aminta , bei Mo-
Hèi-e will er der Charlotte schwòren, die es hindert; aber, wie wir salien, bat aucb
die Commedia dell' arte den Scbwur und sogar mit denselben "Worteu Tirso's. Die
Uebereinstimmung in dem, was Don Juan vor dem Grabmal redet, ist ganz ima-
ginàr. Aucb dass Don Juan das Schwert gegen das Gespenst erbebt, welches vor
der Statue erscheiut, wie Tirso's Don Juan gegen Don Gonzalo selbst, ist von
keiner Bedeutung; dazu zeigt aucb Dorimonds Don Juan dem Geiste das Schwert
(V, 8) und sagt: Guy, cefer armeroit ma main cantre un tonnerre.
' Malrrenholtz, Nfrz. Ztschrt't., IV, Helt 8, p. 275 IT. meint .jetzt, De Villiers werde das verlorene Stiick frei
behandelt und vielleicht auch aus Dorimond und der Commedia dell'arte geschopft haben. Weshalb brauoht man
da aber iiberhaupt nocb Giliberti's Comodie als sein Vorbild anzusehen ?
— 63 —
Indessen gerade flir Molière ist hier die Erforschung seiner unmittelbaren Quellen
voli geriugerem Werthe ; denii jedenfalls hafc er deii vorgef'undeuen Stoff init der
grossten Freiheit behandelt iind zuerst seit Tirso de Molina aus ihm ein originales
Werk geschalFen. Tirso de Moliiia's Burlador de Sevilla y Convidado de piedra ist ein
Gemalde von diisterer Grossartigkeit, der Grundgedanke ein streng religioser. Den
Siinder , den alle Mahnungen iind Verwunschungen nicht von seinem verworfenen
Treiben haben abbringeii kòniien, ereilt plòtzlicli die furchtbare tìtrafe des Himmels.
Die Erscheinniig des Todteu, der verspottet von dem Verwegenen die Raclie voll-
streckt, ist von dem Dichter mit voller Grlanbigkeit dargestellt, sie ist feierlich,
grandios und scliauerlicli. In seiner Art ist Tirso von keinem seiner Naclialimer er-
reicht worden ; er alleili giebt uns den wahrsten , tiefsten Sinn der Sage, und dabei
welche Fiille romantischen Lebens bietet uns sein Drama in dem bunten Wechsel
der Scenen, in dieser bestrickeuden , hochpoètisclien Gestalt des Don Juan mit
seiner uuerschopilicheii Leichtlebigkeit, seiner einsclimeichelnden Verfilhrungskunst,
mit seiner Unersclirockenlieit bis zum letzteii Momente , da er sich verloren
sieht! '
Eine solclie poétische Gestaltung der Tradition war damals nur in Spanien
mòglich, inmitten einer Gesellschaft von starker Glaubigkeit und erregbarer
Phautasie. Uudenkbar war dieser tiefe Ernst in der Auffassung des Gegenstandes
auf der italienischeu Biihne. Hier fehlte der aufrichtige Glaube an die gòttliche
Strafe durch. die Riickkehr eiues Todten, untj es wurde umgekehrt das comische Ele-
ment immer starker ausgebildet, welches ja iu dem spanischen Drama nicht mangeln
durfte, auch im Burlador nicht ganz fehlte, aber doch sehr zuriickgedràngt war. Don
Juaus Diener Catalinon ist ein gracioso von seltener Gesetztheit, nicht eigentlich
possenhaft; er stellt in verniinftiger Weise seinem Herru sein Unrecht vor, warnt
ihn vor Gefahreii und Strafe, thut aber stets willig, was er verlangt. Er ist nicht
eben furchtsam, nur vor dem Geiste hàlt natlirlich sein Muth nicht Stand, und hier
wird auch sein Benehmen ein comisches; es scheint, dass er sich mit seineu
scherzhaften Reden und Fragen iiber den innerlichen Schauder hinweghelfen will.
Diese Figur trat iu den spàteren Bearbeitungen weit mehr iu den Vordergruud,
ward ganz zu dem Bedieuteu der italienischen Comodie mit seiner Dummheit,
seinen bestàndigen Possenreissereien, seiner Feigheit, seiner Gefràssigkeit. In der
italienischen Commedia dell'arte iibten neben Maschinen und Decorationen , welche
die Schaulust befriedigten, nuumehr die Hauptanziehungskraft die Spasse Arlecchi-
no's, seine comische Widerspenstigkeit, sein drolliges Gebahren, wenn er, von sei-
nem Herru gezwuugen , alle seine tollen Streiche initmachen, und wider Willen
Gefahren und Schrecken bestehen muss, seine Moralisationen und die Fusstritte,
' Auch in der Charakteristik des Verfiìhrers ist Tirso de Molina alien seinen Nachalimern iiberlegen. Bewun-
dervmgswiii-dig ist z. B. der von keinem anfgenommene Zug in I, 12, wo Don Juan, eben von seinem Diener aus
dem Meere gezogen, besinnungslos im Soliosse der Fischerin Tisbea liegend, kaum die Angen aufschlagt, und als-
bald mit einer Liebeserklarung beginnt.
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die er dafiir vou seinem Herrn erhalt; die ehedein so furchtbai'e Erscheinung des
Todteu verlor ihre Bedeutung; sie ward nur die Gelegenlieit zu neuen Possen fiir
Arleccliino, dar alle Aiifmerksamkeit von ihr aiif sich lenkte. Dennoch haben die
ersten franzosisohen Bearbeiter des Stoffes Dorimond und De VtlLiers an dem reli-
giòseu Grundgedanken, der Bestrafung des Silnders, mit ziemlicbem Ernste festge-
halten, wie sie ibre Stiicke auch nicht Comòdien, sondern Tragicomòdien nannten.
Dadurch aber entstand eine Zwiespaltigkeit des Eindruckes, welohe sich noch
vermehrte, indem sie die Gestalt des Slinders in immer schwàrzeren Farbeu malten.
Die Impietat Don Juans gegen seinen Vater findet sich bei Tirso de Molina noch
nicht, und nicht bei Cicognini, wo nach Mesnard (p. 23) die Eolie des Vaters ganz
fehlt; anch die Commedia dell'arte kann nicht wohl heftige Sceuen zwischen
Vater und Sohn gehabt haben; denn in ihnen war Arlecchino am Platze, und sie
wàren iiberliefert. Diesen Zug hat also Dorimond hineingebracht, wie denn auch
bei ihm der zweite Titel le fils cnminel zuerst erscheint. Hier geht der Sohn so weit
den Vater zu schlagen,-' und der Alte stirbt aus Kummer, so dass Don Juan zum
Vatermòrder wird. De Villiers hat das noch mehr ilbertrieben; und er macht ihn
immer abscheuUcher; er lasst ihn auf der Biihne einen zweiten Todtschlag begehen,
an Don Philippe. Er ist auch nicht mehr bloss Verfilhrer ; er nimmt sich nicht die
Miihe, die Màdchen mit Worten zu bethòren, sondern fàllt iiber sie her und thut
ihnen Gewalt an. Endlich, um das Mass voli zu machen, verwandelt ihn De Vil-
liers, wie wir sahen, in einen Athe'isten.
Anf diesem Wege, den Dorimond und De Villiers einschlugen, war, abgesehen
von der kunstlerischen Unfàhigkeit der Verfasser, dem Stoffe nichts abzugewinnen,
nachdem ihn die Italiener schon zu sehr in das Comische gezogen hatten. Molière
machte ihn wirklich zur Comòdie. Er konute daher den Heldeu nicht in gemeinen
und verbrecherischen Handlungen darstellen. Er befreit Don Juan nicht von seinen
Missethaten, aber er verlegt sie in die Vergangenheit. Den Comthur hat er bereits
vor sechs Monaten getòdtet; zu dieser Anordnung nòthigte den Dichter freilich
schon die Hegel der Zeiteinheit, wenn Don Juan das Grabmal des Getòdteten
errichtet finden solite; aber der andere Zweck wird zugleich erreicht, und er
behandelt das ganze Ereigniss in einer solchen Weise, dass man erkennt, er woUe
es nicht recht vor unserem Geiste lebendig werden lassen. Es wird nur ganz
flllchtig angedevitet: I, 2, Sganarelle: Et n'ij craignez-vous rien, Monsieur (in dieser
Stadt), de la mort de ce commandeur que vous tudtes il y a six mois'ì Don Juan:
Et pourquoi craindre? Ne l'ai-je pas bien tuéf Sganarelle: Fort bien, le mieux du
monde ^ et il aurait tori de se plaindre. Don Juan: J'ai eu ma grdce de cette affaire.
Sganarelle: Oiii, m,ais cette grdce néteint pan peut-ètre le ressentiment des parents et des
' Nicht, erst bei De Villiers, wie Mahrenholtz ^Arcll. 63, p. 183) behanptet; die Angabe der Olu-feige fehlt
nur im Druoko bei Dorimond an der rechten Stelle; aber Don Jnan giebt sie dooh ; denn Briguelle sagt, lì, 5:
(}ue ne me /croit-iì , s^ìl a hattu aon pere?
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amis, et.... Don Juan: Ah! nallons point songer au mal qui nons petit arrìver.... Und
das ist Alles. Es ist eiue abgethane Greschichte, und Don Juan ist begnadigt; wer
dieser Comthur war, dass er der Vater einer Dame gewesen, welche Don Juan
betriigen -woUte, weshalb und unter welcben Umstanden er ihn todtete, davon
erfàhrt man nichts. Ebenso liegt sein Vergehen gegen Done Elvire schon in der
Vergangenheit; er hat sie bewogen, das Kloster zu verlassen, hat sie geheirathet ,
■wie viale andere, und will nun nichts melir von ihr "wissen; wir sehen also docii
liier weuigsteus nicht, wie er sie betrog. Andererseits, so vielen Mfidchen er nun
nackstellt, mit keiner kommt er an das gewuusclite Ziel, und der raffinirte
Verfiibrer, dem seine Kiinste so schlecbt glùcken, erscheint damit sogar in etwas
seltsamem Lichte. Er will eine Braut bei einer "Wasserfabrt entfiihren und fallt
selbst in das Wasser; er sucht zwei Landmadchen zugleicb zu bethoren; aber die
beiden gerathen an einander, -wollen jede ihre Eechte an ilim geltend macben,
und inzwischen nòthigt ilm eine drohende Gefahr, die Parthie aufzugeben. Liess
3Iolière seinen Helden nie weiter kommen, so that er es freilich schon der
Wohlanstàndigkeit wegen, die er auf der Buhne sorgfàlfciger beobachtete als
Dorimond und De Villiers (auch Eosimond hat wieder eine voUfuhrfce Gewaltthat);
aber immerhin wird dadurch zugleich der Zuschauer von dem Gefiihle des Mitleides
mit den Opfern befreit, da es solche nicht giebt.
Molière zeichnet also die Corruption mehr in dem Charakter als in ihrer un-
mittelbar verderbenbringenden "Wirkung auf die Mitmenschen, welche tragisch
ware. Und sein Don Juan ist nicht die alte- halbphantastische Gestalt der Sage, son-
deni ein Typus der Eealitàt, der Geséllschaft, welche den Dichter umgab. Er ist
ein junger Cavalier des franzòsischen Hofes, ein aristocratischer Wlistling. Den Spa-
nier reisst seine Sinnlichkeit mit sich fort, lasst die Stimme der Vemunft und des
Gewissens nicht laut werden, bis es zu spat ist. Bei Molièx-e's Don Juan ist eine
solche Stimme gar nicht vorhanden; er sucht das Vergnligeu mit kalter Ueberlegtheit,
als den einzigen Inhalt des Lebens, es ist dieses seine Weltanschauuug. Er ist
ohne Glaiibe und Moral; mit geistreichem Spotte geht er llber die ernsten Dingo
hinweg, blickt verachtlich auf die ihn umgebende "Welt, welche er seinen "VViinschen
rùcksichtslos dienstbar macht; die Verfiìhrung ist ihra eine lustige Zerstreuung,
ein Herz bethòrt zu haben, ein Triumph, mit dem er sich briìstet. Dabei besitzt er
die eleganten, gewinnenden Manieren des grossen Herrn, die ritterlichen Eigen-
schaften des Hofmannes; er folgt den Geboten der Ehre, halt sein gegebenes Wort,
soweit er es nicht einer Schonen gegeben hat. Er ist tapfer und unerschrocken ,
ergreift im Kampfe scimeli die Parthei des Unterliegenden , rettet seinem Feinde
das Leben und steht unbewegt, wo sein eigenes bedroht ist. Auch macht Don Carlos'
edies Benehmeu auf ihn Eiudruck , er bedauert mit ihm Streit zu haben. Aber sein
Vergntlgen und seine Freilieit will er nicht opfern ; wo dieso in's Spiel kommen ,
bleibt er hart und kalt; Done Elvire's Vorwilrfe und Bitten erregen nur seinen Spott.
Diese riihrende Gestalt der Betrogenen, welche foi-tfàhrt, ihren Verfùhrer zu
lieben, hat Molière geschaffen. Sie erscheint vor dem Besuche des Geistes, ilm zu
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wameii; sie bereut i;ud will der Welt von neuem Lebewohl sagen; sie zurnt ihm
nicht mehr, mit ihrem letzten Schritte will sie suchen , den Uudankbaren zti retten,
vor der Rache des Himmels zu bewahren. Sganarelle weint, Don Juan bleibt
stumm, hòrt ihre Reden an und bittet sie dann, die Nacbt zu bleiben. Diese ergrei-
fende Scene, ihr Schmerz, ihre Thrànen liaben iu ihm uur eine neiie Eegung der
Sinnlichkeit hervorgebracht; es scheintihm pikant, sie, die er dem Kloster enti;issen
hat, bei ihrer Eùckkehr in dasselbe noch einmal zu gewinnen.
Diese Frivolitàt ist die hervortreteude Seite von Don Juans Charakter ; sie zeigt
sich auch in dem Benehmen gegeu seinen Vater. Eine solclie Rohheit wie der
Don Juan Dorimonds und De Villiers' wird sich derjenige Molière's nicht zu
Schuiden kommen lassen. Er ist hoflich, beleidigt Don Louis nicht mit Worten oder
gar mit Schlagen, aber er verletzt ilin durch seine kiihle Gleichgiiltigkeit und
Ironie. Auf seine lange, ernste und mirdevoUe Mahnrede erwidert er mit dem Er-
suchen, dock einen Stuhl zu nehmen, damit er bequemer sprechen kònne. Ein mo-
ralisches Band existirt eben fiìr Don Juan nicht, der Alte ist ihm iinbequem, und
er wiinscht, dass er ikm Platz niachen mochte.
Auf dieser Frivolitiit bei'uht auch Don Juans Atheismus; er ist kein Philosoph,
kein rasonnirender Freigeist; es ist die Skepsis des vornehmen Herrn, der sich
ùber die Meinungen der Menge erhaben fùhlt ; er glaubt nicht , was er nicht sieht :
Je crois que deux et deux soni quatre, Sganarelle, et que quatre et quatre soni liuit, sagt
er (III, 1), als ihn SganareEe iiber seine religiosen Ansichten befragt. So unverhiillt
war der Athe'ismtis noch nicht auf der Btìline erschienen; De Villiers und spàter
wieder Eosimond, welche Don Juan gleiclifalls blasphemieren liessen, gebrauchten
die Vorsicht, an Stelle Gottes stets von den Gottern und Jupiter reden zu lassen,
und woUten so das Anstossige durch einen albernen Anachronismus beseitigen. Mo-
lière, der die lebendige Realitàt in ihrer Wahrheit darstellt, kann das natiirlich
nicht; immerhin sagt auch sein Don Juan, weun er spottet, nie Dieic, sondern
stets le del; aber das war ein geringes Zugestàndniss fur die Àngstlichen. Die
Scene mit dem Bettler, den Don Juan durch Versprechen eines Goldstnckes vergeb-
lich zum Fluchen veranlassen will (IH, 2), schien so ktihu, dass sie schon nach
der ersten Vorstellung gestrichen wurde, und doch enthielt gerade sie, wie man be-
merkt hat (Augier) , ein erbauliches Beispiel der Tugend , welche gegen den gottlosen
Versucher standhaft bleibt und seine Logik besser zu nichte macht als alle Moral-
predigt. Die ausserste Verhohnung des Glaubens ist die Heuchelei, welche die Re-
ligion nicht bloss mit Geringschàtzung behandelt , sondern sich ihrer selbst als einer
leeren Form, als eines bequemen Deckmantels bedient, um Andere zu tàuscheu.
Molière lasst seinen Don Juan im letzten Akte zum Heitchler werden. Allerdings ver-
stellt er sich momentan auch sonst, bei ihm und in den anderen Bearbeitungen des
Stoifes , zum Spotte oder zu irgend einem bestimmten Zwecke, so namentlich in der
Scene bei Dorimond und De Villiers, wo Don Juan als Eremit verkleidet seinen Gegner
Dom Philippe betriigt, indem er die Miene eines heiligen Manues annimmt. Von hier
mochte, wie Mesnard (p. 19 f.) bemerkt, Molière die Idee gekommen sein, seinen
Dou Juan schliesslich zum Heucliler -werden zu lassen. ' Aber nun iibt er die Kunst
mit Berechnung, als System, und damit greift dar Dichter auf den Gegenstand zu-
riick, -welchen er in seinem vorhergehenden Sttìcke, dem Tartuffe behandelt batte,
und den man ibn verbinderte, auf die Biibne zubringen; er nimmt Raobe an seinen
Feinden und zeigt den Macbtigen , welcbe ibn bekàmpfen , weil sie sich von seiner
Satire getroffen fiiblen, ibr Bild von- neuem in einer anderen Gestalt; Don Juan
■\vird zum Tartuffe im Gewande des galanten Cavaliers. Und es ist ein Tartuffe , der
vor den Augen der Zuscbaner selbst die Maske anlegt und seine Grundsatze
entwickelt. Der Athe'ist, der es bisber offen war, fast mit seinem Unglauben prablte,
fròmmelt nini, verdreht die Augen, stellt sicb im Gespracbe mit seinem Yater reuig
und bekebrt, so dass dieser Gott mit Tbrànen fitr die Umwandlung dankt. Er
tbut jetzt seine Scblecbtigkeiten im Namen des Himmels, den er bestàndig im Munde
fiibrt; im Namen des Himmels verweigert er es Don Carlos, ilim Genugtbuung zu
geben und Done Elvire zu beiratben. Der gute Sganarelle ist ganz erstaunt und
giiicklicb , als er die beilsame Verauderung an seinem Herrn wabrnimmt, aber dieser
klàrt ibn auf; es ist nur Scbein; er bat sicb der berrscbenden Mode anbequemt:
l'hypocrisie est un vice à la mode, et tous les vices à la mode jjassent pour vertus.... l'iiypo-
crisie est un vice privile'gié, qui, de sa main, ferme la boucJie à tout le monde, et jouit en
repos d'une impunite souveraine.... Diesen letzten Zug zur Vollendung seiner Figur
bat Molière mit ganz besonderem Nacbdrucke ausgefiibrt, weil er hier das grosste
sociale Uebel seiner Zeit berùhrte.
Indessen, so wenig wie die Kunst seiner Verfiibrung bat die von Don Juans
Heucbelei verderblicbe Folgen vor den Augen der Zuscbaner; so kommt es, dass
die Gestalt keinen Abscbeu liervorruft. Die Scene mit Done Elvire im 4. Akte
erweckt -wobl voriibergebend ludignation; aber dieser eine ti'agiscbe Moment ver-
mag niclit die Stimmung des Ganzen zu verandern. Don Juan ist sittenlos, las-
terbaft, aber nicbt rob nodi gemein. Und andererseits erregt diese Personlicbkeit
Bewunderung, diese Gewandtbeit, die intellektuelle Kraft und Ueberlegenbeit , wel-
cbe die Menscben in seinen Kreis bannt, die stolze Sicberbeit seiner selbst. Er ver-
einigt die Gorruption und die glanzenden Eigenscbaften des damaligen franzòsi-
scben Edelmannes in seiner Person. Daber war aucb die Farcbtbarkeit der Strafe
bier nicbt mebr am Platze. Molière konnte die Sage vom steinernen Gaste nicbt
andern; aber er bat der Erscbeinung ibre grandiose Ernstbaftigkeit genom-
men. Bei Tirso de Mobna ist der Geist feierlicb und grauenvoll ; wabrend
Don Juans Gastmabl spricbt er fast gar nicbt, bewegt nur das Haupt ; mit ibm al-
lein geblieben redet er wenige "Worte; bei Don Juans Besucbe im Gral^mal ist
Alles, was er siebt und bort, voli von Scbrecknissen. Bei Dorimond und De Vil-
' Dass bei Molière Don Juan von Anfang an Heuchlsr sei, wie Mahvenholtz beweisen will (Molière in Frz.
Stud. n, p. 179 f.), ist nicht wahr. Es geht ja gerade gegen die Absicht Molière's, der hier eine Wandiung, eine wei-
tere Steigerung der Corraption zeigen will. Wie kònnten sonst Dom Louis und Sganarelle iiber die Veranderung
staunen? Mahrenboltz liat eben nur Ironie imd Heucbelei verwecbselt ; die erstere baben wir in I, 3. Mit M. Di-
mancbe heuebelt Don Juan nicbt, sondern bat ibn zum Besten.
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liers wircl der Todte in beiden Begeguungeu zum seichten Scliwàtzer und Moral-
prediger. Bei Molière kommt und verschwindet er schnell; kaum eingetreten,
geht er wieder, inderà er Don Juan zu sicli einladet; in seineni Grabmal liaben
wir nichts von den Schauern des infernalisclien Banketts; er fasst Don Juan
bei der Hand, und der Blitz vernichtet denselben. Und diese rapide Erscheinung
wird wirkungslos, weil sie nicht vorbereitet und mangelkaft motivirt ist, mit dem
Charakter des Stilckes in keiner Beziekuug stelit; der Tod des Comthurs liegt ja
ver der Handlung desselben, und von ikm ist kaum die Eede gewesen; so endet
denn auck das Ganze mit den Possen Sgaiiarelle's , wie bei den Italienern , und der
Eest von Ernst, wenn er vorhanden sein solite, wird noch zerstòrt. Eockemout, in
seinem Pampklete gegen das Stiìck, klagte daker Molière au, er kabe den Siiuder
okne Strafe gelassen , weil diesen Blitz niemand ernst nekme. Aber \àelen Anderen
sckien gerade die Strafe nock viel zu kart: Il devoit du moins, sagt die « Lettre sur
les observations d'une comédie du sieur de Molière » (bei Mesnard, p. 246), attirer
le foiidre par ce peu de jj^roles^ c'ctoit une nécessité absolue. Et la moitié de Paris a douté
quii le méritdt: ce ììest jjoint un conte, e est une vérité manifeste et connue de bien des
gens. Das Bòse war eben bei Don Juan mekr in der Gesinnung; etwas eigentlick-
Verbreckerisckes katte er im Laufe des Stiickes kaum getkan; Skepsis, Liebelei,
moraliscke Kàlte und Gleickgiiltigkeit sckienen dem damaligen Publikum nickt
ein tragisckes Ende zu verdienen. War aus Don Juan eiu Comòdienckarakter
geworden, wie es liier gesckak, so musste dieser aus der Tradition beibekaltene
Sckluss moglickst fliicktig bekandelt werdeu.
Sowie die Gestalt Don Juans so ist auck seine Umgebung bei Mokère dem
wirklickeu Leben entnommen. Sganarelle ist ein gutmiitkiger, furcktsamer, gegen
seinen despotiscken Herrn unterwiirfiger Burscke, wenlger possenkaft als bei den
Italienern und wieder dem Catalinon naker stekend. Er kat einen besckrankten ,
ekrlicken Verstand, die einfàltige Glaubigkeit des Volkes, welcke zum Aberglauben
neigt; immer von neuem suckt er Don Juan zu warnen, kàlt ikm erbaulicke Reden,
kat aber mit seinen sckwerfalligen Eàsonnements bei dem Spòtter wenig Gliick,
weskalb er einlenkt, sobald er merkt, dass es jenem zu viel wird, und ikm zu Munde
redet. Sein aufricktiger Eifer fiir das Gute liegt in einem bestàndigen comiscken
Coniìikte mit seiner Furclit und Gewinnsuckt. Die Sacke des Glaubens und der
Tugend kat kier keinen Cleante zum Vertkeidiger, sondern ist gerade durck die
comisckè Person vertreten. Molière's Gegner mackten ikm das zum Vorwurfe, und
sie wllrden freilick Eeckt kaben, wenn die Comodie immer nur moralisiren solite,
und es ikr nickt, auck fiir unsere Belekrung, geniigte, die "Wirklickkeit widerzu-
spiegeln, die Dinge zu sckildern, wie sie sind.
Dio Landleute waren in dem Stiìcke stets in idealer Verkleidiing aufgetreten.
Tirso's Tisbea und Aminta , mogen sie mit ikren rkotoriscken Umsckweifen weuig
ikrem Stando gemass sprecken, sind dock bei alle dem voli Zartkeit i^nd Innigkeit.
Tisbea's Worte : Piega a Dios que no mintais , mit denen sie aknungsvoU jede ikrer
Reden zu Don Juan sckliesst, Aminta's Striiuben und Zaudern, bis Don Juan
— 69 —
schwijrt, ^\-irken wJihrhaft ergreifend, da man ihr Scliicksal vorhersieht. Es sind
keiue Landmadcheu, aber dock poetische Figuren. Dorimond und DeVilliers habeii
aus ihnen triviale Eclogengestalten gemacht. Molière dagegen zeigt iiiis wirkKche
Bauern und Bauerinnen, in ihrem tappischen Gebahren, mit der Na'ivetat ikrer
Empfindungsweise, und er lasst sie ikre eigene Spracke reden, das Patois der Land-
lente in der Gegend von Paris. Es war das erste Mal, dasis er den Dialekt auf die
Biikne brackte, nackdem ikni kierin Cyrano de Bergerac mit seinem Gareau im Féclant
joué vorangegangeu war.
Eine der alltaglicken Wirklickkeit entleknte Gestalt kaben wir endlich auck
in M. Dimancke, dem Gliiubiger Don Juans. Es ist der Pariser Kaufmann, der
dem vornekmen Herrn Geld gelieken kat, und vergeblick sick bemiikt, es wieder-
zuerlangeu. Der vornekme Herr, anstatt ikn zu bezaklen, liebkost und kàtsckelt ikn,
versickert ikn leutselig seiner Preundsckaft , erkundigt sick nack seiner Frau , sei-
nen Kindern und seinem Hunde, ladet ikn zum Essen ein, und lasst ikn zuletzt
kinausbegleiten, okne dass er sein Anliegen vorbringen konnte, eine Scene voli
Humor und frisckem Leben, in welcker wirkungsvoll die Figur des uberlegenen
Aristocraten dem verlegenen und unbekolfenen Biirger gegeniiber gestellt ist.
Der Eealismus dieses Stiicks wird auck vermekrt durck die Form; es ist, was
damals fiir eine so umfangreicke Comòdie nock eine Seltenkeit war, in Prosa
gesckrieben. Molière bediente sick der letzteren zunackst vielleickt aus File, um
den beliebten Stoif scknell auf die Bùline zu bringen; aber scine Darstellung kat
dadurck nur gewonnen, erkàlt einen freieren, ungezwungeneren Gang.
So finden wir am Anfangs- und Endpunkte dieser rapiden Entwickelung zwei
Meisterwerke , welcke geradezu einen Gegensatz mit einander bilden. Das spaniscke
Stiick zeigt den Stoff in seiner sagenkaften , pkantastiscken Grosse , Molière ver-
wandelte ikn in ein realistisckes Gemalde, zu welckem er die Farben aus der gleick-
zeitigen franzosiscken Gesellsckaft nakm, und driìngte daker das dort so bedeutende
pkantastiscke Element ganz in den Hintergrund. Scliou deskalb war aber das Stiick
geeignet, in seiner Zeit mekr zu verletzen; bei Dorimond und De Villiers feklte
alle Beziekung zum Leben; bei Molière fiìklte man sick, wie gewoknlick, gleick
zur Nutzanwenduug getriebeu.
A. Gaspaey.
ETYMOLOGISCHES.
BCTOB
hat schon altfranzosisch aicht anders gelautet als beute; sein o war immer ein
offenes, was nicht allein aus dem Umstande sicli ergiebt, dass kein eu oder ou dafur
eingetreten ist, sondern durcli haiifige Reime erwiesen werden kann, die keinem
Zweifel Eaum lassen: butor und das flektierfce butors mit escu d'or, Cleom. 11306,
mit l'eure de lors, Barb. u. M. IV 429, 80, mit plus reluisans que ors, Venus 211 d.
Aucli das d des spat abgeleiteten butorderie darf beziiglich der G-estalt des
Stammwortes nicht irre machen; es ist dem Stamm angefiigt untar der Einwir-
kung des Bestehens von border, abordev, accorder, nordique u. dgl. neben bord,
abord, accord , nord mit beute unter alien Umstàuden verstummendem d, ein
Vorgang, auf den uacb A. Darmesteter, création de mots nouv. 73 und E. "Weber
im Anliang seiner Dissertation iiber den Gebraucb von devoir, laissier 35 bier ein-
zutreten nicbt uot tbut. Aus alterer Zeit ist eine Nebenform zu verzeicbnen; wir
kennen sie aus dem Bon Berger des Jeban de Brie (gegen das Ende des 14.
Jabrbunderts) , woselbst S. 52 des Neudrucks von 1879 man liest: ung aidtre oyseau
y a, quq Von nomine hutor; aidcuns Vappellent bbuitob. Namensformen aus beutigeii
Mundarten stellt Eugène EoUand, Faune populaire de la Franco, II 376 zusam-
men; von diesen mag siidfranzosiscb bitor mit butor nocb geradezu eins sein,
wS brand von buor, bior, buard, bitar nicbt mebr dasselbe geltan kann, aucb nprov.
bruitier bocbstens nocb als verwandt in Betracbt kommen darf.
Ist bruitor die urspriinglicbe Form, wemi sie gleicb aus etwas spaterer Zeit
zum ersten Male nacbweislicb ist als butor, so wird man das Wort als ein Compo-
situm mit der Badeutung « Larmstier » zu batracbten das Eecbt babau. Es mirde
zu dar klainen Grruppe franzosiscber Zusammensetzungen gebòren, von der
A. Darmesteters Bucb libar dia franzòsiscban Composita S. 162 und 198 bandelt,
in welcber das erste Elemant Imperativ, das zwaite Vokativ ist, oder, um es vor-
sicbtiger auszudriicken, das an zw eiter Stelle befindlicbe Nomen durcb den vorge-
setzten Stamm eines (cbaraktaristiscbes Tbun bezeicbnanden) Verbums eine nàbere
Bestimmung erfàbrt (z. B. caucliemar, grlppe-minaud, bSche-Lisette). Es kònnta das r
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der ersten Silbe iufolge Dissimilation geschwuuden sein, wie bei freilich uicbfc
gleicben Verbaltnissen in afz. penre neben jprenre^ querrai neben crerrai, gaindres
Joìifroi 537 nehen fjrahuh'es (und graindes) , faindre Joufroi 3045, Aliscans 8 und 243
neben fraindre, in ufz. titre neben afz. fristm, in Pipriac aus Prisperiaca (Quicberat,
Noms de lieu 36). xd ware in der tonlosen Silbe zu u geworden, wie in charcutier,
lutter, lutin, citrée ; es batte auch i wei'den konnen, wie in lamhrisser aus lamhruissier ,
hignet aus huignet (s. axicb A. Fucbs, unregelm. Zeitworter S. 325 iiber ì fvir xd in
der Pariser Mundart). Die Benennung des Vogels als « Larmstiers » endlich kann
bei der grossen Zahl gleickbedeutender Namen, die er aixsserbalb Frankreicks erbal-
ten bat, nickt befremden (zu den bei EoUand gesammelten filgt mir Sckott un-
griscb bolonibika, d. h. « Briillocbse » biuzu).
Immerkin wiirde sick auck eine andere Deutung fiir den ersten Teil des Compo-
situms denken lassen; man konnte das sonst im Altfranzosiscken nickt nackweisbare
bruì oder èrit, das Stammwort zu bmyère, darin erkennen woUen, namentlick mit
Riicksickt darauf, dass andere Benennungen des Vogels ilm als einen das Ried, den
Sumpf, das Rokr bewoknenden Stier bezeicknen (boeuf d'emi, de marais, taureau
d'étang bei Rolland, deutsok Moskuk, Mosstier, Lorind bei L. Tobler in der Zts.
f. Volkerpsyckologie XIV 75); indessen sind dock Haidekraut und Rokr zweierlei,
und Zusammensetzungen substantiviscker Elemente in dem syntaktiscken Verkalt-
nisse das kier anzunekmen ware, sind im Franzòsiscken, wenn nickt ganz uuerkort,
dock selten ; s. A. Darmesteter, Mots comp. S. 137. Beiden Erklarungen stekt
entgegen, dass die Art der Dissimilation, die man anznnekmen kàtte, nickt vorzukom-
men sckeint, und dass viel leickter ein Ubergang von einem teilweise dunkeln
butor zu einem verstandlickeren bridtor denkbar ist als der umgekekrte. Erinnern
vnx uns denn, dass die Stimmen des bMlo, wie der lateiniscke Name des butor
lautet, batìre (oder bubiré) genannt wird in der Elegie de Pìdlomela: Liqiie pcdiuUferls
bidio buUt aquis, s. Wackernagel, Voces varise anim. S. 57. Eker als eins der zuvor in
Betrackt gezogenen wird dieses Wort seineu Stamm als ersten Teil der Zusam-
mensetzuug in Anspruck zu nekmen kabeu.
Einen Entsckeid wage ick gleickwokl nickt; ein sizilianisckes buturnu, das Rol-
land anfilkrt , kommt kinzu um die Sckwierigkeit zu mekren ; aber ^vi6 ware es mit
dem altfranzosiscken butov zu vereinigen ?
PlAPFER
sckeint mir filr "pleffer zu steken, nud dieses kalte ick ftlr eine Ableitung von "pief^
einer Nebenform von pied oder besser pné, zu der es sick verkalt wie fieffer zu fief,
fié, oder wenn Grober, Zts. f. rom. Pkil. II 459 im Reckte sein solite, was ick mit
Varnkagen, Anzeiger f. deutsckes Alter tum IX 179 bezweifle, fiir gewonnen aus
pie seit der Zeit, da fié ein fi(\ffer neben sick katte. Die volkstumlicke Ausspracke
des e in gescklossener Silbe als a ist bekannt ; da es sick kier nm ein erst ziemlick
spilt auftretendes Wort kandelt, mag es genilgeu auf Tkurot, Pronouc. frano. I 22
— 73 —
zu verweisen. Littré's Bedenken gegen eine Herleittinfv von pieci sind mir nicht
recht verstàndlich. Ist sie richtig, so hat man freilich piaffe al.s aus l'i'iffcr gewon-
nen zu befcracliten, nicht umgekehrt.
Forra it.
(mit gesclilossenem o) « enge Schlucht, Spalto zwisclieu Bero-liohen « scheint eins
mit « Furre » f., einer nicht bloss schweizerischen Nebenform von « Furche, » von
welcher das Grimm'sche Worterbuch IV la 788 handelt.
Recrue ,
im Franzosischen, wie es nach den Worterbitchern scheint, noch immer, wenn
gleich nicht einzig, abstrakt (Bezeichnung des Ergebnisses einer Handlung), so-
dann auch konkret (das dadurch Herbeigesehafffce) , aber kollektiv, im Spanischen
{recluta aus recrue mit Dissimilation der beiden r und mit t im Anschluss an das
franzòsische Verbum) ausserdem (und dann mannlich) und im Italienischen (hier
immer weiblich) Bezeichnung des Individitums , das neu ausgehoben ist, kann man
nicht anders denn als Partizipialbildung von recroistre erklàren wollen. Dieses ist
in Verwendungen , die dem Sinue des Substautivs (Nachwuchg, Nachschub) entspre-
chen, leicht nachzuweisen, intransitivi Vendemain recrurent d'ime rote de serjanz a
cheval, Villehard. 351, transitivi Nostre sires, qui tout donna, Li (dem Freigebigen)
recroìst les biens eii ses mains, Baudouin de Condé 239, 197; un hon espreveteur, en la
saison, recroìst d'espreveterie neiif chiens et trois clievaidx, se il veidt hien continuer et faire
san devoir au viestier, Ménagier II 280. Das Substantivum recr'èue ist mir in entspre-
chendem Sinne im Altfranzòsischen nicht begegnet. Oder solite es in dem nicht
selten anftretenden Ausdruck corner la recr'èue « zum Riickzug blasen » (Rom. de
Troie 15622; eb. 18317, wo come statt tome stehen mtiss; eb. 18347; Gaydon 74:
Rom. d'Alix. 103, 25; Jean de Journi 2395; Rutebeuf II 59; Jubinal, Nouv.
Ree. II 26) doch vorliegen, der ursprungliche Sinn « um Zuzug, Nachschub bla-
sen » gewesen sein una nur infolge des Umstandes eine Verdunkelung und Wan-
delung erfahren haben, dass, wer den Kampf oline Hilfe fortzufahren sioh aus-
ser Stando erklàrt, ein recriiu (von recroire) ist? Dies ist mir deswegen nicht
unwahrscheinlich, weil mir eine Bildung recreue mit dem Sinne « Waffenstrecken »
von- recroire mit dem sonstigen Verfahren der Sprache nicht iibereinstimmend
vorkommt, welche in diesem Sinne eher eine Ableitung vom Participium des
Priisens wird eintreten lassen (vgi. Ce li samhleroit ijrant vitance , 'S'on li fait faire
recreance, Lyon. Ysop. 236).
Von dem Substantivum recrue hat man, in spaterer Zeit, wie sich aus den bei
Littró beigebrachten SteUen ergiebt, das Verbum recruter abgeleitet, welches be-
deutet « durch Nachschub vollzàlilig erhalten » oder « zu einem Nachschub anwer-
ben ». Das hinzugekommene t ist keinesfalls das ursprungliche partizipiale, das
10
— li —
ini Siibstantiv regelrecht geschwmiden ist, sonderà das namliclie imorganische,
das in glulkr Vogelleinabaum, tissutier Bandweber, nach E. Weber a. a. 0. 36 in
tutoìjer imd nacli Darmesteter a. a. 0. 73 in zalilreiohen andern Wortern zwischen
vokalischen Aiislavit des Stammwortes und vokalischen Anlaut des Suffixes ge-
treten ist, nicht einfach hiatustilgeud, sondern infolge des Umstandes, dass Worter
niit etymologiscli gereclitferfcigtem , aber im Auslant verstummtem t Derivata oder
sonst nachstverwandte Worter mit lautem t neben sich haben, wie déhid deluder,
fiìtf'utaille, inst'dut iìistìtuteur , rehid rehider, scdut xahdaire, tribid tribidaire.
Daraiif ziiriickztikommen war vielleiclit niobt notwendig, nachdem altere Ety-
mologen das Richtige in der Haiiptsaclie bereits gesagt hatten; jedoch auch nicht
ganz iiberfliissig, seit G. Paris im Jahrbixch fiir romanische und englische Litera-
tur XI 157, einen Gredanken Carpentiers (bei Du Gange unter reclutare) aufneb-
mend, recnder mit dem alten , durch Mussafia Zts. f. rom. Pliil. Ili 604 aneli bei
Chardri hergestellten rechder « flioken » fiir eins erklart und einer kleinen Familie
zugewiesen hat, mit der es dodi sohwerlich etwas zu tliun liat. Dass spaniseli re-
didar und italienisoli reclutare Freradworter (dieses wolil aus dem Spanisclien, jenes
aus dem Franzosiscben geborgt) sind, wie ibre Vereiuzelung in den beiden Spra-
chen, ilir spates Auftreten und ihr Lautbestand zeigen; dass der Ùbertritfc vou
recr... in recl... im Spanisclien weit leiehter zu begreifen ist, als der von recl... in
recr... es im Franzosiscben sein wiirde; dass recnder von recrue zu trenneu bei der
Bescbaffenlieit der Bedeutungen niclit angelit , sclieiut mir der Gelelirte , dem wir
so manche vortreffliche und sofort einleuchtende Etyniologie verdanken, vor drei-
zelin Jahren nicht liinlauglicli erwogen zu liaben.
AVERTIN
« Tauniol; Drehkranklieit der Schafe » sebo icli nirgends anders, denn als Ablei-
tung von avertere gedeutet. Aber dieses Verbum kennt das Franzòsische nicht; sein
avertir ist advertere, dessen Bedeutung widerstrebt; und von lat. avertere giebt
es keine Ableitung, die nach Form und Sinn Grundlage von avertin sein kònnte.
— Vertiginem gab vertin wie ccdiginem chal'm (s. dieses bei Godefroy, dessen letzte
Belegstelle aber nicht hieher gehort); das a von avertin balte icli fiir das des wei-
bUchen Artikels, welches falschlich zum Nomen zu ziehn um so naher lag, als
der Ausgang desselben zu mannlichem Gebrauch veiieiten musste (wie denn auch
fiir chalin sich nur maunliclies Geschleclit nacbweisen làsst); also l' avertin fiir la
vertin. Die Form oline a gewàhrt ubrigens der Vocab. duac. 184b vertigo: vier-
tins, ferner Beaumanoir 61,6, und im Codex Digby 86 Blatt 21r. hat Stengel o
le vert'UH del chef gelesen. Andererseits fiiidet sicli esvertin, Auc. u. Nicol. 11, 18
und Suchier dazu, Percev. VI S. 197, mit der haufigen Vertauschung des anlau-
tenden a mit es. Der hier angenommene Irrtum des sprechenden Volkes ist die
genaue Umkehr desjenigen, durch den it. l'avversiere zu la versiera geworden ist,
oder dessen, der dem Dichter des Gaufrey moglich gemacht hat S. 73 zu sagen
— 75 —
Vous m cretis en li ne en s'avenement (odor sa uenementf) ' von anderen Anomalien
gai- nicht zu reden, die der enge Zusammenhang zwischen Artikel und Nomen
herbeigefiihrt liat. ' Schliesslick sei bemerkt, dass ich geneigt bin das prov. hatùje^
das Eaynouard zu kiilm unter batre gestellt und mit battenient iibersetzt hat,
worin ilim Diez, Bartscli uud Honnorat gefolgt sind (Grammatik II 317 und Chrest.
prov. seit der ersten Ausgabe) fllr oins mit vertige zu lialteu oder es mit diesem
zu vertausclien, bis batige sicli an einer zweiten Stelle findet.
GrERLA it.
liat Diez oline Zweifel richtig auf gerida zuriickgefuhrt und mit altfranzosiscli jarle
(bei Barbazan und Méon III 16, 81 oder Montaiglon I 196) als eins betraclitet,
obschon die Bedeutungen ziemlich stark auseinander gehn, das itali enische Wort
den auf dem Riicken zu tragenden Korb aus Stàben, das altfranzosisohe aller
"Wahrsckeinliclikeit nacli einen Zuber bezeiclmet. (gema, das Canello im Arch.
glott. Ili 349 als allotrop zu jenem anflilirt, weist eine dritte Bedeutung auf.)
Neufranzòsiscb. gerlon, Zuber des Papiermlillers , war als drittes Glied der G-ruppe
einzuverleiben. Aber gehòrt nicht aucli jale Mulde, afz. jalle, das Diez davon
sclieidet, hieher? Das doppelte l sichern die Eeime, mit Challes d. h. Charles
bei Guill. Guiart II 5487, mit palle d. h. parie im Girart de Eossillon 234, mit
espalle und Charles bei Etienne de Foug. 861, iind die Bedeutung stimmt durch-
aus. Die Form jaille, welche Diez nacli Du Gange anfiihrt, ist zwar bei Guiart,
dem dieser sie entnimmt, nicht zu finden (die Stelle ist die eben zitierte), da-
gegeu trifft man sie in dem durch K. Hofmann auszugsweise fcekannten Pa-
riser Glossar 7692 Zeile 473 als eine der Ùbersetzungen von lagena. Ist sie
fehlerlos, so muss sie von jalle getrennt werden, wie Diez schon gesagt h.a,t. jalon
hat zu oft galon neben sich, als dass ich mir getraute es zu einem Etymon mit gè
im Anlaut zu-stellen, und jaloi , jaloie (zu denen es Nebeuformen mit g gleichfalls
giebt) sind nm ihres Ausgangs willen, der das bekaunte franzosische Suffix doch
nicht sein kann, zu trennen (s. ùber sie Hildebrand im Deutschen Wòrterbuch
unter « Gelte, » Sp. 3065). Nooh weniger darf afz. geurle mit it. gerla verkniipft
werden. Die einzige von Diez angefiihrte Stelle sichert die Bedeutung « Geldbeutel, »
und viele andre (s. das Glossar zum Auberi unter gourlel und P. Meyer zu Guil-
laume le Marechal 6792) zeigen, dass dem "Worte im Stamm geschlossenes o
Dagegen ist mvoir im Théatre fr?. au. m. à. 70 nicht in a'avoir zu zerlegen, sondern heisst « Wissen. <•
' Beilaufig sei hier erwiihnt, dass afz. ningremance (aus necromdntia mit der bekannten Einsohaltung von
M vor Gutturalis) durch Dissimilation zunachst linr/remance geworden ist, xind dieses seinen Anlaut deswegen
verloren hat. weil er als Artikel .lufgefasst werdeu konnte. Dio neben den haufig begegnenden Formen ningve.-
mance und ingremance seltener aufretende Ihigremance trifft man z. B. in dem Dit de Luqne, Romania Xn 225
Z. 51, WG Raynaud besser gethan haben wiirde za schreiben Qui savoicnt de, lingromauce (statt de l'ingr.), da in
der Redensart savoir d'aucune rien der Name der Kunst ohne Artilcel zu stehen pflegt: mvoir de clergie, de
mecìne, de latin, d'eschts u. dgl.
— 76 —
zukommt; Meyer sielit darin das dentsclie « Gùrtel » (Romania XI 60), was durcli
die Angabe li (jourliers: der gurdelmaker des romauisch-ilàmischen Grespràchbiicli-
leins nalie gelegt wird. Auch hier haben wir uebeu den Foruien mit ri solche
uiit II; Carpentier belegt gidle aus einer Urkunde des 14. Jalu-liunderts und giebt
damit das Mittel die Glosse gubles zu marsupia des Joliannes de Garlandia im
Jahrbuch f. rom. ii.engl. Litt. VI '294 zu berichtigen. Was aber ist von gueille zu
halteu, das sidier in gleiclier Bedeiitung im Cliaroi de Nymes zweimal steht, Z. 1025
und 1222?
Adolf Tobler.
LES SERMENT8 DE STRASBOURG.
(INTRODUCTION A UN COMMENTAIRE GRAMMATICAL.)
Les célèbres formules d'engagement réciproque, prononcées en roman et en
allemand, le 14 février 842, à Strasbourg, par Charles de France, Louis d'AUe-
magne et leurs principaux fidèles, sont, dans leiir partie romane, les plus anciens
textes fraucais qui nous aient été conservés. Les glossaires du VIP et du VIIP
siècle où des mots grecs, allemands et latins sont interprétés par des termes d'une
latinité souvent très vulgaire ne présentent encore le cachet marquó d'aucun
dialecte; les mots romans du giossaire de Cassel n'appartiennent probablement pas
au domaine francais. Rien ne prouve sans doute que les formules de 842 soient le
premier texte francais qu'on ait écrit; il est au contraire très vraisemblable qu'à
la suite des prescriptions qui ordonnaient, depuis 813, de traduire « en langue
romane rustique » les homélies du dimanche, plus d'un prétre a aidé sa mémoire
par l'écriture ; il est à croire aussi que la fantaisie de noter quelqne chanson, quelqiie
récit, quelque souvenir dans la langue des laiques sera venne à plus d'un clero;
mais aucun de ces essais n'est arrivé jusqu'à nous, et cela se comprend facilement:
tracés sur des pages volantes, sur des bouts de ce parchemin précieux qu'on
ménageait trop pom- en employer de bonnes feuilles à desfutilités, le plus souvent
sur ces tablettes ciróes qui servirent pendant tout le moyen àge à écrire ce qu'on
ne tenait pas à conserver longtemps, ils ont dù étre dótruits de bonne heure, et
n'avaient aucune chance de traverser les àges. Le fragment d'homélie sur Jonas,
du X<^ siècle, conserve à Valenciennes n'a subsisté que parce qu'on a très ancienne-
ment applique sur le plat d'une reliure la page où il était note ; les deux poèmes
de Clermont au XI«, le fragment d'imitation du Canti que des Cantiques au com-
mencement du XII'', ont été transcrits sur les blancs de manuscrits plus importants
Ce fragment, écrit il y a plusieurs amiées, fait partie du commentaire , non aohevé, qui doit accompagner
l'album héliograpliique des plus anciens monumentsde la langue fran^aise, pnblié par la Société des anciens textes
frangais. Depuia qu'il a été redige ont paru les éditions des Serments de MM. Kosohwitz {1879, 1880, 1884) et Stengel
(ISSI); je m'y suis rèfèré dans les notes paléographiques sui- le texte, après avoir ajtentivement collationné le
— 78 —
aux yeux des contemporains, et noiis sont parvenus gràce à cette iucorporation. Dès
le X^ cependaut ou toiit au moins dès le XP siècle, on a sans doute cousacré à des
ouvrages franeais des manuscrits entiers, mais ils ont disparu parca quo la langue,
rapidement vieillie, en est devenue inintelligible aux àges siiivants; on en a alors
renouvelé la forme eu les copiant ou ou a cesse de s'y intéresser, et dans les deux
cas on les a laissés se perdre. Si l'auteur de l'oeuvi'e historique où sont insérées les
formules de Strasbourg avait en l'idée, d'ailleurs à peu près inconcevable à son
epoque, d'écrire tout son livre en franeais, ce livre ne serait bien probablement pas
venu jusqu'à nous. Il s'en est peu fallu d'ailleurs que, me me écrit en latin, ce pré-
cieux ouvrage se perdìt; un seul manuscrit l'a conserve, manuscrit malheureusement
bien postérieur à la rédaction de l'oeuvre. C'est de ce manuscrit que nous devons
parler avant d'aborder l'étude du texte en lui-mème.
Les formules de Strasbourg ont été insérées par Nithard au livre III de l'ou^T:age
en quatre livres qu'il a consacré à l'histoire de son temps; le manuscrit unique qui
contieni cet ouvrage appartenait anciennement aux religieux de Saint-Magloire , '
transférés depuis 1572 dans un couvent situé près de Saint- Jacques du Haut Pas.
Ce fut sans doute alors qu'ils vendirent leurs livres; le uotre paraìt avoir appartenu
quelque temps ensuite à Claude Fauchet, à en juger par ce qu'en dit Bodin." Il passa
dans la bibliothèque de Paul Petau , et les livres des Petau ayant été acquis en
grande partie, en 1650, par Is. Voss, pour Christine de Suède, il fut transféré à
Rome en 1658 et acheté aux hóritiers de la Reine en 1690 par Alexandre Vili,
avec tonte sa coUection de manuscrits. Il resta au Vatican jusqu'au temps de
Napoléon, qui le fit transporter à Paris; mais quand, en 1815, on voulut le re-
prendre à la Bibliothèque Royale, il ne se retrouva pas. La tradition de la Bi-
bliothèque est que le manuscrit était alors prète au dehors, et il est eu effet
très probable qu'il se tronvait entre les mains de Mourcin. En effet ce savant,
dans l'édition des Serments de Strasbourg qu'il donna en cette méme année, de-
signo le manuscrit, d'après lequel il fit soigneusement revoir le fac-similé emprunté
par lui à Roquefort, comme se trouvant à la Bibliothèque du Eoi sous le n" 1964
(en réalité il avait gardé le chiffre 1964 de la BibUothèque du Vatican), et d'au-
tre part il remercie (p. Ili) les conservateurs de la Bibliothèque du Eoi, qui ont
bien voulu lui coniier les ouvrages dont il avait besoin pour son travail. Le ma-
nuscrit reviùt bientot sur les rayons de la Bibliothèque, mais on jugea sans
doute dangereux d'y signaler sa préscnce: en 1828, quand Pertz voulut publier
' Voy. L. Delisle , Le Cabinet des Manmcrits, t. HI, p. 266.
' « Loilys jur.a le premier en langue Romande les parolles qui 8'en.suiuent, quo M. le presidont Fiiuchct,
homme bien ontendu et mesmement en nos antiquitez, m'a monstree (sic) en Guytard (sjc) historion et Prinee du
.sang. > Lo cliapitre VI du livre V de la Rlpuhliqnc do Bodin, où se trouve ce passago^n'est pas dans la première
édition (1577); jo n'ai pas vn la secondo, qui est do 157S; notro passage se lit à la i>. 605 de la troisicme, également
de 1578, et à la p. 8:21 do la quatrième (1580). Il est k romarquor quo Fauchet, qui résumé tout lo livre de Nitliard et
imprime les Sermonts {(Eiwrea, od. 1610, fol. :JTO ìj), no dit rien du manuscrit; mais son toste ne proviont ni de Bodin
ni de Pitliou; il présente les fautes les plus étrangos: citous seulomont scìwvnrt:: pour salvament.
— 79 —
Nithard dans les Monumenta Germaniae, Guérard lui communiqua ime collation
faite, assurait-il, sous l'Empire, par un paléographe dont il garantissait l'exactitude,
mais dout il ignorait le nom; Pertz ajoute qua le manuscrit, rendu au Vatican, u'a
pu y étre retrouvó. Encore en 1853 Clievallet avait recours à de semblables pré-
cautions: « J'ai fait l'aire, dit-il, il y a plusieurs annés, avec grand soin, un /ac-smt7e
des Serments , d'après un manuscrit de Nithard provenant de la Bibliotlièque
du Vatican , apportò de Eome pendant nos guerres de l'Empire et depose à la Bi-
bliotlièque Nationale Depids lors ce manuscrit est retourné à Rome et doit
avoir éte reintegre dans la Bibliothèque du Vatican. ' » Cependant dès 1838 Gué-
rard avait montré le manuscrit à Pertz. En 18G3 M. L. Delisle l'enregistra publi-
quement sous le n. 9768 du fonds latin, qu'il porte encore, dans le premier des In-
ventaires des manuscrits latins non compris dans l'ancien catalogne qu'il a succes-
sivement publiés dans la Bibliothèque de l'Ecole des Chartes. Depuis lors divers sa- ,
vants l'ont étudié, et la Société des anciens textes francais a été autorisée a faire
faire de la page où se trouvent les Sermenti la reproduction liéliograpliiqiie qu'elle
a publiée en 1875. '
L'àge du manuscrit qui contieut l'Histoire de Nitliard a été autrefois beaucoup
trop reculé. On l'attribuait communément au IX® siècle,, les plus prudents, comme
Diez et Chevallet, à la fin de ce siècle ou au commencement du suivant. Un jeune
savant allemand, vouó à l'étude de notre ancienne littérature, et qui tronva la mort
à vingt-six ans sur le champ de bataille de Gravelotte, Jules Brakelmann, fut le pre-
mier à montrer la fausseté de cette opinion dans un article qui est date d'octobre
1869, mais qui ne pàrut qu'après la mort de l'auteur. " En 1870, dans un appendice
à la préface de la seconde édition séparée de Nithard, Pertz fit à peu près les mémes
remar ques que Brakelmann. Le manuscrit en question contient en elFet, à la suite
de Nithard , et de la mème main , non seulement les Annales de Flodoard, qiii vont
jusqu'eu 966, mais une continuation anonyme, qui concerne les années 976-978,
et qui ne se trouve que là. C'est d'après ce manuscrit que Pitliou publia en 1588,
en memo temps que Nithard, les Annales de Flodoard et la continuation susdite. '
Le manuscrit n'a dono pas été écrit avant cette dernière date; mais si l'on
considère, comme Brakelmann le fait remarquer avec raison, que la continuation
dont il s'agit est loin d'étre l'originai, que la transcription contient des fautes as-
sez nombreuses, on conclura que le ms. ne peut étre antérieur aux dernières années
du X« siècle, et peut fort bien n'étre que du commencement du XP. C'est là un
point qui a son importauce pour la critique des textes qui nous ocoupent. Ces
' Origine ctfonnationde la languc fmnqaise , 1. 1, p. 83.
' Voir pour ces faits la préface de Pertz à la 2» édition de Nithard in iisuin scholamm (1870), et l'artiole de
J. Brakelmann dont il sera parlò plus loin.
' Zeitschriftfiir deutsche Philologie, t. Ili (1871), p. 85-95.
' Annalium et Bistoriae Franeormn.... scriptores coodanei XII, Pai-is, 158S. Déjà Bodin avait imprimé dans plu-
sieni-s editions suooessives de sa BSpuMique le texte roman des Serments. Je ne sais par quelle confusion M. Stengel
attnbue la première impression à Vulcanius, dont le De literis et limjna Getamvi ne parut qu'en 1597 (à Leide).
— 80 —
textes, les plus- ancieus qiie nons possécTions comme rédaction, ne sonfc douc pas
les plus anciens comme transci-iptiou : ils vieunent à cet égard après la Séquence
de salute Eulalie et le Fragmenfc de Valencienues , peut-étre méme après les
poèmes de Clermoufc; mais ils doivent à leur nature particulière de uè pas avoir
été l'objet, de la parfc du copiste qm les a transcrits; d'un remaniement au moins
volontaire.
Avant de les étudier, il nons faut voir dans quelles circonstances ils se sont
produits et nous ont été transmis. Je n'ai pas à raconter ici en détail la triste et
fastidieuse histoire des premières disseusions entre les fìls de Louis le Pieux;
mais il faut donner un résumé des événements qui précédèrent immédiatement l'en-
trevue de Strasbourg. En 839, le vieil empereur, avec le consentement de son fils
aìné Lothaire, avait de termine ce qiii reviendrait après sa mori à chacun de ses
enfants. Lothaire devait avoir, avec le titre d'empereur, l'Italie, et tovite la région
située à l'est de la Mouse et au nord de la Bavière, laissée à son frère Louis; à
Charles était assigné tout le pays compris à l'ouest de la Mouse, sauf l'Aquitaine
qui restait à Pépiu. Pépin étant mort, l'empereur voulut accroìtre de son royaume
les possessions de Charles , le plus jeune et le plus aimé de ses fils , né de son second
mariage avec Judith. Les Aquitains au contraire voulaient pour roi le jeiiue Pépin,
fils de celui qui venait de mourir. Louis marcha contro eux, mais sans grand siic-
cès, revint ensuite en Aiistrasie, d'où il alla repousser une invasion de son fils Louis
de Bavière, et mourut, au retour, près de Mayence, le 20 juin 840; Charles se trou-
vait alors à Bourges. Lothaire, qui était en Italie, chercha aussitòt, au mépris de
tous ses engagements, à s'emparer de l'empire entier. Il envoya partout des émis-
saires chargés de gagner les évéques et les comtes , passa lui-méme les Alpes à la tète
d'une armée, conclut près de Francfort une tròve avec Louis, et se prepara à atta-
quer Charles. Celui-ci, accouru d'abord à Quierci-sur-Oise pour y recevoir l'hom-
mage de ses sujets, avait été brusquement rappelé enAquitaine, où son neveu Pé-
pin menacait de près Judith, qiii y était restée. Lothaire frauchit la Mense, gagna
à son parti les grands du pays entre Mense et Seine, et, pratiquant les mémes
mancEuvres au delà de la Seine, s'avanca jusqu'à la Loire. A Orléans, il rencontra
Charles, revenu de son expédition meridionale: au lieii de combattre, les deiix frères
conclurent une convention provisoire qui devait se changer en un traité défìnitif à
une entrevue qu'ils aitraient au mois de mai de l'année suivante à Attigni; par
cette convention, Charles gardait l'Aquitaine, la Septimanie, la Provence, la Bour-
gogne ' et les dix comtés entre Seine et Loire; Lothaire lui jurait amitié et s'en-
gageait aussi à ne pas attaquer Louis. A peine conclu, ce pacte fut viole par les
deux frères. Quand Lothaire so fut éloigné, Charles franchit la Seine à Rouen,
malgré la résistance des partisans de Lothaire, et parcourut le pays entre Seine et
Mouse, le revendiquant comme sien d'après le partage fait par son pére. Lothaire
' Nithard ne la nomme pas; mais le fait. qu'ello étaifc còdée à Charles parait blen résulter de ce qui suit.
— si-
de son coté avait attaquó Louis et l'avait contraint à la fuite; ayant appris la mar-
che de Charles, il lui fit faire des re presenta tions, que celui-ci recut avec hauteur.
Au mois de mai 841, Charles se rendit à Attigni, suivant la convention de l'année
précédente; il n'y fut pas rejoiut par Lothaire, qui se tenait à Aix, mais il y recut
des envoyés de Louis, qui lui offrait de venir s'unir à lui contre leur frère, ce que
Charles accepta avec joie. Il se retira eusuite sur Chàlons, ori sa mère arrivait de
son coté avec les Aquitains dévoués à leur parti. Lothaire, apprenaut la retraite de
Charles, marcha sur lui, et l'atteignit près d'Auxerre, mais après que Loitis, qui
venait de battre au delà du Ehin le lieutenant de Lothaire, avait opere sa jonctiou
avec son frère. Lothaire différa la bataille de quelques jours, parco qu'U attendait de
son coté les renforts que son neveu Pépin lui amenait d'Aquitaine: ils arrivèrent,
et le 25 juin 841 eut lieu à Fontenoi en Puisaye (Yonne) ' la sauglante bataille qui se
termina au désavantage de Lothaire, mais sans amener de résultats décisifs. Louis
retourna en Allemagne, Charles sur la Loire. -Il revint de là dans la Franco du
Nord, où il trouva, malgré son succès, un accueil assez froid. Il apprit à Eeims, à
la fin d'aoùt 841, que Louis était de nouveau attaquó par Lothaire, et se dirigea
par Saint-Quentin vers Maestricht pour entrer en Austrasie et faire une diversion.
n réussit: Lothaire, laissant Louis, marcha sur Charles. Celui-ci se retira vers
Paris; Lothaire y vint avec son armée, mais, n' ayant pu parvenir à passer la Seine,
il alla à Sens retrouver Pépin, qui venait encoro d'Aquitaine avec nue armée.
Charles, apprenant que Louis, qu'il attendait de son coté, était empèché de passer le
Ehin, se decida à marcher à sa rencontre. La nouveUe de son arrivée en Alsace sufflt
à disperser les partisans de Lothaire qui gardaient le passage du ileuve. « Le IG des
kalendes de mars (14 février 842) , Louis et Charles se réunirent dans la viUe qui
s'appelait autrefois Argentana et dont le nom vulgaire est aujourd'hui Strazburg. Ils
y jurèrent, Louis en langue romane, Charles en langue tioise, les serments qui sont
rapportés ci-dessous. Et avant le serment ils haranguèrent ainsi, l'un en lanfue
tioise, l'autro en langue romane, le peuple assemblé autour d'eux. Louis parla le
premier, parco qu'U était l'aìné, et dit: Vous savez comòien de fois, dejmis la mori de
notre ]}ère^ Lothaire irUa attaqué, mol et mon frère que voici, essayant de noits ruiner et de
nous détruire. Ni la fraternité, ni les sentiments chrétiens, ni aucun moyen n'a pti faire
que la paix s'établìt entre nous jjar la justice. A la fin, contraints, nous aoons remis la
décision au jugement de Dieu fout-jnnssant , afin qu'il indiqudt ce qui nous revenait à
cliacun et ce qui devait nous suffire. Votis savez que dans cette épreìtve, par la grdce de
Dieu, nous avons été vainqueurs; lui, vaincu, il s'est retiré oh il a voulu ' avec les siens;
touchés d'affection fraternellc, et aussi de pitie pour le peuple chrétien, notes n avons pas
votdu jioursidvre et extenniner les fugitifs; nous avons recommencé, camme aupar avant, à
dtmander simplement que justice fat f aite à cliacun. Mais lui, par la suite, ne s'est pas
soumis au jugement divin; il ne cesse pa^ d'attaquer à main armée moi et mon frère; il
' Et non à Fontenailles, cornine le veut Tabbé Lebeut'.
■ Le ms. a valuit, mais soliùl est préfórable.
. — 82 —
(lèsole mon j)euj)le p^av V'uicemlie, le inllage et le nimrtre. C'est pour cela que, coidraints
par la nucessité, nous nous sommes réunis, et cornine notis craignons que vous ne cloutlez
de notre fidélité staile et de notre solide fraternité, nous avons résolu de jurer entre
nous, à votre vue, le sennent que vous allez entendre. A'^ous n'agissons pa^s sous l'empire
d'une injuste convoitise, mais pour assurer, avec la grdce de Dieu et votre aide, la paix
et le profit commun. Si, ce qua Dieu ne plaise, je venais à violo- le sermenf que je vais
jurer à mon frère , je delie cliacun de vous de ma sujétion et du serment que vous m'avez
prète. Charles prononca ces mémes paroles en langue romane; puis Louis, le pre-
mier, en sa qualité d'aìné, affirma aiusi qix'il garderait par la suite ce qui était
convenu (suit le serment roman de Louis). Quand il eut termine, Charles répéta
la mème affirmation en langue tioise (suit le serment de Charles). Quant au ser-
ment que les deux peuples prètèrent, chacun daus sa propre langue, il est ainsi
concu en langue romane (suit le serment des hommes de Charles) et en langue tioise
(suit le serment des hommes de Louis).... Ce jour-là il tomba beaucoup de neige,
suivie de gelée. » Par ces deux « peuples » qui prononcèrent les formules du serment,
il faut óvidemment entendre les principaux personnages de chaque coté. La for-
mule mème attesto qti'il s'agit ici des comtes, des conseUlers des deux rois: Si,
disent-ils, notre seigneur viole son serment et que nous ne puissions pas Tea détourner....
Chacun de ces fidèles, comme on disait, répéta-t-il la formule, ou deux représen-
tants furent-ils choisis? C'est ce que Nithard ne dit pas; la première hypothèse
semble appuyée par l'emploi dans la formule du pronom siugulier de la première
personne.
L'historien qui nous a conserve ces précieux textes n'était pas le premier venu.
Nithard était le propre petit-fils de Chaiiemagne, étant né, comme il nous l'apprend
lui-méjne (IV, 5), de sa fìUe Berte et d'Angilbert, r«Homère» de l'Ecole palatine,
l'auteur sinon des Annales longtemps attribuées à Eginhard, ' au moins de poèmes
historiques bien connus. A la fois savant et guerrier, comme la plupart des mem-
bres de la famille du grand empereur, Nithard prit une part personnelle aux événe-
ments dont il a écrit l'histoire. Il rappelle à Charles le Chauve, son cousiu germain,
sous l'inspiration duquel U écrit, qu'il a été emporté à ses còtés dans le tourbillon
où le roi a vécu pendant les deux ans qui ont suivi la mort de son pére. Eacontant la
bataille de Fontenoi, il dit qu'avec l'aide de Dieu il n'a pas été d'un petit secours
à Adhelard, qui commandait une des divisions de l'armée (II, 10). Investi de tonte
la confiance de Charles, il fut employé par lui à d'importantes missions: il fut l'un
des messagers députés à Lothaire en 841 (II, 2) et l'un des douze plénipotentiaires
chargés au nom de Charles, en 843, derégler entre lui et son frère Louis le partage
du royaume enlevé à Lothaire (IV, 1). Les dernières lignes de son livre ont été
écrites au mois de mars oit d'avril 843, et on pourrait croire qu'à partir de ce mo-
ment il renonca à la fois et à l'histoii'e et à la vie politique , mettaut en pratique
Voy. G. Monod, dans la Rev. Crii., 1873, t. II, p. 261.
— 83 —
les aspirations à la retraite qu'il exprime dans le pi-ologue découragé de soii
livre IV, si une notice digue de foi ne nous faisait plutòt croire qu'il périt dans un
des combats de cette mème auuée, peut-étre dans ces guerres meurfcrières qua
Charles livra en Aquitaine, où fut tue entre autres l'abbé Hug, fils de Charlemagne,
et, Gomme Nithard, dévoué à Charles le Chauve. Son pére Angilbert avait été le
restaurateur du monastère de Centule ou Saint-Ri quier en Pontieu; Nithard en était
abbé. Il y fut enterré, et on y retrouva au XI" siècle son corps, conserve dans le
sei, et enfermé dans un cercueil de bois. Le moine Hariulf, qui assistait à cette dé-
couverte, l'a rapportée dans sa chronique, et il ajoute qu'on voyait encore au cràne
la blessure qui avait cause sa mort: in cnjus capite videbatur ilici jjercussìira qua
eveiitu prelii full occisus.
La situation de Nithard auprès de Charles, qui donne un grand poids à son
témoignage comme liistorien, iuspire aussi une confiance absolue dans l'authen-
ticité des précieux documents qu'il nous a transmis à l'occasion de l'entrevue
de 842. Ce sont de véritables Instruments diplomatiques dans toute l'acception du
mot, et ils ouvrent dignement la serie des monuments d'une langue qui devait
étre la langue diplomatique par excellence. Dans bien d'autres circonstances , sans
doute, des actes qui ne nous ont été conservés qu'en latin ont été prononcés en
langue vulgaire. En 860, à May enee, Louis et Charles conclurent un pacte fort
semblable à celui de Strasbourg, et le chroniqueur qui nous en a transmis la for-
mule latine remarque expressément que Louis parla en allemand et Charles en
langue romane (à l'inverse de ce qui eut lieu a Strasbourg). Pour que Nithard n'ait
pas fait comme ce chroniqueur, comme il a fait lui méme, a la méme page de son
livre en traduisant en latin le discours que les deux frères prononcèrent l'un après
l'autre en allemand et en francais, il faut qu'il ait eu une raison particulière. Cette
raison paraìt facile à deviner. Les formules des serments des deux rois et de leurs
fidèles ont certainement été écrites avant d'étre prononcées: Louis, Charles, et les
représentants de leurs deux armées les ont lues à haute voix d'après les feuilles de
parchemin où elles avaient été transcrites, sans doute à la suite d'une délibéra-
tion et après que la rédaction en avait été approuvée. Nithard dut avoir les origi-
naux mèmes entre les mains, et cette circonstance triompha de la répugnance com-
mune a tous les clercs à écrire le patois des illettrés : il les inséra tels quels dans
son texte latin. On pourrait aller plus loin, et se demander s'il ne fut pas lui-mème
chargé de la rédaction des formules, et si l'intérét qu'il leur a trouvé ne vient pas
en partie de ce qu'il eu était l'auteur. La supposition n'a rien d'invraisemblable.
D'une part nous avons vu qu'il avait recu à plusieurs reprises des missions fort ana-
logues; d'autre part, élévé par un pére fort instriiit à l'école du Palais et à Saint-
Riquier, il devait posseder également, sans parler du latin, le fran9ais, langue des
sujets de Charles, langue des habitants du voisinage de Centule, et l' allemand,
langue de toute la famille imperiale et royale; certaines particularités orthographi-
ques des Serments viendraient mème appuyer cette supposition: pour les noms
propres, soit allemands, soit fran9ais, qui sont cités dans le courant du texte
— 84 —
latin , Nithard emploie les mème procédés de notation qiie ceux dii texte des Ser-
ments. D'autres traits, à la vérité, distingueut la graphie des Serments de celle du
texte latin de l'Histoire; mais cette différence peut fort bien tenir à la différence
de la langue, et je n'y verrais pas une raison pour refnser à Nithard la composition,
en roman et en tiois, des formtdes qu'il a inserées dans son livi'e.
Il resulto clairement de la rédaction en deus langues vulgaires des engage-
ment pris par les rois et leurs fidèles que la majorité de ceux-ci, tout au moins, ne
comprenait pas le "latin. Les sujets de Louis ótaient des Bavarois, des Alemans, des
Saxons, des Austrasiens: il est tout naturel qu'ils n'entendissent que le tiois. Quant
aux grands du royaume de Charles le Chauve, ils devaient appartenir aux parties
les plus diverses de son royaume. Il y avait dans son armée des Basques, des Bre-
tons (III, 6); il devait y avoir des Provencaux, des Aquitains, des Bourguignons ;
un noyau considérable provenait des comtés entre Seine et Loire; un autre, peut-
étre le plus important, de la région entre Seine et Mense. Quand Lothaire, devant
Paris, quatre ou cinq mois avant la réunion de Strasbourg, invitait Charles à ac-
cepter la Seine comme limite de son royaume, Charles répondait « qu'il ne lui
semblait nuUement conveuable de renoncer au pays entre Meuse et Seine, que son
pére lui avait donne, surtout à cause de la noblesse de ce pays, qui l' avait suivi en
si grand nombre, et qui ne devait pas étre décue dans la confiance qu'eUe avait
mise en lui » (Nith., Ili, 3). Sauf les contingents bretons et basques, tout ce monde
parlait «roman»; déjà sans doute bien des difFéi-ences locales se faisaient sentir,
surtout dans la prononciation; mais elles n'empéchaient pas qu'on ne s'entendit, et
qii'un texte court et simple, redige d'après une des manières de parler usitées en
Gaule , ne f ut parfaitement iutelligible pour tous. Aucun indice externe ne ■ nous
apprend quel fut le dialecte qu'on choisit pour la rédaction des formu.les. Si cepen-
dant on admet que Nithard en fut l'atiteiir, on doit croire qu'il écrivit dans la
forme de langage qui lui était habituelle, et il semble que cette forme doit étre
celle du Pontieu , c'est à dire du voisinage de l'abbaye où son pére avait fini ses
jours, où il avait dù étre élevé, et à la té te de laquelle il était lui-méme; c'était
au moins une forme orientale et septentrionale. Nous verrons si l'étude interne des
textes confirme cette supposition.
Il est intéressant de constatar l'usage exclusif du roman, c'est à dire du fran-
9ais , dès la première moitió du IX® siècle , dans les plus hautes classes de la société
fran9aise. Je ne sais si Charles le Chauve le parlait lui-méme hab^tuellement; Louis,
en tout cas, Louis l'AUemand, ne devait pas le parler: il dut lire avec une exactitude
mécanique la formule francaise qu'on lui donnait à réciter. Mais les grands du
royaume de Charles ne comprenaient pas d'autre langue: malgré leurs noms ger-
maniques, il leur fallait entendre le roi d'Allemagne parler francais pour savoir ce
qu'il avait à leur dire. Ce fait paraìt d'ailleurs tout naturel à l'historien; il ne lui
inspire aucune marque d'étonnement: il était dono habituel et déjà ancien. Si Fon
songe (jne les Serments furent prétés vingt-huit ans après la mort de Charlemagne ,
ou se dit que plus d'un , parmi ceux qui les répétèrent ou les enteudirent, avait
— 85 —
combatta sous le grand empereur, avait fait parti© de sa cour ou do son adminis-
tration. Aiusi la « noblesse » de ce pays qui , un an après , par le traité de Verdun ,
devait commencer à s'appeler la France, ' cotte noblosse de sang, d'esprit et de
noms germaniques, était depuis longtemps devenue romane de langage, comme les
populations sur lesquelles elle domiuait, et elle était tonte prète, rompant ses der-
niers liens avec le pays de son origine, à fonder avec ces populatioias , sous la
direction d'iine royauté sortie de son sein, la nationalité francaise.
Les Serments de 842 se composent de quatre textes , deux en roman , deux en
allemand. Il y a lieu de se demander quel est le rapport de ces deux rédactions.
Diez s'est déjà pose cette question. Voici ce qu'il en dit (p. 3): « Les deux rédactions
ne concordent pas exactement. La formule romane est plus précise et détaillée:
Louis nomme ici cliaque fois son frère par son nom , tandis que, dans la formule
allemande, Charles ne prononce pas le nom de son frère; il y manque aussi les
mots qui en roman précisent salvar, « in adiudha et in cadJmna cosa; » on ne trouve
pas non plus de mot allemand qui réponde à nunquam. Je ne voudrais pas en conclure
que Louis, en sa qualité de frère aìné, a fourni l'originai, d'après lequel aurait été
établie une rédaction allemande quelque peu imparfaite; car celle-ci aussi, au
moins à un endroit, est grammaticalement plus exacte (voy. la remarque sur los
taidt). Ce qu'il y avait de phis naturel, c'était d'écrire d'abord les serments en
latin, puis de les traduire dans les deiix langues vulgaires. C'est ainsi qu'on s'expli-
que aussi le mieux comment le texte roman se rapproche tant de l'usage latin,
comment surtout il omet l'articie , qua la langue devait posseder depuis longtemps. »
Pour critiquer cette hypothèse , il n'est pas mauvais de remettre les deux formnles
en latin, naturellement dans le latin usité à cette epoque pour des actes et dans
des circonstances semblables. Je mets en italique les mots qui ne sont représentés
qiie dans le texte francais, entre pareuthèses les passages des deux textes qui di-
vergent de celui que j'ai adopté pour base du latin.
Pro Dei amoro et prò christiani populi et nostro communi (aìì. amborum) salvamento, de
ista die in antea, in quantum Deus nosse et posse milii donaverit (fr. et ali. donat), sic sal-
vabo ego istnin meum. fratrom Karlum et in adjumento et in unaquaqiie re, sicut homo per
rectum suum ixaXxexa. salvare deb et, in eo quod ille mihi (a?/, me) sic faciat, et cum Lodha-
rio nullum placitum nunquam capiam {ali. in nullum placitum ibo) quod mea voluntate isti meo
fratri Karlo [ali. illi") in damno sit.
Francia dans Nithard vont diro • Austrasie :
— 86 —
II.
Si Lodlìuìvim.t {ali. Karlus) saci-amentum qnod suo frati-i Kavolo juravit conservat, et
Karlun {aìl. Lodliuwicus) ineus senior de sua parte {aìl. quod illi juravit rumpit), si
ego illuni inde avertere non possiim (fr. si ego avertere non illnm inde possum), nec ego nec
nullus (aìl. eorum nullus) quem ego inde avertere possum in niilìn ftdjumento contra Lodlmim-
Clini non illi ibi ero {ali. contra Karlum illi in adjumento non erit).
Il ne mo semble pas résulter de cette restaiai'ation la conclusion que le texte
roman soit uue traduction du latin. On ne voit pas qne l'expression romane soit en
rien génée par le latin. La construction est toiite romane , et à un endroit il a été
impossible de la reproduire exactement en latin. Il est vrai que des formules lati-
nes, par exemple celles des serments échangés de nonveau entre Louis et Charles
en 860, présentent des traits fort semblables à ceux du texte qu'on vient de
lire; mais ces formules sout calquées sur le roman, précisément comme ce texte.
L'emploi de l'adverbe sic en téte de la proposition principale du premier serment,
après les propositions motivantes ou conditionnelles du début, sic salvaho, est
tont à faifc roman, et ne se présente pas dans les actes latins semblables. Si d'atitre
part on trouve quelque vraisemblance à regarder Nitbard comme l'auteur des for-
mules, il les aura rédigées au point de vue de Charles; il aura dono fait d'abord
celle du serment que devait prononcer Louis, et il l'aura faite aussi précise que
possible; le texte aUemand, destine à étre prononcé par Charles, n'aura été qu'une
traduction, exéeutée peut-étre par un autre que Nithard. L'objection de Diez est que
dans un passage le texte allemand est supérieur au francais; cela est vrai, mais ne
proiive rien, le texte francais, comme nous le verrons, étant gravement altère à
cet endroit. Je regarde aussi comme due au copiste l'omission de l'article , lequel
n'avait d'ailleurs lieu d'ètre exprimé qu'une fois. Enfin je ne trouve pas que le texte
francais se rapproche du latin de manière à se faire reconnaìtre comme en étant
traduit. Je crois donc que le texte allemand est une traduction de l'originai francais,
et comme tei il pourra étre d'un certain secours à l'iuterprètation. Je le donne ici,
d'après les dernières resti tutions de la oriti que.
In Godes niinna ind in thes christianes Iblches ind unser bedhero.gchaUnissi, l'ou thosemo
dage irammordes , so fram so iiiir Got gewizci indi mahd furgibit, so lialdih thesan minan
))ruodher, soso man mit relito sinau bruodher scal, in tliiu thaz or mig so sama duo, indi mit
Ludhcren in nohlieinin tliing ne gegango, the minan willon imo co scadlìon werdhen.
— 87 -
II.
Oba Karl tlien eid, tlien er siuemo bruodher Ludhuwige gesitor, geleistit, indi Ludhuwig
min herro then er imo gesuor fbrbrihliit , ob ib. inan es irwenden ne mag , noli ib nob tlioro
nohhein, then ih es irwenden mag, widhar Karle imo ce foUnsti ne wirdhit.
Le ms. présente quelqnes lecons fautives qu'il n'est pas inutile de relever:
I. 1 gealtnissi, 2 niadh, tesan^ 3 s. hrulier, so soma, 4 hiÀeren, uuerhen; II. 2 forbrihcliit.
En ontre les mots sont conpés de facon à prouver que le copiste n'entendait absolu-
ment rien à ce qu'il transcrivait. Dans ce.s conditious, il aurait au moins dù copier
avec line fidélité servile, et huit fautes en quiuze lignes ne témoignent pas en
faveur de son attention. Il ne faut donc pas nous étonuer s'il se rencontre égale-
ment des fautes dans le texte roman. Toutefois les conditions sont ici dififérentes.
Le copiste était sùrement Fraucais, car d'une part il n'entendait pas l'allemand,
d'autre part il a transcrit Nitliard, partisan du roi de France, et Flodoard, liisto-
rien d'un intérét exclusivement national. Aussi paraìt-il avoir généralement bien
compris le texte roman des Serments. Ce texte, en roman aussi bien qu'en allemand,
devait ètra écrit sans séparationde mots; or l'espace entro deux motsromans est sou-
vent omis, comme il arriva d'ailleurs dans la latin, mais les syllabes d'un méme
mot ne sont pas séparées à tort, comme dans le texte allemand, sauf pour ad iudha
cad Imna, et on trouve quelques exemples du méme genra dans le texte latin. Il y a
cependant des fautes, comme lodhuuigs pour ìodlnamigs, probablement suo pour sua,
et certainement lostanit. Enfin l'écrivain s'est corrige: d'abord las daux fois où il a
écrit le mot aiudlia; la première fois il avait mis, sous l'inflixence du latin, un d da
trop (adiudha), qu'il a ensuite exponctué, c'est à dire supprimé en placant un point
au dessous; ' la seconde fois il avait oublié le d qui appartieni réeUamant au mot
(aiuha), et il l'a rétabli; enfin, à la 2" ligne du premier texte, il avait d'abord écrit
en, dont il a fait in. Cotte troisième correction est fort intéressante: elle montra que
ce copista, malgré des distractions, s'efforcait de copier exactement ce qu'il avait
sous les yeux. Elle nous fait voir en outre combien les ckances d'une trauscriptiou
infidèle étaiant plus grandes ici que pour le texte allemand : en copiant ce dernier,
qu'il ne comprenait pas, le scriba ne risquait que d'omettre ou da mal lire des lettres;
mais pour le francais il était sujet à deux influences perturbatrices. D'une part, le
francais de Nithard est si voisin du latin, seule langue habituellement écrite, qu'il
etait tout naturai de l'en rapprocher encore; c'est ce qu'avait déjà fait sans doute
le premier rédacteur des formules et ce que devait faire le copiste: c'est à catte in-
' Voy. SUI- les procédés divers employés à cet effet par le copis*-^ les observations de Brakelmarm.
fluence qu'il faut attribuer les formes nunquam, 1,7; Karlus, II, 2; non, II, 3, sans
parler des abréviations, employées en latin avec une valetir autre que celle qu'elles
doivent avoir en francais. D'autre part, en centcinquante aus, le francais s'était
développé, et en méme temps la traditiou orthograpliique remontant à l'epoque mé-
rovingienne, que représentait le texte originai des Serments, avait tout à fait
disparu. De là certaines hésitations et contradictions : la plus sùre porte sur le mot
in, que le scribe, coniprenant bien le seus, avait note en, comme on prouoncait
et écrivait de son temps, et qu'il a ensuite corrige en in, pour se conformer à l'ori-
ginai, qui le donne six autres fois; on peut peut-étre ranger dans la méme classe io
à coté de eo, Karle à coté de Karlo , fradre à còte de fradra, et méme non à còte de
min. D'aiUem-s, s'il a généralement compris son texte, le copiste ne s'est pas piqué
de l'enteudre partout: de suo part II, 2, en est un indice, et nous poiivons afiirmer
que «0)1 lostanit II, 2, lui était aussi iuintelligible qu'à nous. Enfin, à ces diverses
oauses d'erreurs, il faut peut-étre ajouter les intermédiaires possibles entro l'originai
et la copie, postérieure d'au moins un siede et demi ; cependant la fidélité generale
est si grande, notamment dans le texte allemand, que je suis porte à croii'e notre
texte directement transcrit sur l'autographe de Nitbard ou l'exemplaire exécuté
sous ses yeux.
Je donne d'abord la reproductiou absolument diplomatique, ligue pour Hgne,
mot pour mot, du texte tei qu'il est dans le manuscrit. En la comparant au fac-simiié,
le lecteiu: pourra lire ce deruier sans aucuue peine.
1. Pro dò amur & pxpiau poblo & uròcòinun
2. saluameut. dist di (fn auaut: inquantds
3. sauir & podir medunat. sisaluaraieo
4. cist meon fradre karlo. & in ad iudba
5. & in cad huna cosa, sioù om p dreit son
6. fradra saluar dift. Ino quid il mialtre
7. si faz&. Et abludher nul plaid nùquà
8. prindrai qui meon uol cist meon fradre
9. karle in damno sit.
II.
1. Silodlm
2. uigs sagramcnt. que son fradre karlo
.S. iurat conseruat. Et karlus meossendra
4. desuo partn lostanit. si ioreturnar non
5. lint pois, neio neneuls cui eo returuar
6. iiit pois, in nulla a iuha centra lodhu
7. uiiis nunli iuer.'
- 8y —
En voici maintenant une transcriptiou où j'ai introduit la juste sóparation des
mots, la distinction de «., * et «, j, la ponctuation et les capitales, mais sans rien
chau^er au texte méme là où il est fautif :
Pro Deo amur et prò Christian poblo et nostro commini
salvament, d'ist di in avant, in quant Deus
savir et podir me dunat, si salvarai eo
cist meon fradre Karlo, et in aiudha
et in cadhuna cosa, si com om per dreit son
fradra salvar dift, in o quid il mi altre
si fazet, et ab Ludher mal plaid nunquam
prindrai qui, meon voi, cist meon fradre
Karle in damno sit.
II.
Si Lodhu-
vigs sagrament que son fradre Karlo
jurat conservat , et Karlus meos sendra
de suo part non lo stanit, si io returnar non
l'int pois, ne io ne neuls cui eo returnar
int pois in nulla aiudlia contra Lodhu-
wig nun li iu er.
Il faudrait avoir exposé l'étude grammaticale des deux textes pour en présen-
ter une forme rectifiée, rópondaut, autant que possible, à la forme qu'ils ont du
avoir dans la bouche de ceux qui les ont prononcés. C'est une tentativo qui trou-
vera sa place ailleiirs.
G. Paeis.
NOTES PALÉOGEAPHIQUES.
I, 1. LeMtulus plaoé sur uro se trouve rm peu en arrière de l'o , ce qn'on n'a pu reproduire typograpliiquement.
> 2. Aucune édition ne reproduit le point qui se Ut après saluament. — JX. Koschwitz (IS&l) voit un point sous l'è
de eti et un i au dessus; mais sur le procède employé par le soribe, voy. Brakelmann, L e, p. 91. — Le
doublé accent dont M. Koschwitz munit Va d'auant n'est pas dans le mauuscrit.
. 6. Koschivitz et Stengel lisent dùt, mais en comparant ce mot à dist de la 1. 2 et à cist des 1. 4 et 8, il me semble
bien voir derrière la baste de 1'/ le petit trait droit qui distingue cette lettre de Vs ; of. P. Meyer, Roma-
nia, rv, 455.
n, 4. M. Stengel voit sous Vs de lostanit \m. point qui l'annulerait. L'ex imen attenti!' du ms., que j'ai fait aveo
M. Omont , ne confirme pas cette lectitre.
NOTIZIA
DI UN CODICETTO FIORENTINO DI RICORDI
SCRITTO IN VOLGARE NEL SECOLO XIII.
(R. Archivio di Stato di Firenze. Diplomatico, prov. Biyallo, quail. membran. an. 1255-1290.)
Questo codicetto, che può annoverarsi tra i più antichi e preziosi monumenti
della nostra lingua , non è affatto ignoto agli studiosi : l' esaminò anni fa il compianto
prof. Napoleone Caix; poi l'hanno veduto anche altri; ma non so se ne sia stato mai
pubblicato nulla. Mi pare ora opportuno darne un'esatta notizia descrittiva per co-
modità degli studiosi futuri; avvertendo intanto che questo codicetto, finora mal
cucito e mal designato colla data del l'273, è stato oggi ricomposto e rilegato, e as-
segnategli le date degli anni 1255-1290, che sono le due estreme dei documenti che
vi si contengono.
È un bastardelle membranaceo, lungo 0,30, largo 0,11, di venti carte, divise in
due quaderni (I, carte 1-12; II, carte 13-20). La carta 13, che finora per isbaglio di
cucitura era la prima del libretto, è mutilata da capo e assai macchiata nel resto; da
questa, che contiene ricordi dell'anno 1273, erasi finora desunta la data indicativa
del codice.
La scrittura è di tre mani:
A, che incomincia a scrivere nel 1255.
B, che incomincia nel 1257 e seguita interpolatamente ad A fino in fondo.
C, di cui è un solo ricordo del 1290, inserito in uno spazio lasciato bianco
in fine della carta 8.
Si contengono in questo codicetto Ricordi di compre di terre nella corte di Pe-
troio nel Valdarno inferiore, e conteggi di dare e avere relativi alle dette compre
degli anni 1255-69, 1269-82, 1290. Il luogo più spesso nominato in questi Ricordi
è « Aliana de la Korte di Petroio in Grreti » ; quivi si fanno il maggior numero degli
acquisti ; e da più luoghi apparisce che li fosse l' abitazione dei compratori. Si no-
minano'pure Sovigliana, CoUegonzi, S. Donato in Greti, ed altri luoghi della valle
che si stende tra Cerreto Guidi e Empoli: ciò basterà per intendere che l' Agliana,
— 92 —
luogo principale di questo codicetto, non è già l' Agliaua del Montale Pistoiese, men-
zionata dal Eepetti, ma altro luogo omonimo del Valdarno fiorentino inferiore, non
registrato in quel classico Dizionario topografico della Toscana.
Tutti i Ricordi sono in volgare. Non appariscono mai in tutto il libretto i nomi
degli scriventi, che sono i compratori delle terre: ma molto precisamente è notato
in ciascun Ricordo il nome del venditore , la topografia del luogo comprato , la carta
notarile dell'acquisto, e il giorno in cui questa s' imbreviò. Le date sono espresse
generalmente a mese entrante e uscente; cioè in ordine diretto dal primo del mese
fino al 15, e in ordine inverso dall'ultimo del mese nella seconda quindicina; qual-
che volta sono nominate le calende, come dies tre anzi kaleiide magio (1255) ; dies qua-
tro anzi kalende agosto (1256) ec. ; e il Ricordo del 1290 ka la data del giorno del
mese al modo moderno.
Ecco ora com' è diviso il codicetto pagina per pagina :
a e. 1 « Quesste le chonpere del podere da Cliasalino ». Senza data: mano B.
E verosimile che questa pagina come guardia esterna del libretto fosse dapprima
lasciata in bianco , e che i Ricordi che ora vi si leggono vi siano stati scritti dopo.
Dico questo, perchè il principio della carta 1', come si, vedrà, ha tiitti i caratteri
d'un principio di libro; e perchè dai Ricordi contenuti a e. 14-14' si ricava che il
detto podere di Casalino fu comprato, nel 1273.
a e. 1' « Al nome di dio ame, ed aci'escimento di bene. MCCLv ». Mano A,
con Ricordi di questa mano per tutta la pagina. Ma nel margine superiore la mano B
ha aggiunto più tardi: « di quatro intrante aprile. »
a e. 2-8. Ricordi degli anni 1255-57: mano A.
a e. 8' Ricordi dell'anno 1257: mano A, aggiuntovi in basso dalla mano C il
Ricordo d'una compra fatta il 23 ottobi'e 1290, che è il più recente del libro.
a e. 9. Due Ricordi degli anni 1257 e 1258: mano A, con un'aggiunta interli-
neare di B nel primo Ricordo.
a e. 9'-10. Ricordi dell'anno 1259: mani A e B intercalate:
a e. lO'-ll. Ricordi degli anni 1269 e 1270: mano A.
a e. ll'-20'. Ricordi degli anni 1271-1282, scritti da B; se non che a e. 17'-18'
sono Ricordi dell'anno 1277, della mano A, con annotazioni intercalate di B.
A pie di quasi tutte le pagine del libretto sono le somme, scritte da B.
Ecco in fine un saggio delle partite;
a e. 5', au. 1255. (mano A):
Venturello e Guido f. Bonaiuti d'Agliana. Auén konperato da loro le due parti d'u pezo di
tera posta ne la kosta di Petroio a rinpetto a la kasa nostra e l'atro terzo si è di Kortinuova.
Fece la karta ser Rolenzo, ke s'inbi-euò dies dieoe osante novenbre. Dienne avere s. xx questo
die. § Demo a TureUo e a Guido s. xx i loro mano.
a e. 12', an. 1273. (mano B):
Auén chonperato da Manno Paghanelli un pezzo di terra possta ne la valle d'Aglana, kes-
siamo noi da le tre latora per la tera ke konperamo da Guido Konsigli, ke kosta s. xl, dies sette
- 93 —
usscente aghosto al settantatrè. Fece la karta sei- Tommaso : inbreuossi di settenbre al set-
tantati'è.
a e. 8', an. 1290 (mano C).
Nel MCCLxxxx a di xxilij d' ottobre abbiamo conperato da messer Aldobi-andino da Pistoia
l'ottavo del boscbo per non diviso, che da l'uno lato Vannello f. Boncristiaui da Suvigliana, e
dalle due latora le rede di messer CLavalcha e noi e dal terzo dal quarto.
Chostò Ib. vij. Avenne oharta per mano di ser Pelegrino di Boncristiano da Cliasalina, ohe
s'imbreuò di xxiiij ottobre nouanta.
Cesare Paoli.
POSTILLE ROMANZE.
Ad onorare l& memoria degli insigni cultori della scienza, quali furono i pro-
fessori Caix e Canello, rapiti nella promettente vigoria degli anni e degli studj,
vale di certo, più che lo sterile rimpianto, il mostrare d'aver tratto profitto dal-
l'opera loro e il confermare, attingendo in essa motivi e stimoli a niiove ricerclie,
che non omnes perierimt. In me , amico ed estimatore d' entrambi , svegliarono più
viva e tenace attenzione , com' era naturale, quelli fra i loro scritti svariati che sono
essenzialmente d'indole glottologica, del primo, cioè, il bel libro sulle 'Origini della
lingua poetica italiana, Firenze 1880', e del secondo il diligente studio sugli 'Allo-
tropi italiani' edito nel 3'^ tomo (285-419) àoìS! Archivio glottologico dell' Ascoli. Di
parecchie postille, che l'esame riflessivo di quelli scritti e le occasioni della scuola
mi suggerirono, comunico ora, come affrettato e modesto contributo a questo pio
volume, le due che, trascrivendo, si lascian racconciare men peggio nei limiti as-
segnati. Gli Dei Mani dei cari estinti gradiscano almeno l'intenzione!
A.U romanzo per o atono latino.
Il Caix nei §§ 51 e 67-71 dell' o. e. accoglie l'opinione tradizionale, che l'o lat.
protonico, specie al principio di parola, siasi talvolta espanso in cm nella zona pro-
venzale, nella gallo-italica e più nella veneta , nella meridionale italiana e soprat-
tutto nella sicula. Gli esempj addotti da lui tornano alle basi latine ole re olor
odor, occidere, cognoscere, lionor honestus, oliva, oriens. Orlon; e
r accennata divariazione appare, verbi gr citici, in aulens prov., ciuUre aulente delle
antiche poesie italiane, di fronte ad olire olente delle stesse poesie. Per legge fone-
tica, nel senso rigoroso della parola, non è giustificata cosiffatta espansione spo-
radica in nessuno degli idiomi neolatini: e quando l'Autore nel § 45, detto che
anche l' o atono di prima sillaba partecipa della generale tendenza all' a , soggiunge
ma in alcuni luoghi passa , con ciltercizione affatto speciale , nel dittongo au ', egli
— 96 —
constata e non spiega plinto la speciale alterazione; ne la spiegano gii autori cli'ei
cita. Infatti il Diez, Grammaire, I 366, all'espansione prov. riavvicina quella del-
l'ant. it. auccisa aulente e del lat. ausculari. L'Ascoli, Arch. glott. I {Saggi ladini),
a p. 505 testo e n. 2, parla di questa espansione in qualche ss. ladino, aulive aulif
allato a oliv uliv ecc.; e vede in aiiriane un ravvicinamento ad aur oro. Lo Schu-
CHABDT, Vokalismus d. vidgàrlateins , Il 303-4, riporta ess. latini in cui au sarebbe
per o e neW addenda del III voi., p. 263, ha ess. con au del prov. moderno.
Badando al ravvicinamento del Diez e agli ess., comecché non tutti sicuri,
riferiti dallo Schuchaedt, potrebbe ammettersi una continuità storica fra quel fe-
nomeno neolatino e il latino, parte arcaico, parte volgare, e allora se ne avrebbe
una specie di giustificazione. Infatti fra le fasi notissime, che il dittongo originario
au ebbe nella vita del latino (cfr. raudus roudus rodus rùdus), quella in cui
si restrinse ad ó, coesistente o prevalente alla fase intatta, fu la più stabile e la più
espansiva, specialmente nella lingua parlata. Dalla legittima successione dei suoni
au 0 (m), e più ancora dalla convivenza di essi in parecchie voci, potè ben prodursi
qualche scambio fallace , individuale o popolare, di o etimologico con au. L' esempio
solenne di questo equivoco fonetico è ausculum ausculari di Festo, Prisciano e
Placido di contro alla forma classica osculum ósculari: vi si riattaccano per
l'identica base radicale aureax auriga, aureae ==oreae, austia = ostia. La
base radicale è 5s oris, che viene eguagliata generalmente al neutro scr. às bocca
(«sa strumentale vedico col senso 'in cospetto, c-ora-m'), sostituito in qualche caso
dal tema ds-dn- (p. e. àsn-é dat) e nel linguaggio classico dal t. ds-jà- ; e la radice
sarà la stessa, onde venne il verbo sostantivo, sia che vi si legga il 'respirare', o
lo ' stare ', sia che vi si voglia fantasticare una storia ideologica più riposta. Non
si può mettere in dubbio che l'equazione indo-latina, a cui dà sostegno anche il
paleo-nordico ós, è appunto di quelle fatte per convincere gli increduli. Ciò non
toglie però che nel lat. aus- per ós- si possa vedere, più che uno scambio fonetico,
una confusione (jjars ijro parte o pars prò tota) coll'aus- di aus-culto aur-i-s
au-d-io, in quanto ós venne a dire tutta la faccia (e Prometeo ós homini sublime
dedit, Ovidio, Metani., I 85). Ed è anche possibile che nel prisco latino sia esistito
un altro aus- ragguagliabile all'Esichiano ao?' /tvsùaa (cfr. avjjj-t aco, scr. vanii
forse per *{a)v-d-mi soffio spiro respiro, e i greco-lat. aura aér): questo neutro
*av-es- 'soffio, spiracelo labiale' ci spiegherebbe per la facile coincidenza con
5s le suddette figure divariate ed anche, coli' intermezzo del basso-lat. ustiariis,
tutte le forme romanze del tipo ital. uscio (cfr. tutto e le figure italiche tonto- tòto-
tuto- dalla base tau-to-). Checché si giudichi di questo tentativo di etimologia
scientifica , nessuno negherà che in altri ess., in cui si tratta persino di o breve ,
abbiamo dei tentativi o raccostamenti di etimologia popolare, come in aurichal-
cum (aericalco) = òp£t-/_aXvto<;, dove risonò aurum (aér), in Bellausus = Bel-
losa, Castaurina =Oastorina, ove influì au sus e taurus, in raustra =
rostra, dove giocò l'analogia di plaustra plostra, claustrum clostrum etc,
e come in austrum per ostrum, dove si pensò ad auster: e in altri del volgar
— 97 —
latino Vau. pare, o tal quale V an neolatino (aucire DC), o una falsa grafia per
0 dovuta all'ingenua pretesa dei semidotti, che sapevano risanare in aurum au-
ricula ecc. i popolani orum orici a ecc. Insomma non è punto solido il ter-
reno, siU. quale potremmo cercare i fondamenti storici dell'eccezionale espansione
romanza, di cui ci occupiamo.
Tornando pertanto al fenomeno specificamente neolatino, non ci è dato nem-
meno ricorrere ad una analogia esercitata dai riflessi dell' o tonico latino. È su-
perfluo ricordare le risposte all' 6; né alcuno vorrà pensare, per ciò che concerne le
continuazioni di Ó, a forme manifestamente analogiche come, p. e., dao stao del-
l' antico italiano , dau estau(c) del prov. , dau stau del rumeno (sul tipo vno vau{c)
= vado ecc.). L'unica cosa che giova rilevare è la facilità, con cui l'o, special-
mente lungo o in posizione, tonico od atono, può oscurarsi in io non solo in Pro-
venza , in Normandia e altrove , ma anche in più regioni d' Italia. Così per l' S atono
di prima sillaba la risposta normale e generale degli idiomi romanzi secondo le
leggi fonetiche è o u, eccezionalmente a per la nota tendenza a tal suono delle
vocali protoniche; la qual tendenza, benché siasi estesa ove più, ove meno, e,
p. e., abbia avuto scarso sviluppo in Grallia, ci spiega per l' atonia indotta dalla
proclisi le forme prov. vas^vers ves versus, damnideus accanto a domnideus e il frc.
dame (passato anche in prov. ital. ecc.) domina.
Ora, se applichiamo queste risultanze al caso nostro e appunto agli ess. addotti
dal Caix, vediamo che le risposte italiane rigorosamente legittime delle citate basi
latine sono le segg. : olire odore, occidere senese, uccidere comun toscano, conoscere,
onore onesto, oliva sen., uliva com. tose, oriente, Orione; e sparsamente nei volgari
toscani e nei meridionali, quindi anche nelle antiche poesie, alente alore {udore e
udore chianino-siculo) , accidere merid., canoscere canoscenza s-canoscente id., anore anesto
chiauino-siculo (ove pur si sente unore unestó), aliva, ariente siculo (cfr. offendo
argoglio ecc. anch' essi comuni al chianino e al siciliano). Insieme a queste forme
quasi tutte esemplate nei vecchi rimatori occorrono , e per regola non si riscontrano
più nei viventi dialetti, anche quelle, di cui discorriamo, con au ao, giudicate in
gran parte di fondo meridionale, cioè: ardire aidente aidore audore aolimento ecc.,
aucidere ucciso ecc., caiinoscere cuonoscente, aunore uunesto aonore uonesto, auliva aoliva,^
auriente aoriente. Nel territorio gallico basta ricordare il v. frc. occire =: prov. aucir
e le forme con o u del frc. e delle varieté lectiones dei canzonieri occitanici, di fronte
alV aulens ricordato, ad Anrion che alterna con Orion, ai limosini haunoiir audoar
contro al comune (ìi)onor onrar dei trovatori ecc. (prov. mod. auhrur aucusion aiqn-
nion aidiv a eoe), per giudicare non molto dissimili da quelle italiane le condizioni
provenzali della divariazione in esame. La piccola divergenza da un canto si fonda
' Auliva f accanto ad aliva oliva uliva, è ancora vivo nel siculo (v. Trajna), e però cade il dubbio dell' Ascoli
1. e. in n. suU' esattezza del citato di Schuchardt ; il sostegno di aggliinstru '^aulja^tru olivastro luaò essere illusorio ,
percliè, come si dice alivaru olivarii V olivo, cosi potè dirsi ^aljastrti oleaster.
13
— 98 —
sul fatto accennato della minore tenacità che ebbe in Provenza l' inclinazione ad a
delle atone iniziali, sicché le varianti in « dei nostri ess. sembrano mancare; dal-
l' altro si spiega un certo predominio di au , ove le forme in o u furon divariate,
colla nota simpatia del prov. per quel dittongo au, raramente ao, non mai contratto
in 0, come sempre in frc, e che sostituì talora anche eo io atoni (Jaupart leopardus,
Daunis Dionysius ecc.).
La conclusione a cui voglio arrivare si è che, non potendosi spiegare le forme
divariate con au ao, né colla fedele trasmissione d'un fenomeno latino mal sicuro,
né colle normali leggi fonetiche degli idiomi neolatini, né con alterazioni analoghe
di particolari dialetti o di lingue estranee, come le germaniche, convien pensare a
un mero processo meccanico, ad una associazione, diciam così, mnemo -fonica, per
cui, ad es., dalle forme vive in più volgari italiani occiclo uccido accido venisse dalla
penna d'un poeta o sul labbro del popolo, fugacemente o permanentemente, una
forma contaminata aocido aucido (qui l' incremento vocalico dovea indurre dapprima
lo scempiamento del ce originario). La jjrefissione dell' a nel terreno italiano fu age-
volata, tacendo della solita tendenza all' a iniziale atono, per l'analogia delle tante
forme, quali aocchiare aoprare ecc., auggiare ausare ecc. = adoccJiiave aduggiare ecc.
(e invero il Mussafia riferiva ad adolens il prov. it. aidens aidente ecc.). Cosiffatti
compromessi, o immistioni, o concrezioni di due forme in una terza si possono
ammettere anche senza essere analogisti di proposito (cfr. Caix, Studj di etimologia
romanza; Firenze 1878, passim), e tanto più nell' arte bambina ed eclettica dei primi
rimatori, ondeggianti tra la lingita viva del loro paese e le reminiscenze latine e le
imitazioni d'altri capiscuola, o provenzali, o toscani. E nemmeno può far meraviglia
che qualcuno di questi prodotti si sia popolarizzato e generalizzato, incontrando in
tal caso le sòrti fonetiche dei tipi analoghi nei differenti territorj. Così aoliva auliva
da oliva uliva (diva, divenuto forma popolare nel mezzogiorno, incontrò anche lo
sviluppo fonico di ao au in avo avu, qual si ebbe in dvotro cdvudu (per autro caudo
= altro- cal'do-) napol.-sicil., e nei toscani cavolo cauli,- navolo naulo- Pav-
{Pag-)olo Paulo-; e così fu scritto e s'ode tuttora avoliva avidiva. Parimenti la forma
mista aucidere, fattasi più comune rielle antiche poesie con qualche influenza del
pfov. aucir, riuscì anche ad alcidere nei dialetti gallo-italici {alcidere alcir) e nel
fiorentino (cfr. aldace laide ecc. accanto ad audace laude lode ecc.); e con nuova
immistione, la quale suffraga a capello quella da me supposta, potè venirne, sul
tipo dei fior, aidtore gaioldere ecc. nati da aidore altare, gaud-{godere) galdere ecc., un
'''aulcidere, che spiega le varianti settentrionali olcidere olcir idcir. Nella zona veneta
poi la formola al ol {aid) si risolveva altresì in an on (cfr. colsa consa causa, polsar
poìisar pausare ecc.), onde le forme ancider ancir onqir; ed è quindi ragionevole
]' idea del Caix, che ancidere sia venuto al toscano dai poemi e romanzi cavallereschi
veneti. Osservo tuttavia, che l'importato ancidere non sarebbe riuscito a supplantar
quasi l'indigeno alcidere, se fosse stato repugnante al fonetismo toscano qualche
mutamento in n di l implicato; ma le antiche poesie e croniche toscane hanno
A»cide e Alcide (cfr. nel chianino Anceste amare inzare ecc. per Alcesfe alzare ecc.), e
99
mungere è da mulgere, pantano si riattacca probabilmente a palta (pieni, pauta),
montone è dal b. lat. niulton-(mutilus), benché v' abbia infinito montare, ecc.
II. — Grreggio, G-rezzo.
Il Canello in nna lettera compitissima sulle mie 'Note giottologiclie, I; Pa-
lermo 1882" notava, fra le altre cose, ette la congettura sull' allotropia f/revio greggio
grezzo da me accennata nell' annotazione della pag. 13, benché da più lati sedu-
cente, incappava in tre difficoltà: 1.'' che il senso speciale di greggio grezzo, oltre
d' essere estraneo alle altre lingue neolatine , non s' accordava punto con quello del
lat. gravis; 2.'' che 1' armonia delle continuazioni e derivazioni romanze delle basi
*Ievius *gra- grevius mostra nei significati e nelle varianti fonetiche certi di-
stacchi, i quali, per lo meno, dovrebbero essere spiegati; 3.''' che proponendo una
nuova etimologia sarebbe stato opportuno dir le ragioni, per cui rifiutavo quella
del Caix e la sua. Non intendo ora difendere quella che diedi come una ^probabilità
e non altro. Mi sia lecito tuttavia ricordare, quanto al primo appunto, che, p. e., il
nome fem. fra. grège 'seta greggia" può, a riscontro di rengréger 'aggravare' (v. frc.
aggréver), non essere un italianismo, e che certi usi latini di gravis non disdicono
alla significazione speciale, a cui giunse greggio grezzo. Infatti aes, argentum
grave significano rame, argento grezzo, non lavorato, non coniato"; e Forcellini
dice: qui aes rude intelligunt aeream laminavi.... impolitam ac rudem..., idque ajunt aes
grave aijpellari, nobiscum faciunt; e Servio ad Aen. VI 862 interpreta: aes grave,
idest in massis. Riguardo al secondo appunto, mi pare che 1' armonia tra le famiglie
di *levius (b. lat. leviare, prov. leujar) e di *gravius (b. lat. graviare), atte-
nuato per imitazione del precedente o per causa di composizione in *grevius
(prov. greujar) , risulti bastevolmente guardando all' insieme di questi ess. :
levio- : alleviare it., aliviar sp., lebiu sardo.
lego- : leggio -iero alleggiare ecc. it., leujer aleujar prov., léger alléger frc. ecc.
grevio- : grevio volg. tose, aggreviare it., greviu grevianza sic.
grego- '.greggio it. , agreujar prov., rengréger frc. (le forme prov. leujer aleujar
agreujar mantengono il vocalismo dei semplici leu gì-eu (anche rumeno)
levìs gravis; ma nel composto engres, onde l'antico it. ingresso, Vu
par fognato).
Dallo schema qui abbozzato non appajono dunque i distacchi oppostimi dal
Canello; e se leggio, ad es., non si sostenne o non ebbe la variante lezzo in Toscana,
si capisce senza stento, riflettendo alla concorrenza del più sviluppato leggiero
(alleggerire) e di lezzo, che venne a dir 1' opposto di olezzo. Così grevio non riiiscì a
— 100 —
soverchiare in Toscana il primitivo grave ;jreve, ne agr/reviare divariò sull'esem-
pio di alh(j(]iare = alleoiare, perchè aggreggiare significò 'attruppare , imbrancare",
e aggrezzare diceva 'agghiadare, intirizzire"; ma fu tosto vitale l'allotropo greggio
grezzo, quando vi si fissò una particolare significazione. Del resto correr dietro ad
un' armonia assoluta in simili divariazioni è proprio un perder di vista le condi-
zioni saltuarie e spesso capricciose del lessico di qualsiasi lingua.
Il terzo appunto è più giusto; e, non avendo creduto conveniente in una breve
annotazione dilungarmi a dire perchè non mi fossi acquetato ai tentativi etimolo-
gici dei miei chiarissimi colleglli , lo farò qui colla massima concisione. Il Canello
adunque nella bella rassegna citata degli 'Allotropi italiani", a p. 348, sotto la
formola GJ in gg zz ha: 'Grregio (cfr. e-grègius): grezzo grossolano, e si dice an-
' che degli uomini ; e greggio non lavorato , solo delle cose materiali. Ad una base
' materialmente identica risale anche il sost. greggia are. greggio armento. L' e per e
' da un é lat. sarà dovuto al suono palatile che segue, in grezzo all' analogia di greg-
' gio.' Anzitutto giova rilevare alcune inesattezze, che in parte son di certo meri sbagli
tipografici. La formola vuole zz e non zz, e infatti è stampato grezzo (leggi grezzo)
in nota a pag. 388; del pari ciò che è detto dell' e indotto dal suono palatile mostra
che greggio, inaudito in Toscana, è per errore in luogo di greggio. Non direi nem-
meno che greggia greggio sostantivi risalgano alla base che è in *gregio e-grègius,
cioè ad un derivato con -io-, dacché le specificazioni popolari di nomi di 3" con «
fem., 0 masch., son cosi ovvie da capirsi benissimo un gregge m. e anche f. ^gregj-
fattosi altresì il greggi-o e la greggi-a. Quanto ai significati, senza negare che greggio
si dica di preferenza parlando di còse materiali, debbo notare che, tutto sommato,
non e' è fra greggio e grezzo negli usi letterari ^ nel toscano (cfr. Fanfani s. v.) una
intima differenza, ma piuttosto una libera scelta, o individuale od occasionale. Ve-
nendo alla sostanza dell' etimo, si chiede imprima, se il Canello alluda ad un
*grég-iu-s indipendente, o ad una estrazione seriore popolana dal composto
é-grèg-iu-s. Ammettere il primo caso sarà difficile, non tanto perchè manca quel-
1' aggettivo nel lessico latino, quanto perchè 1' ampliazione per -io- è affatto estranea
a tutti i derivati (cfr. grèg-à-re ad- sé- con- ecc., gregàlis gregàrius grega-
tim ecc.), salvo appunto §-grég-iu-s, che non si può citare a pruova senza cadere
in un circolo vizioso. Né è più facile supporre il secondo caso, poiché, a tacer dello
stento d' una significazione antitetica ottenuta col sopprimere la prep. è-, vi si op-
pone il fatto, garentito anche dall'atteggiamento fonetico, che egregio non fu mai
voce popolare negli idiomi neolatini su su fino al latino volgare. Dal lato concet-
tuale è pur notevole, che e-gregius (Exgregiae in Festo, che spiega 'e grege
lectus, ' s^aipsTo?) sia tosto passato e per sempre al senso metaforico ' insigne per
virtù, per meriti, per grado", talché venne più tardi adoprato come titolo, mentre
greggio non dice mai nel senso proprio ' spettante al gregge, comune ai più ecc., "
e non si contrappone nel senso traslato all' aggettivo generatore od affine.
L'anteriore etimologia del Caix è al N.° 39 dei citati ' Studj d' etim. rom., " dove
è data per primitiva la forma grezzo e vien riferita ad agrestis. Non insisterò suUa
— 101 —
convenienza dei trapassi significativi, né sulla giustezza di dar greggio in Toscana
come succedaneo di grezzo: ammetterò, con un po' di buona volontà, che la crasi del-
l'articolo femminile abbia prodotto l'aferesi dell' « iniziale, e che l'alterazione av-
veniita in *grest'„- sia passata nella solita variante aggettiva di 1* e 2*. Ma
il mutamento di st in z, e per di più sonoro (tacendo del z spagn. affatto particolare),
è uno scoglio, clie non ha potuto girare nemmeno il Caix coi due o tre ess., a cui
ricorre. Intanto ognuno conosce che il nesso lat. st, specie mediano avanti le atone
e i, o resiste nel toscano, o per assibilamento di j (i palatale) giunge talora a sé:
angoscia Itosela tiscio ecc. angustia postea ostium (ustiarius) ecc. Della .supposta
alterazione eccezionale sarebbero ess. tipici inzigare, che il Diez, Gramm., I 214,
eguaglia a instigare, e zambecco, che il Càix eguaglia a stambecco. Noto imprima,
circa quest'ultima equazione, che lo st è iniziale avanti vocal forte: in secondo
luogo, che non è sempre prudente cercar ripruove di fatti fonetici d'una data lin-
gua in voci esotiche , ove si frammette spesso l' arbitrio dell' etimologia popolare o
dell'erronea associazione; e per ultimo, che, in armonia per vero della qualità del
nesso voluto originario, è z sordo (mentre in grezzo è z) quello che s'ode nell'are-
tino 'nzigare e tal poteva essere in zambecco (cosi in Fanfani, che ha però zambecch'ino)
'navicella, filuca,' se è la voce che ho sentito a Piombino pronunziare sam6ecco. Nel
significato suo proprio dicono anche i colti Toscani stambecco (e Fanfani-Eigutini
registrano la voce, come di lingua parlata); ma sarà parola venuta dall'Alta Italia,
ove soltanto è conosciuta la capra selvaggia (Ibice, Capra ibex, Steinbock ecc., delle
Alpi, dei Pirenei e del Tauro in Asia); e se in Toscana fu detto in passato anche
zambecco, forse vi si volle sentire la zuììijju, lo zampetto, per la fama dell' agilità a
zebellare (saltellare) della rupicapra alpina. Nulla osta però che si riportino alle due
varianti così pareggiate, per la somiglianza delle qualità, stambecchino 'arciere, fan-
taccino nel 300 ' {stamhecchini anche le armi e arnesi di esso), e stambecco zambecco
nel senso di nave leggiera; ma sciabecco (jabeque spg., cliébec frc, schebecke ted., xebec
ingl. ecc.), forma toscana ancor viva in tal senso , permette di pensare a un radicale
diverso (arabo? o il sab.... di sabulum saburra ecc.? allora starebbe sa{m)becco
[sciabecco] a £a(TO)iecco come sabbia a zaoorrd); e stambecco, che si risente qua e là, può
esser ringiovanito per allusione a steam-boat, steamer ecc. Quanto a inzigare, mi soccorre
la conoscenza dei volgari della mia bassa Toscana per ricordare che in Valdichiana
si dice 2c\ic[xe izzigare azzigare, che questi verbi significano non solo 'mettere al punto,
spingere alla zuffa, ' ma talora riflessivamente ' venire alle mani, azzuffarsi ' (« Come
la lucilia [scintilla, favilla] /a' wyam^jare 'l forno, Accosì li 'zzigò, che s' azzigòrno » da
un Bruscello del contado poHziano), e che in certi modi di dire quasi si confondono
con inizzare adizzare aizzare. Il che, se non erro , ci conduce a dubitare dell' equazione
del Diez inzigare = insti g3iV e, sia che torniamo con lui ad izza ecc. di stirpe ger-
manica {Etym. Vórterb., IV 40), sia che nei nostri verbi supponiam commisti alcuni
avanzi di inicere (manus) od *ict-i-are. In ogni modo, anche se si volesse
concedere la eccezionale mutazione voluta dal Caix in (a)grestis, *(a)grestius,
non potremmo non sorprenderci, che in tutto il tesoro della lingua e dei dialetti
— 102 —
italiani, omettendo gK altri idiomi romanzi, non resti veruna traccia della muta-
zione normale, qual'è, p. e., in crosciare = got. krustian o nel tose, bescio besso *bé-
stius {biscia, biscio àcaro, se sono da béstia, accennano coU't a origine meridio-
nale o sicula), e che l'unica forma veramente popolana, poiché agreste è letteraria,
cioè l'agg. tose, agresto -a, sost. V agresto 'uva immatiira,' si ampli, ma con altra
specifica alterazione, nel chianino agrèskjo = ^agrestio (v. le citate mie ' Note, " p. 14).
F. G. Fumi.
DEE EINFLUSS DES LA TEINISCHEN
AUF DIE ALBANESrSCHE FORMENLEHRE.
Dass ich in einer Sammlung von Arbeiten, welche bestimmt ist das Andenken
zweier hervorragender , der Wissenscliaft viel zu frtìh eutrissener Verfcreter der ro-
manischen Philologie zu ehren, mir erlaube Fragen der albanesischen Grammatik
zur Spraohe zu bringen, wird keinen in Erstaunen setzen, der mit dem eigentiim-
lichen Zustande der albanesischen Spraohe einigermassen bekannt ist. Die Bezie-
hungen des Albanesischen zu den neulateinischen Sprachen sind derartige dass
Schuchardt bereits 1868 den Satz niederschreiben konnte: 'Die Bewohner Illyriens
sind dem Schicksal ihrer nordlichen Stammesverwandten romanisiert zu werden
nur mit knapper Mtìhe entronnen ' (Vocalismus III 47). Freilich batte kurz vorher
Herr Miklosich noch gemeint, dass die Aufnahme zaklreicher uud auch durcb ihre
Qualitàt besonders merkwiirdiger lateinischer Worte in den Sprachschatz der Schki-
petaren die einzige Wirkung der romischen Colonisation in diesen Gegenden gewesen
sei: ' die romischen Niederlassungen an der Ostkliste des adriatischen Meeres schei-
nen nicht so zahlreich gewesen zu sein, um den Autochthonen ròmische Sprache
aufzudringen: das sprachiiche Eesultat jener Niederlassungen besclirànkte sich viel-
mehr auf die Bereicherung des Sprachschatzes der Eingeborenen mit einer aller-
dings nicht unbedeutenden Anzahl ròmischer Worte, wobei die grammatische
Form ihrer Sprache unberlihrt blieb' (Die slavischen Elemente im Rumunischen
S. 4). Ein genaueres Studium der albanesischen Grammatik lasst es nothwendig
erscheinen diese Anschauung von der Ausdelinung des romischen Einflusses
wesentlich zu modificieren. Und in diesem Sinne habe ich mich 1883 uber das
Verhaltniss des Albanesischen zum Lateinischen in dieser Weise ausgesprochen:
' Es ist nicht zweifelhaft, dass die albanesische Sprache um ein Haar der Eoma-
nisirung ganzlic^^rlegen wàre, nicht anders wie das Keltische in Frankreich.
Nur mit schwerer Schadigung seines Laut-, "Wort- und Formenbestandes ist
es aus dieser Periode hervorgegangen. Nicht nur, dass eine grosse Meuge la-
— lOi —
teiuischer Lehnworter alte albauesische Bezeiclinungen ftìr immer vercTrtingt hat,
selbst flir Begriffe, wo sonst fremder Einfluss gewohnlicla machtlos ist. Aucli
romanische Lautneigungen haben zahlreich den alten Formvorrat alteriert, imd
selbst die Beugung der Wòrter ist nicht ganz unberiihrt geblieben von romischer
GewohnlLeit. ' (Ùber Sprache imd Literatur der Albanesen, in der Zeitsclirift ' Nord
iind Sud ' XXIV 225).
Die folgenden ZeUen versuchen einen knrzen Ueberblick tiber dasjenige zìi
geben, was, wie mir scheint, in der albanesischeu Grammatik atif romanischen
Einfluss zuriickgefulirt werden muss. Vom albanesischen Lexikon sehe ich hiebei
im Grossen und Ganzen ab: Herr Miklosich hat bekanntlich eine reichhaltige
Zusammenstellung romanischer Lehnworter im Albanesischen gegeben, und wenn
seine Liste auoh weit davon entfernt ist vollsfcandig zu sein (Schuchardt und ich
haben gelegentlich schon manchen Nachtrag dazu geliefert' , so geniigt sie dodi
um die Ausdehnung des lateinischen Einflusses auf diesem Gebiete vor Augen zu
ftihren.
In der Flexion des Nomens habe ich im ersteu Hefte meiner 'Albanesischen
Studien' ("Wien 1883) eine'lateiuische Form nachgewiesen , namlich die Pluralbil-
dung der M'asculina auf -*. Es scheint, dass die echt albanesische Endung der manii-
lichen Themen -e gewesen sei, was dem -O'. des Griechischeu , dem -ai des Nordeuro-
paischen entspricht: -l dagegen ist aus dem Lateinischen eingedrungen. Man hat
sich diesen Vorgang natiirlich so zu denken, dass zunachst nur lateinische "Worter
von den Albanesen mit dieser Pluralendung gesprochen wurden : JìUi ' die Fei-
gen' == lat. fid^ von^A;= lat. ficus. Danach bildete man z. B. auch idki 'die "Wolfe'
von dem eiuheimischen Worte vXh 'der Wolf. ' Es gereicht mir zur Freude, dass
diese Erklàrung die Zustimmuug von Schuchardt gefunden hat (Slawo-Deiatsches
und Slawo-Italienisches , S. 8).
Der Declination des Nomens im iilbanesischen gibt bekanntlich, ebenso wie
im iiumanischen, der Artikel ein sehr eigentiìmliches Geprage. Man hat die
Gebrauchsweisen des albanesischen und des rumànischen Artikels schon mehrfach
einer Vergleichung unterzogen: ich nenne ausser den bekannten Abhandlun-
gen der Herren Hasdeu (im Archivio glottologico III 420-441 und in den Càrtile
poporane ale Romànilor S. 609-687) und Cihac (in Boehmer's Eomanischen
Studien IV 431 ff.) die Abhandlung des Herrn Michael Schuster 'Der bestitnmte
Artikel im Rumànischen und im Albanesischen ' im Programme des Gymna-
siiims in Hermannstadt 1883. Dagegen hat man noch niemals die Frage aufge-
worfen, ob der albanesische Artikel mit dem rumànischen nicht auch f or meli
identisch sein kònne, d. h. auf lateinisches 'die zurilckgefiihrt werden dùrfe. Der
Parallelismus der Nominative mit dem bestiramten Artikel im Rumànischen und
im Albanesischen ist allerdings ein ganz ùberraschender , besonders wenn man
in Erwagung zieht, dass das -l der mit dem Artikel versehenen Nominative auf
-ul nur historische Orthographie ist, in der gesprochenen Volkssprache dagegen
vollig verstumnit ist: vgl. Schuster a. a. 0. S. 3 und Obédénare, ' L'article
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dans la langue ronmaine ' iu der Revue des langues romanes 1884 S. 139. Man
vergleiche :
rumanisch
aniik
' Freund ',
amiku
(geschrieben amikuT) ' der Freund
albanesisch
mìk
' Freund \
miku
' der Freund '
rum.
òiize
' Lijjpe ',
huza
' die Lippe '
alb.
Imze
' Lippe ',
hu.za
' die Lippe '
rum.
muiere
' Frau ',
muierea
' die Frau '
alb.
mise
'junge Frau\
nuseja
' die junge Frau '
folje ' Nest', folj^n ' das Nest' Rada Grammat. p. 26.
In rum. amikìi ist von dem Artikel lat. iUe keine Spur mehr iibrig, denn -/(.
ist der Auslaiit des Stammes , der vor dem -l sich erhalteu batte und nun seltsamer-
weise dazu gekommen ist gegeniiber dem eigentlicb damit identisehen amik als
Artikel zìi fungieren. Dasselbe ware der Fall, wenn wir auf alb. miku dieselbe
Erklarung anwendeten. Indessen darf nicht verscbwiegen werden, dass die Ueber-
einstimmung bei naberer Betrachtung aufhort eine so frappante zu sein. Im Alba-
nesiscben fuugiert -?« als Artikel nur bei den Stàmmen auf-fc, ferner bei den nicht
sehr zablreichen auf -a, -e und -i: ka 'Ochs' kau 'der Oobs', Se 'Erde ' 3eu 'die
Erde ', si ' Eegen ' sìic ' der Regen '. Die iibrigen haben -i als Artikel. Man kònnte
versucbt sein diesen Unterschied zwisclien -u und -i als Artikel mit der verschie-
d.enen Behandlung des lat. iUe im Rumanischen zu vergleichen , die dasselbe erfàbrt,
je nachdem es an unbestimmte Nominative auf -ii oder an solehe auf -e tritt: ui-sit
(aus ursul) ' der Bar ', aber cdnele , gesprochen canile ' der Hund ', von cane ' Hund '.
Dann ware alb. -i auch zunacbst an Stammen aitf ursprlinglicli -i oder -e erwach-
sen, z. B. ken aus lat. canem, und keni ' der Hund' ware unmittelbar =rum. canile,
nur dass im Albanesischen das -le aiuoli hier geschwiinden ware. Dieser so entstan-
dene Unterscliied ware dann in der historisch berechtigten Weise nicbt festgebalten
worden, sondern in einer Weise verwendet worden, die liauptsaolilich durch lautphy-
siologische Rlicksicliten bestimmt wurde. Indessen lasst die Rllcksiclitnahme auf
eine andere Ersobeinung der albanesischen Flexionslehre noch eine andere Erkla-
rung als moglich erscheinen. In der dritten Person Singular des erzahlenden
Praeteritums begegnet uns derselbe "Wechsel zwischen -i und -u und zwar ganz
unter den nàmlichen Bedingungen. Wir fìnden dort l'ioi 'ev band' von l'if} 'icli
binde', aber lagu er benetzte' von l'ak ich benetze'; und ebenso unter den vocaHscli
auslautenden Stammen kenclol 'er sang' gegeniiber von Ucou'qy weinte', /sjw 'er
wischte ab', geJieu'ex betrog'. Wie welter unten zur Sprache kommen wird, ist es
wahrscheinlich, dass Formen wie Jcendoi ' ev sang' aus lateinischem cantavit gera-
dezu entlehnt sind. Demnach hatten wir in der Lautfolge -vi nach vorhergehendem
-0- = lat -a- das -v- geschwunden; in ureti 'er schauderte' = lat. *1iorrevit fiir hor-
ridt, in dremiu, 'er nickte ein' = lat. donnivit wie nach -a- (z. B. in kau 'er weinte")
ist dagegen die Lautfolge -vi in -u tibergegangen, wol auf dem Wege -«t -m, wofiir
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man vielleiclit die von Lecce ilberlieferte Form serhea aufiiliren darf. ' Mit Bezug
anf die verschiedene Behandlung des perfectischen -vit kann m.an an ital. amau
amò atis lat. amav it nehen vendè aus * v end :vit, partì a,u.s par t tv It erinnern. Erwàgt
man min, dass bei mehreren Nominalstammen auf -a sicli dar ursprùngliche
Ausgang -nv walarsclieinlicli maolien lasst {tra 'Balken' aus lat. trabem ital. trave; sica
skla 'Grieclie" aus sclavus; ka 'Ochs' vgl. venetisch ceva 'Kuh') und dass die auf -e
und -i etymologisch meist dunkel sind (fiir idiii kann man an lat. oliva erinnern) ,
so erscheint es nicht uumoglich, dass auch das « des Ai-tikels aus -ni -vi eutstauden
ist. Danach. batte ein trahem illam (so!) ein * travi = trau ergeben, ein amicumi ilhim
ein *mihui = miku; die Walilverwandtscbaft des k zum u gab liier allerdings auch.
scbliesslich den Ausschlag, denn ein statum illum wurde zu stati.
Die lautlicbe Herleitung von -i aus Uh oder illi, das zunachst zu ile ije oder
ili iji werden musste, macht keine Schwierigkeiten ; ebeuso geht ja auf {i)lla la
zuriick und hat als einsilbiges Wort dem Uebergang von auslautendem a in e
ebenso widerstanden wie im Eumanischen. Trotzdem bin ich weit davon entfernt
den Ursprung des Artikels i {ic) a aus ille illa fiir sicher bewiesen auszugeben. Die
Annabme verdankt einem Gresprache mit Schuchardt ibre Anregung. Fiir die mit
s- nnd t- beginnenden Formen des Artikels wird man an der Erklarung aus altem
albanesiscbem Spracbgut festbalten mùssen. Hiebei bietet sicli fiir den neutralen
und pluralisclien Artikel te zunachst der bulgariscbe Artikel zum Vergleicb dar.
Und icli -will niclit ver soli weigen, dass man bei i {j)a leicbt versucbt sein kònnte
an den Pronominalstamm ja- zu denken, der in den baltiscb-slawisclien Spracben
bekanntlicb zur Bildung des bestimmten Adjectivums verwendet wird, ein Ge-
brauch, den man auch in den eranischen Sprachen, ja vereinzelt im vedischen
Sanskrit wiedererkannt hat.
Das Gebiet der Pronomina, in welches ja auch der Artikel gehòrt, zahlt in
alien indogermanischen Sprachen zu den am meisten dunklen und verwickelten
und stellt liberali diejenigen, welche es mit einer rigorosen Behandlung der Laut-
gesetze Ernst nehmen, auf eine harte Probe. Ich bin weit davon entfernt alle Rat-
sei, welche die albanesischen Pronomina aufgeben, borei ts gelost zu haben, kann
mich aber doch der Ansicht nicht verschliessen, dass auch hier der lateinische Eiu-
fluss nicht ganz machtlos gewesen ist. So liegt es nahe in dem anlautenden a- von
ai ari 'er', Acc. até 'ihn', Plur. atd 'sie', atip-e 'ihrer", 'ihnen', Femin. ajó 'sie",
Plural ató 'sia' dasselbe Element zu er'kennen, das im rumànischen atàél 'ille',
aisést 'hic', spanischem aquese aquel 'jener", aqueste 'dieser', portugiesischem aquelle
'jener', aqueste 'dieser', provenzalischem aquel aquest vorliegt iind, soweit ich sehe,
eine befriedigende Erklarung noch nicht gefunden hat. Dtìrfen wir auch hier das
-i -n von, «e au als lateinisches ille auffassen, so werden wir in dem 6 der weiblichen
Formen ajó ató einen deiktischen Zusatz (aus lat. hàc'ì) erkenneu diirfen, wie er
' In den geginclien Mundarten sohcint in der e- Conjugatiou -i das gewohnliche zu sein: Rossi Sci, Javnik
lùejt Juugg kzei; doch fiigt der letztre bei ' alcuni aggiungono k' p. 57.
— 107 —
dem Romauisclieu ebeufalls uiclit fremei ist. Fiir kit kuj ' dieser\ weiblich kejó kjó
'diese' u. s. w. wird dann auf die mit dem Guttural gebildeten romamsclien Pro-
nomina hingewiesen werden dilrfen, der auf lat. ecce oder eccum zuriick geht: kuj
ware eccum illiiìn, kejó etwa ecce illam lidc. Kiihner erscheint es in tìj 'seiner' lat.
istius erkennen zu wollen, obwol der Abfall der Anlautsilbe is- ein Analogon in
dem ZaUwort tete 'aclit' hat, das fiir '^aste-te steht, wie ich in meiner Abhandlung
iiber die albanesisclien Zahlwòrter (Albanesische Skidieu, II 66) nacligewiesen
habe. Zweifellos scheint es mir, dass das lateinische Fragepronomen im Albanesi-
sclien Aufnahme gefunden hat: der Grenitiv kuj 'wessen?' (so bei Hahn und im
sicilischen Albanesisch Camarda I 212) ist lat. cujtts); ' aueh die adjectivische Ver-
wendung voa ciijus cuja cujimi ist dem Albanesisclien nicht fremd: i kuji este mi
kal'e 'wessen ist dies Pferd?', e kuja este ajó sfe^Ji ' wessen ist dies Hans?' kiis 'wer?'
kann unmittelbar gleich lat. quis gesetzt werden, wobei -u- fiir -i- nach dem k- hier
um so "weniger befremden dtìrfte, als es mit durch Einwirkung des Gen. Dat. kuj
iiervorgerufen sein kònute. Eine solche Einwirkung wird man notwendig im Accu-
sativ Zce, gegisch ke aus lat. quem fiir zu erwartendes ke ke annehmen miissen :
das aus dem Declinationsparadigma losgelòste, unflectirbare tse 'was?';=lat. quid
setzt ein ^ke voraus, und ebenso ist in ke ' dass' = lat. quod, ital. che, franz. que,
rum. ke die regelmassige Erweichung des k- eingetreten.
Was die Flexion des Veeeums betrifffc, so hat man schon fruher behauptet
(Schuchardt, Vocalismus III 47. 51. Miklosich, Albanische Forschungen II 23),
dass die 3. Singularperson des Hilfsverbums jam 'ich bin' aus dem Lateinischen
entlehnt sei. Dieselb^ lautet im Toskischen nacli Kristoforidhis und Dozon este
oder e, im Gregischen nach alien Qiiellen mit Nasalieruiig àst oder a, nur Lecce
hat ast; aste bei Blanchus stellt sich schon durch s fiir s als ungenau heraus; welclie
sonstige Gewahr iste bei von Hahn hat , weiss ich nicht. Rada gibt aiis Unteritalien
est oder è, Reinhold aus Griechenland iste, ich habe auch dort nur est oder este
gehort. Schon der Umstand, dass sonst die Conjugation des Indicativ Praesentis
von jam 'ich bin' mit der von kam 'ich habe" so genau iibereinstimmt , dass man
eine gegenseitige Angleichung anzunehmen genòtigt ist (man vergleiche jam je
este jemi jini jane mit kam ke ka kemi kini kane) , làsst die aus dem Parallelismus
aUein herausfallende 3. Pers. Siug. als hòchst auffallend erscheiuen. AUerdings ist
bei sogenannten TTnregelmàssigkeiteii das Praejudiz meist fiir eine Alter tiimlichkeit,
die sich aus irgend einem Grande der Uniformierung entzogen hat. Dieser Grund
ist mòglicher "Weise das Zusammentreffen mit der lateinischen Form gewesen:
denn das indogermanische esti 'ev ist' konnte im Albanesischen nicht anders lauten
als est, wozu auch ein lateinisches est werden musste. Dass keine Diphthongierung
des betonten e zu ie je statt gefunden hat (vgl. jam 'ich bin' aus *jem fiir em = esmi,
jcàte fiir "^jeste vgl. eks u. s. w.) , ist in dem einen Falle so auifallend wie in dem andern;
In der Form kvjt (bei Dozon und Kristoforidhis) ist genitivisclies -t (tf «i( ' des Hundes ') angetreten wie in
krjit neben ieti ' tqùtou' (Kristoforidhis).
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eiue friiliere Nasalierung wiirde das é in der Tonsilbe am besten erklàren , vgl. geg.
«si, wo freilich die Nasalierung e ine liysterogene sein konnte. Die kiirzere Ne-
benform e (à) geht wol siclier auf romanischen Einfluss zuriick: vgl. ruman.
je neben jeste.
War hier sin Zweifel mogKch und berechtigt, so scheint es mir dagegen ganz
siclier zu sein, dass zwei lateiniscke Verbalformen ins Albauesische Eiugang ge-
funden haben, das Imperfect Indicativ und das Plusquamperfect Conjunctiv. "Was
zunàokst das erstere betrifFt, so war die Aehnlickkeit zmschen alb. Uendova 'ich
sang' und ital. cantava schon Bopp aufgefallen, der sich àusserte, 'dass das Albane-
sische in dem vorliegenden Falle uns ganz im Lickte einer romanisclien Sprache
erscheint' (Ueber das Albanesiscke S. 74). Trotzdem war er mehr geneigt dies Prae-
teritum auf -va als urverwandt mit dem lateiniscken Perfectum auf -vi zu identifi-
cieren. Ich kann an dieserà Orte die Griinde nicht ausfilhrlick darlegen, welche mich
bestimmen in den betreffenden Formen entlehnte zu sehen, die allerdings in ikren
Endungen (besonders der 1. u. 2. Person Singular) durck die des alteinheiniisclien
Perfects beeinflusst zu sein scheinen; fur die 3. Pers. Sing. kann man, was oben
angedeutet wurde, vielleicht auch Einmischung von cantavit neben cantahat annehmen.
Am klarsten spiegeln die Pluralformen Uendilame lienduate Uenduane lateinisches
cantdbamuiì cantdbatis cantdhant wieder. lek werde die Grunde filr meine Annakme,
ebenso wie verschiedene hier in Betrackt kommende phonetische Fragen (z. B. das
Verhiiltuiss von o und e im Singular zu uà und uè im Plural, die verschiedene
Behaudlung des iulautenden -b- oder -«-) im dritten Hefte meiner 'Albanesischen
Studien' eròrtern, das sich mit den abgeleiteten Verben des Albanesischen
beschaftigen soli. Von denjeuigen abgeleiteten Verben namlich, die aus der latei-
nischen a- und e- (2. u. 3.) Conjugation eingedrungen sind, hat dies Praeteritum
auf -va seinen Ausgang genommen und sich von dort auch auf einige andrò ver-
breitet. Aus der lat. a- Conjugation stammt der Grundstock der alb. o- Verba
(Praesens -óiì oder -ój); Verba der dritten Conjugation haben sich ihnen angeschlos-
sen, dazu hat man aus einheimischen Mitteln zahlreiche gebildet. Die Zahl der
Verba auf -ón ist so gross , dass ich mich mit wenigen Beispielen begnligen muss.
Aus der a- Conjugation stammen z. B. deserova = desiderabam, durava = durabam,
kuitova = cogitabam, kastigova = castigabam, Uerkova = it. cercava usw. Aus der
dritten Conjugation z. B. dergova ich schickte' = dirigebam^ gemova = gemebam,
digova 'ich hòrte' = intellig ebani, skrova = scribebam, rova 'ich rasierte' = radebam
(r = rd) u. s. w. Aus einheimischen Mitteln sind gebildet z. B. hesoj 'ich glaube'
von hese 'Glauben', emnoj 'ich nenne' von geg. emen Name' usw. Die e- Verba
(Praesens -éii oder -éj) an Zahl viel geringer, tragen zum Teil den Ursprung aus der
lat. e- Conjugation, die in dem Imperfect auf -ébam mit der dritten zusammen
fìel, noch sehr deutlich zur Schau. Man vergleiche pel'Ueva 'ich gefiel' = lat. placèbam,
ndejeva 'ich verzieh^ =:indulgebaìn, skandeva 'ich schimmerte' (Lecce) =z ex-candebam,
vejeva 'ich half = valebam, ureva 'ich hasste' = horrebam; aus der dritten Conju-
gation/ejey a 'ich slindigte' =fallebam, ngeva 'ich bestrich' = ungebam. Hier haben
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sich. Verba der a- Conjugation eingedràngt : kembén 'ich wechsele', vgl. ital. cambiare;
gemii = ich tausche', vgl. it. in-gannare, mlat. gannat; vie mcetn Blanchus = nodare;
l'eri leva 'ich salbe, salbte' ist aus dein Perfect levi zu lino gebildet. Aus dem Slavi-
schen stammen z. B. ìcetséu ich springe, vgl. serb. skociti 'springen'; nderséj 'ich
hetze Hunde', vgl. serb. drskati 'Hunde hetzeii\ Andre siud etymologisch dunkel.
Von Verben der i- Coniugation habe ich nur eines im Albanesischen als i- Verbum
gefunden: dremin sommeiller' Dozon, dremiva = dormi{e)bam; servire ist zu serbén
Das Plusquamperfectum Conjunctiv erkenne ich in dem albanesischen Optativ
auf -fsa wieder. Alb. kendofsa Jieiidófs kendófse Uendófsime kendofsi ìcendófsim ent-
sprechen der Reihe nach genau — bis auf die von andrer Seite her beeinflussten En-
duugen der 1. Sing. und der. 2. Plural. — lat. cantdvissem cantdvisses cantdvisset can-
tdv(i)ssemus cantdv{i)ssetis cantdvissent. Ueber phonetische Einzelheiten werde ich eben-
faUs an jenem andern Orte Grelegenheit haben mich naher auszulassen. Derselbe
Ursprung des Lautcomplexes -fs- liegt in kafse aus lat. causa vor, wàhrend es sonst
auf -cs- zuriick geht (kofse 'Hlifte' lat. cocca, menddfs 'Seide' lat. metaxa; l'afse 'Vor-
haut, Hahnenkamm" lat. laxa (cutis)?) oder in etymologisch dunklen Wòrtern steht
{grifse 'Elster' zu friaid. grip ' spechtartiger VogeF Pirona? kafsój neben kapsój
'beisse'; kofste neben kojjst 'Garten'; ofs 'Zugwind'; anlautendes /s- in fsat 'Dorf"
nebem rum. sai "Dorf';/se7t 'ich verberge'; fsin ich kehre', fsese 'Besen', neben
psiìi mesiìi). Die Form auf -fsa hat im Albanesischen eine viel grossere Ausbrei-
tung gefunden als das Praeteritum auf -va (z. B. auch kofsa 'ich mòchte sein').
Was die Bedeutung betrifft, so braucht wol kaum daran erinaert zu werden, dass
der Conjunctiv des Plusquamperfects im Eomanischen iiberhaupt aus seiner Zeit-
sphare in die des Imperfects iibergetreten ist; doch muss hervorgehoben werden,
dass das dem Albanesischen sonst vielfach so nahe stehende Eumanisch diesen
Uebergang nicht mitgemacht hat, sondern den betreffenden Formen die Bedeutung
des Indicativ Plusqiiamperfecti gegeben hat.
Aus den ùbrigen Wortclassen hebe ich an dieser Stelle auch noch einige her-
vor, obwol diese Entlehnungeu eigentlich in das Grebiet des Lexikons gehòren.
Indessen schneiden sie doch tiefer in den Organismus der Sprache ein, als sonst
"Wortentlehnungen zu tun pflegen. Von den Zahlwortern fiir 'hundert' kint und
'tausend' mije war es làngst bekannt, dass sie dem Lateinischen entnommen sind;
auffaUiger, wenn auch durchaus nicht ohne Analogie in andern Sprachen, sind
Entlehnungen bei kleineren Zahlen, und ich habe es im zweiten Hefte meiner 'Al-
banesischen Studien' wahrscheinlich zu machen gesucht, dass die Bezeichnuugen
fiir 'drei' tre, weiblich tri, und fiir 'vier' kater entweder aus dem Lateinischen
stammen oder doch wenigstens unter dem Einfluss der entsprechenden lateinischen
Zahlworter lautlich modificiert worden sind.
• Aus der Reihe der Praepositionen dùrfen die folgenden mit mehr oder weni-
ger Sicherheit als romanisch in Anspruch genommen werden: per= lat. pe?- und^wo
(wie ini Italienischen und Rumilnischen), nde 'in' =lat. intus, nder 'zwischen" = lat.
— 110 —
iiiter, siiìer sipre anf = lat. super, himdre 'gegen'^lat. contra, poste 'imter' z=lat.
post. Auch zusammengesetzte Praepositionen verwendet das Albanesische in aus-
gedelinter Weise wie die romamschen Sprachen: vgl. ndepér , permhi , perpós m. a.
brenda mhrencla perhrenda in, innerhalb' scheint \&i. lìer-intus mit einem angetre-
tenen Element -a zu sein; afer 'nahe bei' ist vielleiclit ad-foras (dodi vgl. rum.
afdre 'draussen'); das Praefix sfer- tei--, von dem bei Kristoforidhis S. 164 reichliche
Beispiele stehen , ist = ital. stra- , riiman. stre-; die rumanische Gebrauchsweise z. B.
in strebun ' Urgrossvater ', strenepot 'Urenkel' stinimt durchaus zu der albanesisclien
in stergus '5rpó/:a:i7to?', sternip 'Urenkel'.
Von den Conjunctionen ist e 'ixnd'=:lat. et, ital. e; das gleichbedeutende eSe
'und' ist damit componiert, der zweite Bestandteil, der in der Bedeutung 'aussi,
meme' auch selbstandig vorkommt, wird griecMsches òs sein, wie ja auch die
iieugriechische Praeposition [j,é 'mit' als me ins Albanesische Eingang gefunden
hat, und wie as vor dem Imperativ ngr. a? =afBz ist. a 'oder' ist lat. aut; es ver-
hàlt sich zu ruman. au, ital. o ebenso wie alb. ar 'Grold' zu rumàn. au?-, ital. oro.
In as 'nicht', as-as 'weder-noch' ist dies a mit der Negation s zusammengesetzt
(wie in mos aus mo, urverwandt mit griech. [iij, und s), die nach Mildosich's Nacli-
weis (Alb. Forsch. II 22) aus lat. dis- entstanden ist. Auch die Negation nuke, in
Italien nenke, ist, wie Schuchardt erkannt hat, lateinischen Ursprungs: nunquam;
er vergleicht indoport. nuca^nm. Italienisches ma 'aber' ist, wie ins Neugriechische,
so auch ins Albanesische eingedrungen; frllher hat lat. -magis als me, gegisch ma
beim Oomparativ (der auch im Kumanischen mit mal umschrieben wird) Aufnahme
gefunden, wie ja auch die Gradadverbia sume und fort 'sehr', pak ' wenig' lateini-
schen Ursprungs sind. In der gewohnlichen Adversativpartikel pò 'aber', wofilr
Rossi und Kristoforidhis die Nebenform por bieten, erkenne ich lat. porro, das 'zur
Angabe des Fortschreitens von einem Gedanken zu einem andern, selbst zu einem
entgegengesetzten ' gebraucht wird; identisch damit ist das pò, das dem Praesens
und Imperfectum in der Bedeutung 'bestandig, immerfort' vorgesetzt wird. Dass
Ice 'dass' lat. qiwd oder quidisi, wie im Romanischen, wurde schon oben beruhrt;
se 'dass' ist, wie ruman. se 'dass', = lat. si. Kur'waxai ist zunachst mit provenz.
quora quor aus qtia liora zusammen zu stellen.
Zum Schluss werfe ich noch eiuen ililchtigen Blick in die Woetbildungslehke.
Suffixe, welche nur an lateinischen Lehnwòrtern vorkommen und sich nicht leben-
dig genug erwiesen haben die einheimische Wortbildung zu befruchten, konnen na-
tiirlich hier nicht berlicksichtigt werden. So ist -fe( = lat. -iàtem nur an lateinischen
"VVorten Qiutét, pustét, sendét, vulndét, vertét) nachweisbar. -ture aus lat. -tura hat
wenigstens einige Neubildungen, wenn auch nur aus romanischen Elementen,
aufzuweisen {(jumture.i^juHctura, undure = unctura, feture-=factura, neben deture =
^debitura, sembelture semtur ^* simìlatura); mendure aus ital. maniera ist solchen Wòr-
tern angeglichen. In den Kreis der vorliegenden Studie faUeu aber eigeutlich nur
solche lateinische Suffixe, welche auch aus albanesischen Wortern neue BUdungen
geschaffen haben. Von ihnen habe ich bereits im ersten Hefte meiner ' Albanesischen
— Ili —
Studien " einigo nachgewiesen. So -im aus lat. -imen, wie rumali, -ime, Abstracta
bildeiid (S. 49), -dr aus lat. -àrius (S. 58), -titar -tor aus lat -tór (S. 59), -i aus ro-
man. -ia (S. 71), das Femiiiiiia bildende -ese^rom. -issa (S. 82). Ich fiige hinzu,
dass mir die Abstracta auf -fise, von denen ebenda (S. 81) Beispiele verzeichnet
sind, aus deii lat. auf -enfia (Diez II 384) entstaudeii zu sein sclieinen; den Beweis
far diese Behauptung eutliiilt das zweite Heft der ' Alb. Studien '. Auf die Ueber-
einstimmung der ruinaiiischen Adverbia auf -easte mit den albanesischen auf -ist
hat bereits Diez, Grammatik II 461 hingewiesen.
Gustav Meyeh.
STUDIEN
ZUR HLSPANISCHEN WORTDEUTUNG.
1. A(;amo.
AgAMO AgAiMO, Port.: Lederriemenzeug , welclies ah Maulkorh dient (fiir Hunde,
Frettchen, junge W'ólfe etc). Domingos Vieira erklàrt: Cabrestilìio ou focmheira que
jorende as maxillas fechadas por melo de urna liga de correla ou camòa afivelada por de-
traz das orellias do animai que se quer impedir que morda. Der « Maulkorb » wird auf
der Halbinsel eutweder als ein Theil des Riemen- und Sattelzeuges aufgefasst iind
« Ziigel » oder « Zilgelchen » benannt, (port. freio und cahrestiUw ; cast, frenillo)
oder aber als « Mundstiick » bezeiclmet (cast, bozal port. focinheira; cfr. frz. museau;-
ital. museruola, musoliera). Welche Anschauung liegt nun dem nooh nicht gedeiite-
ten'' A(?AMO zu Grunde? loh glaube die erstere. Doch sehen wir zunachst den
Lautb estand des "Wortes an.
Neben dem Substantiv steht das Verbiim acamar acaimar = den Maulkorb
anlegen, im realen Sinne, so wie in bildlicher Verwendung als zugeln, zdumen und
zàltmen. ' Das Zeitwort, welches heiitzutage kèine andere Bedeutung als die ange-
gebene bat, j^ònnte selbstverstandlich sehr wohl veni Hauptworte abgeleitet sein;
doch ist auch. das Umgekehrte inòglicb, in acamo acaimo ein aus aqamar agaiviar
gezogenes Verbalsubstantiv zu erkennen. Ob letzeres der Fall, ist die zweite Frage
die beantwortet werden muss ; und in engem Zusammenhange damit steht die dritte :
ob eine, und welche, von den Parallellformen mit ai und a die ursjjì-ungliche , frilhere,
und welche die spdtere, abgeleitetc ist; oder ob wir es etwa mit Doppelungen zu
thun haben, die in keinem genetischen Verhaltnisse zu einander stehen, mit Dou-
bletten, welche sich auf verschiedenem Wege aus ein und derselben Urforni ent-
wickelt haben.
Die Formen mit a sind seit dem 16ten Jahrhundert die in der Sclìnftspvaclie
' Die hebràìsch-arabische Herleitung port. Lexikographen welche auf ein Verbiun kammalcainam=^biìiden
be/esiigen hinweisen, diirfen unberiioksichtigt bleiben.
' A9AMAR, A{iisiAK erklSren die port. Worterbiiclier dni'ch « jju)- agamo, calresto, fiscella para evitar que um
animai morda.... ou coma os gommos das plantas.... ou manie. Fig. contcr, pOr mordacia , fazer calar, ter mao na
lin;/ua, refreiar , domar (a ira, a iiiveja, os ventos,"
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ausscldiesslicli ilbliclien, welche selbst vou den volkstumlichen Dichtern Gii Vi-
cente , ' Jorge Ferreira de Vasooncellos und von Meudes Finto etc. benutzt wiirden.
Die Formeu mit ai siiid heute in der Volkssprache iiblich, und wiivden bereits von
den ersten port. Lexikographen gesammelt, von den Puristen aber als fehlerliaft
verdammt. ' Dass sie gute alte Worte sind , làsst sicli auf historiscliem Wege nicht
beweisen, ist jedocli ohne weiteres auzunohmeu, falls ikr ai sich lautgesetzlich
entwickeln lasst.
Directer Ubergang von a zìi «t, oder nmgekelurt von ai zu «, ist auf port. Bo-
den nicht moglich: a an Stelle von urspriiuglicliem ai kommt iiberhaiipt nicht vor;
WG wir aber ai an Stelle von urspriinglichem a finden, eutstand es ausnahmslos
durch Attraction. Ich erwahne nur einige bis heute gar liicht, oder schlecht, gè-'
deutete Beispiele. Aplainar ist plan-iare; e.sfaimado ist ««-/(««-««cZo; j^airar, j^ctc-ifarc;
saibro ist sabrio fùr sabro , lat. sab(;ìf)lìiìn; caibro ist cabrio flir und neben cabro,
lat. capulum; aidro geht auf atrium zurllck, wàhrend adro sein i eingebiisst hat; ''*
aibro neben abro ist àj){e)rio wie caibo, capio; saibo sapio j pairo, pano (von paj-ere).
Taimbo neben tambo; caimbo neben cambo und gelehrtem cambio; caimbra caimba
neben cambra, camba; caiso, neben caso (Gr. V. I 137 ; Miranda ; Damiào de
Goes etc), das sich zum volksiiblichen cajo (G. V. Ili 134, 161) welter entwickelt
hat, und viele andere archaische und populare Wortformen lassen sich auf die-
selbe Weise erklai'en, ' — durch Einschub eines i in die Endung, das hernach vom
Stammvokal attrahirt ward. — Falls also von agamo auszugehen , so ware acaimar
wie aplainar, esfaimar , ijairar zu beurteilen; acaimo aber ware cine postverbaU Ami-
logiebilduiuj.
Es bleibt jedoch eine andere Moglichkeit zu erwagen: acaimar und a(;amar
kònnen, an verschiedenen Punkten des port. Sprachgebietes , aus ein und demselben
àlteren acalmar entstanden sein; nachher aber diirften sie weitere Verbreitung ge-
funden haben. In Lat. AL + iaò {v oder m) ware einerseits das l dem niichstfolgenden
Labial assimiliert worden, wie z. B. in caveira aus ccdoeira (calvaria, cast, calaoera)
in cavilha aus calvilha filr clavilha (lat. clavicida) und in safo filr savo aus salvo (?); "*
' G. V. Ili 11. 361 iu fig. Torwendiuig:
Af^amac qualquer ci-iado
que nSo seja (diz a grosa)
mais que vós, à custa vossa,
adoiado.
Die sonstigen Stollen suclie man im Worterbuche der Akademie, Dom. Vieira etc.
' Francisco José Freiie, Reflesòos II p. 3G, Cand. Lus. , und andere.
' Saimùo neben samào in sino samUo = Zeicheìi Saìoìiiouìs , rentaiìmmma geh'órcn nicbt hierher. Sainuw ist
So.{l)imSo ; Samào hingegen Sa{ì)amào.
' Dnter dasselbe Gosetz faUen c/iKjwa neben cìmva, aus altem cliimia =pluviit ; wntuim; Estiiii-as Astidraa;
cuìrar neben curar; murmuiro; coima=-comial fiir comc{d)al ; /eira —/(.rial, und vi eie andere altport.und dialektisclie
Formen in denen ai (e;) und ui Coi) sclioinbar einfaohem a (e) und ti (o) entsprechon. Das port. Volk begiinstigt mit
grosser, sichtUcher, VorUebe die Endungen -io -ia und vermeidet einfaches -o -a, wie ioli bereits des ofteron
gesagt [z. B. Zeitsclirift , voi. VII p. H5|. Zu FMsia, landria, ìesmia, ondia fugo ich nun vulgares adubio, acasio, blusia,
ìieria invernio , irla, mdmia, (taigilia; gali, cirrio, dmvia, oslria, quixilia, midia, urnia, und astur. almia, guardia,
mttrio, nervio, sebia, lujulia.
' Man vorgleiohe auoh cast, sax caz aus salcc calce (neben sauce cavee), lat. salice calice.
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andererseits aber wàre l in i aufgelòst worden, Avie z. B. in aivado neben alvado (Ab-
leitungen von alvo filr alvio , lat. alveum) ; aivào neben aloào otc. '
Acamar und acabnar kònnen also auf verscliiedenen, dialektisch abgegrenztenj
Gebieten erstandene Vulgairformen von acalmar sein , welches fviiher neben beiden ,
jedocli mit abweichender , ursprilnglicherer Bedeutung bestand.
Dies aqalmar nanilic}i ist ein im Altportugiesischen (in Documenten, Gesetzbii-
cliern und Chronikeu) viel gebrauclites Wort, welches Fernào Lopes, Euy de Pina
und Azurara verwenden. Acalmar — aieben dem die Hauptwòrfcer aqalmo und ac^al-
mamento vorkommen — bedeutet ausrusten, Provicvnt lierheischaffen ; verproviantiren;
mit Munitioìi, Kriec]smaterial, Bpehe und Tranlc versorgen. Die Belegstellen sind ùber-
aus zaMreich. Einige wenige seien angefiilirt:
E nào tinlia o castello de Villarinho agua nenhua, nem almazera nom acalmamento
nenlium. (Doc. vou 1370 boi S. Rosa de Viterbo).
E pois a cerca da villa estava bem afortelezada e acalmada e percebuda d'aquellas cou-
sas qua Ihis comprem. (ib.).
Mas nào he de crer..., qua a nom leixassem acalmada pera muyto mais tempo. (lued.
I 472).
E vendo D. Duarte comò uom tinba hi acalmo pera ter assi aquella fortaleza (ib. Ili 79).
Agalmou muy bem suas fortalezas (ib. Ili 86).
Fortalezas agalmadas de qnantos mantimentos o mostre em ellas qnis meter (ib. Ili 88).
Por elles Ihe darào acalmo com que se possa manter (ib. II 481).
E vendo comò nom tinham acalmo pera ter alH aquella fortaleza (ib. II 623).
Certo seede que ella està agallmada do que ha master pera dez annos (Port. Mon Script.
127).
Repairou todas as fortellezas da villa e acalmou a o milhor que pode (ib. 29).
Vejam os nossos castellos corno estào acalmados (Ord. AfF. I, .5, 12).
Als Nebenform von acalmar, das bisweilen, durch leicht erkliirliclie Schreib-
und Druckfehler zu acalmar entstellt ward, ' verzeiclinen die Worterbtìclier (Moraes,
Constancio etc.) ein hocliwichtiges snhnar, das mir, weun die Erinnerung uicht
tausclit, in den « Livros de Linliagem » begegnefc isfc. Leider kann icli die Stelle
nicbt finden. Indirect wird die Existenz der Form durch ein provinzielles , in der
Umgegend von Lissabon tìbliches salmejar bestàtigt, welches den Sinn Lasten in
Kriegszeiten an helagerfe Pldtzn schaffen zu dem besohriinkten Spezialsinn Getreide
zur Tenne scldeppen verandert hat. '
Angesichts der Formen salmar und salmejar darf man acalmar, das also fiir
asalmar stando, und ferner das Zwillingspaar acalmar (warnar aus lat. salmare fiir
Man vergleiche aueh andai, und knbanisches caicalar aus calcular; vaiga fiir valga; saiga fiir salga; iatcon
fiir liidrmi ; aigo fiir alga; und ferner port. ni aus ul in multo, Imitre, cuitello, escuitar. Altport. eigo fiir efgo, und eibi-
tnir aus aihitrar filr arbitrar gingen durch die Zwischenformen elgo und alhitrar.
Està terra estava muito acalmada de muitos toueinhos e lenBa (F. Lopes, D. .loào I cap. 18).
E acalmousc de lenhas e carnes e outras cousas que pera defensào pertenciam (ib. cap. 101).
E pera repairo e acalmamento das dìctas artelharias na comarqua da Beira mandou novamente fazer a
tarecena da Villa do Pinhel (Ined. II 80).
' Im Cast, bedeutet salma eine Schiffslast (von 20 Centnern).
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sa(/niare* von sagma (Isid.), griech. aàviia = Saiimsattel , deuten (woher sagmavius =
Saumtier, Lasttier).'' Die Prosthese von a bedarf keiuer Erklaruug; 5 au Stelle von
ani. s, besonders nach Vorsatz des a, liat gleiclifalls niclits nngewòhnliches. Man
vergleiche acarUhado neben ensarilhado; qafara acafra neben safra; celga acelga, arabi-
sirtes sicula; acetre accter arabisirtes situla; acemite neben semite etc. In acalmar
konnte das Bediirfniss nach einem ausserlichen Unterscheidnugszeichen von salmo
ensahnar etc, d. h. von den volkstiimliclien Vertretern uud Derivaten von jjsahmts,
das ganzlicbe Verschwinden der Form asahnar veranlassen.
Was die Bedeutung betriiìffc, so wàre man bei aqalmar von dem Begriffe ehi
Saumtier zum Ahmarsch hereit machen; Sattelzeug anlegen; satteln^ r'ùsten und beladcn,
zu dem speeialisirteren gekommen; die vom Saumtiere in Kriegszeiten gescìdeppten
Lasten, d. li. Mimition und Proviant, im tueitesten Sinne gefasst, an iliren Bestimmimgsort
hringen; verproviantiren. '" Bei acaimar acamar bàtte man den Begriff des Sattelns
daliin bescbrankt dass er nur das Anlegen eines Teiles des gesannuten Saumsattelzeuges,
nilmlicb des Maulriemenzeuges, bezeicbnete.
Sagma lebt im Neuport. als Simplex nicht welter. Altport. xalma (gali, xalma,
aspan. jalma"^ enjahna) ist bekannt. In-sagmare" ward enxalmar, woher das seltene
Masculinum exalmo, " neu enxalmo =1 Deche ivelche uher den Tragsattel, die sogenannfe
« alharda » , gebreitet wird.
Die Form sauma, welclie im Kast. soma somern etc. ergab, liat in Portugal keine
Spuren binterlassen. Someiro (arcliit.) ist daselbst ein dem Spauiscben entlelmtes
Wort.
Agaìiiar auf saumare , statt auf salmare zuriickzufiibren (wie man angesiclits
von agosto agouro ascuitar versncht sein konnte zu tun) geht daher nicht wohl an. '
Zur vollstilndigen Sicherung diesar Herleitung von aqamar agaimar aus acal-
mar, und von agaimar aus salmare fiir sagmare, miissten im Altport. die Formen
asalmar asahnar asamar gefunden werden.
' Port. Lexikographeu lelten ai,'Almo von einem lat. salmagum ab.
' A941.MÌK: prone?', abastecer, fortaìecer coni muni^òes de bocca e petreclios de guerra; guarnecer, fortificar urna
praga, reparal-a, e i>rovel-a de lodo o preciso para o tempo da guerra. — A^almo ai;almamekto: defenaào, guarda,
provimento , reparo.
' Jalma nocli in Gruzman de Alf. I p. 81.
' S. Rosasagt exalmos=-cnxergaa. — Cfr. Boav. n 51. E eia tomoti os ydolos, escondeu-os so os ex almo a do ca-
mi'.lo etc.
^ Ein seltener, so viel ich weiss . noch nicht beachteter Fall von aclieinbar toniragendem a fìir au {ao) liegt im
.^It- nnd vulgairport. md fiir mau vor, um so beachtenawerter als daroli die Heruuterdriickung von au zu o der
geschleolitUohe Untorschied zwischeu malus (mau) und mala (ma) ganz verwischt wird. Ich denke an G. V. m 18, wo
ma doairo, ma irentairo, ma vizinho, ma dado , mafado, ma prado; TU 99 ma pesar (I 2G7 dieselbe Formel) in schein-
bar ganz willkiirlichem Wecbsel mit stets einsylbigem mao stebt, z. B. in mao criado, mao mandado, vtao vigairo,
mao amigo, vmo abrigo. Im Volksmiinde sind beute noch Formein wie md-tipo md-mez etc. gebriiachlich. Ein
Kinderrefm beginnt : Oh nii;o de md pello, de md casta e de md cabello. Der Fall erklart sicb wohl in folgender
Weise: hiiufiger gebrauchte Wendungen fallen unter cinen Wortaccent; Adjeotiv und Substantiv.verwaohsen zu
einem Begriife und mau wird tonlos ; wiihrend in neugebildoten, wenig ùblichen Formein das Adjectiv seinen
aelbstandigen Accent bewahrt and unveriindert bloibt. Wie aber ist crasta—clnuslra z« beurteilen ? Hat craslo —
caalrum darauf eingcwirkt, tontragendes au zu a absohwiichond?
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2. Al^apào.
Port.: Klaj)j)e, FaUtlìr, ubertragen Vogelfalle mit Klapi>tni: Porta ou lampa sabre
urna ahertura feita nwn pavimento para o communicar com o qiie Ihe fica por haixo; porta
cm plano liorizontal que aire de haixo para cima. Coelho sagt tìber die Herkunft des
"Wortes in seinem noch unvoUstandigen etymologischen "Wòrterbuche : de al^ab; o
elemento PÀo e assa2 escuro. Anderweitige Deutungsversuclie kenne ich nicKt.
Alqapao ist in meinen Augeu niclits anderes als ein dem port. Volksmunde
zngehòriges alcn-jjòe, d. li. es bestelit aus den Imperati ven von algar und jjòer (heiite
por), bedeutet: heh auf und lege nieder, und làsst sich neben àhnliche Bildimgen wie
vai-vem=Schaukelbeioegung und alqa-prema = Hehel (kast. aucli aha-prim(ì) stellen. Man
vergi eiche atich ganlia-perde, kast. ganaplerde= Art Kartenspiel in dem geioinntioer ei-
gentlich verlieren m'dsste; passe-passe una p>assa-passa^= Taschen.spielerkunststilck,' luze-
liize = Leuchtkdfer ; mulhe-midke = feiner Sprilhregen; aport. murde-fuge, kast. muerde-
hiige; tanje-tanje; kast. quita-pon neben quita-i-pon; hulle-bidle; tolle-tolle; coj-coj; gana-
gana etc. etc, denn die Reihe der volksiiblichen Zusammensetzungen diesar Art ist
noch lange nickt erscliopft. Nebensachlich ist, fur meinen Zweck, ob in alien diesen
Formen tatsachlich, oder uur im nmdeutenden Volksbewusstsein , ein doppelter Im-
perativ steckt, wie letzeres z. B. in chantepleure , port. cantimplora der Fall ist (das
nebenbei gesagt zìim ersten Male in den « Peregrinacoes » des Portngiesen Fernam
Mendes Pinto erwàlint wird), und in dem port. Ortsnamen Brite-ande.
tjberraschend bleibt freilick die Verundeiitlichung des Begriffes in der Ver-
wandlung von alca-pòe — in welchem eine characteristiche , vorziiglich klare
Bezeielinung der liier zu Lande noch beute selir liblichen Art von Thiiren steckt —
zu dem unverstàndlichen alcapào. Wie haben wir uns den Vorgang zu denken?
Zwei Moglichkeiten sind vorhanden. 1") Der Plural des Wortes hiess friilier, als
alqa-pòe noch lebte, und heisst auch beute noch, alcapòes. Die ungeheure Schaar
der port. Substantive , deren Plural die Endiing òes hat, lautet nun bekanutlich
im Singular auf ào aus, gleichviel ob es sich um lateinische Urbilder in one han-
delt, oder um germauische Stàmnie, oder um arabische anklingende Formen {razào
razòes; halcào balcSes; limào limòes). Im Gedanken an diese Singulare konnte man
aus dem Plural alcapòes, in welchem das darin ruhende Bild bereits verdunkelt
ist , einen falschen Singular alcapào abstrahiren. 2") Oder alqapòe ward zuerst alcapoè,
dann algapovi; von alcapom zu alcapam, alc^apào aber war nur ein Schritt und
zwar derselbe Schritt zu tun, welchen die Sprache bei jeglichem Vertròter von
one getan. Fragt man nach Beweisen, nach anderen Fàllen, in. denen 5e zu oè, ào
ward , durch die nachzuweisende Zwischenstufe om , so verweise ich auf die lange
Reihe der portugiesischen Reprasentanten von (und Analogiebildungen nach) la-
teinischen Substantiven mit dem SufSxe -fudine -tu{di)ne -dune, welchen im kasti-
lianischen das lautlich so weit abUegende -dumbre entspricht. Aus urspriiiiglichem
didc'dòe limpidòe mansidòe midtklde escuridòe ward dulcidoè, dann dulcidom und
schliesslich didcidào, wie Coruu es bereits klargestellt hat (Rom. IX, 97).
118 —
3. Alinhavào.
Alinhavo alinhavào, Porfc.: Heftnaht. — Alinhavar : hef'ten, mit grossen Sticlien jillchtig
niihen. — Angesichts cles span. hilvan Mlvanar, des frz. fcmfiler (vgl. auch morfil =
mori fil) kann man in der port. Bezeichnung der Heftnaht und des Heftens nur
die Worte a liiiha va finden d. h. falscher uwudzer e.itUr ungiilfiger Fachìi, und falsch
d. i. unn'dtz eitel ungilltig fadeln oder nciìien. Das Garn mit dem man nàht, sowie der
einzelne Faden in der Nadel heisst im port. linha d. i. linea = der leinene , und wird
stets da verwendet avo der Kastilianer hìlo gebraucht. ' Das anlautende a dùrfte ohne
Bedenken als prostlietisches aufgefasst werden, doch kònnte es auch in einer Re-
densart wie coser oder costura a linha va seinen Ursprung haben. Die alte eìnzig
richtige Schreib- und Sprechweise alinliavam bietet noch Blutean. ' Die Entstellung
zu alinhavào trat also spàt ein, und zwar weil man in alinhavào ein Augmentativ
von alinhavo zu erkennen glaubte, wahrend die letzere Form die jiingere, erst aus
'alinhavam abstrahierte ist. Von alinhavo leitete man das Verbum ab. — Cozer em ««ò,
dar pontos em vào sind beute noch llbliche Schneiderausdriicke und entsprechen dem
deutschen hohl nahen, eine verlorene Naht nàhen.
Fine blosse Ableitung von linha vermittelst der Suffixanfiigung ist alinhavo
alinhavào also nicht. Ein Suffix avo ist nicht nur unubUch im Port., wie Coelho
sagt, ■' sondern existirt iiberhaupt. nicht. Wie in alqajjùo haben wir es also auch
hier mit einem Missverstehen verdunkelter Flemente zu ti^u, das sicherlich in man-
chem schwer zu deutenden, noch unaufgeklàrtem Worte aller romanischen Spra-
chen eingetreten ist.
4. Bagoa.
Gali.: Thràne z. B. in deu « Cautares Gallegos » p. 96. 97. 151. Kil. Trotz des
im Port. Gali, ungemein haufigen Wechsels von b und m ' hat bagoa vagoa nichts
mit port. magoa (lat. macula) zu tun. Es ist vielmehr ein Diminutiv 'Von bacca,
lateinisches bac{c)ida = Ideine Beer e, Perlehen. Einen dicken Thranentropfen benennt
auch der Portugiese mit einem Derivate von bacca, Beere, namlich mit bagada, der
Gallizier mit einem anderen: bagnila das sich zu bacctda verhiìlt wie betulla (kast.
abedid) zu betula (port. vidoìleiro). Ein Beispiel stelit in den « FoUas Novas » p. 145.
' Ob der in alten Zeiten hocliberillunto spricliwcirtliclio hilo portugucz ein Leinen- oder ein Seiilenfadon war,
ist noch niclit ermittelt.
■ Ai-isiiAVAM. Termo de Alfayate : Uolnr um alinhavào vai o mcmio quo alinliavar.
^ A prcflxo e LiNiiA ; dcrivat^ao insolita.
' Einige weniger bekannte Formon sind; solivào fiir solimào G. V. II 521; abem fiir amem II 502, woriu das
Bediirfniss das Worfc verstandlioher zu machen, unverkeunbar ist; vulgport.: borno= marno; husaraHhat= musa-
ranfia; viorimundo ^ moribundo (vgl. voAjammido = vagabnndo); rcmcnencia = reverenda; comenencìa = coveneneia
fiir cOHvenenela; Maloina neben Balvina Balbino ; maganno fiir altport. t^aganao; monvedro nobon nnd fiir Somvedro
(d. i. bonus-veluìus); melharuco neben und aus abelliarùco eto.
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5. BlBLA.
Kast. arag. Urla, alfcsp. bùio: Kiì<jd; port. bilro (gali, vilrn): Kagd. und Kloppd.
Beiden Holz-Drechslerarbeifcen ward der Name gegeben in Anbetracht ihrer
birnenformigen Gestalt, d. li. die betrefFenden Worfce sind nicbts anderes als
\a.i. pyrulum, dimin. von pijrumz^zBirne. — Cfr. -^oxi. pelra una perla iiiv parola; bulra
neben burla; bolra fiir boria; Calros fiir Carlos; galrar fiir garlar (lat. garrulare); palrar ,
von frz. parler oder aus altem parolar, das seinerseits frz. Urspruugs ist; gali.
belriìia fiir berlina berliiida; melruza fiir merluza (lat. inaris lucia); escalrata fiir escar-
lata; cholrito fiir chorlito ; altporfc. alrotar von arlote etc.
Fiir die Schwàcbung des anlautenden jj zu b (imd im Volksmunde bis zu v)
Beweise beizubringen, ist eigentlioli miissig. Man erinnere sicb au bostela aus
pustella, fiir j)j(fs^«?« ; an belliscar neben pelliscav von pelle; an begoaria abegoaria
von pecus; an bispo aus {e)piscopus, an bodega aus {a)potlieca; an Beja aus Prtas
/«Zia; an Badajoz aus Pcèìc Augusta und vergieiohe &?«> (N° 10) und bolor (N° 8).
Die Tennis hat sicli iibrigens in einer anderen port. Ableitung von pyridum
erhalten: in p)ilriteiro [pirllteiro pielriteiro perliteiro), dem Nameu eines dem wilden
Birnbaum nalie verwaudten Laubbolzbaumes port. Wàlder (Bussaco), desseu kleine
làugliche Friichtclieu man pirlito{s) und pilrito{s) = Birnchen nannte. Das aucb in
spau. Wòrterbiichern umgebende, daselbst mit Weissdom iibersetzfce Wort felilt in
Colmeiro , Dice. Bot. — Die port. Lexika erldaren : pianta da familia das poma-
ceas Grafcoegus oxyacantha, tambem chamada estrepeiro ^ espiinlia branca
e espinheiro alvar de casca verde.
Pilrete — wie ijilrito Diminutivform eines in diesar Gestalt niclit melir vorhan-
denen pilro — bezeiclinet einen seltr kleincn Menscìten (Ideiner Kegel, kleine Birne).
G. BlELOCHA.
Kast.: Papierner Kinderdrache; mail, und arag. milocha; kat. m.ilnca; valenc. mi-
loja. Ich kniipfe meine Deutung an die nicht-kast. Formen; ist sie richtig, so
stelit birlocha fiir bilocha mit seltner Epeutliese von r vor l, die kaum anders als
durch Umdeutung, durch Anlelinung an Urlo birla zu erklaren ware, falls nicht die
Eeihenfolge bilocha bilochra bil-r-ocha birlocha auzusetzen ist. Bilocha milocha miloca
miloja sind, was den Stamm ■mil- betriift, eins und identisch mit viil-ano Hiihner-
geier (lat. miluanus von miluus), den der Spauier wegen seiner oft ausdriicklich
als vilz=iiiedrig gebrandmarkten Eigenschaften auch zu vilano umgedeutet hat.'
Das characterlose Suffix amis ist in den Volksmundarten der Halbinsel durch
andere, kràftiger kliugende vertrieben worden; in den oben genannten Formen
durch odia oca ' oja; im port. wo milhano provinziell noch iiblich ist, durch
Siehe z. B. Cai. e Dym. p. 22: Et otrosi el mil ano, maguer que C3 cerca de la corte del rey, non le rohdician
nin le quercn, mites le eclian lucTie, i>orque es o il et non mliefacer cosasiiion mala e enojosa. — CCr. Ib. p. 30 etc.
■ Im Port. ist. JSIilocas eine Koseform des Namens Emilia,
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oto in mioto und minhoto ' und durch afre in mllhafre , hiìhafre , hilhafrào bidhafre; '
im Gali, durch ato und oto in minato minoto. — Dass der Papierdrache oft Vogel-
namen tràgt, ist bekannt: port. papagaio; afrz écoufie; kat. fjrua; span. (gali.) cer-
nicalo (Cfr. Cerniglo N° 13). Sonst fùhrt er auf der Halbiusel auch die Bezeiclmung
Steni {eatrella port.) und Komet {cometa kast.).
7. Bis[s]alho.
Port.: Sàckchen Taschchen; im aport. iiblich (z. B. Cane, da Vaticana 932),
dock auch heute noch vorhanden. Ist hissac{c)ulum. Cfr. malha =^ maciila; grallia =
gracula. — Dies zu Diez I 70 bisaccia.
8. Bolge.
Port.: Schiinmel, Moder. Ableitungen davou siud das Verlìom bolorecer , und
das Adjectiv, òo/oroito; dialektisch (gali.) balor valor barol varol; abarolecer borolecer
horelecer bolorecer bolerecer; balorento barolento valorento varolento. Port. Nebenform ist
boror bei Jorge Ferreira de Vasconcellos, Eufrosina p. 118. Idi balte das Wort
fiir ideutiscli mit lat. ^jaZ/or, palloris., das bekanntlick bei Vitruv, Vergd, Lucilius
und Columella bereits Moder und Sdiimmel bedeutet. '
B an Stelle von pj wie in bilro und buir (5 u. 10). Protonisclies o au Stelle
von a- besonders unter Einwirkung des Labials wde hier, ist uicbt auifiillig, um
so weniger als in unserem Beispiel auch Assimilation an den folgenden toutra-
gendeu Vokal eingetreten ist. (V. Soturno N'^ 40).
9. Bugio.
Port.: Affé, Meerkatze. Von Bugia in Nordafrika, dem Handelsplatze , welcher
ehemals Europa mit Kerzen, und mit afrikanischen Affensorten und Zibethkatzen
versorgte. Man vgl. Are. de Fita 311-361, die Geschichte des Don Gimio , alcalde
de Biixia; sowie Cane. Gen. II 229 monos de Bugia. Die Kerzen, frz. bougies,
' Cfr. G. V. 1 101, 1«; m 120 und die Kinderreime : Minhoto minhoto, quc Uvas no nolo? und Minhoto, miDhoto
faze urna rodinlta que m te darci umapitinha, — Minh{oto) konnte avis mìlh-(olo) entetandon sein (vid. milhafre_ etc.) da
Eintritt von m/j fiir Ih, wie umgekehrt von Ih fiir nk, im vulgport niclit zu den unmogliohen LautontOTckelungen
gehort [enxidha-iuT enxunha d. i. enxundia (axungia) ; calhama^o fiir canhamugo , cub. niiillar und gmyar fiir gtiinar etc.
da im Cub. Il und K hiiufig verwoohselt werden]. Doch ist es eben so gut denlsbar dass miìthoto sioh aus mioto
(fiir miloto) entwiclselt hat, gloiohwie ninho aus nio {nidus) minha aus viia (mea) minhoca aus mioca (von mina) louvor
minhar aus altera hmvamiur liervorgingen , woruber spater ausfiihrliches. Dass minhoto jedooli im Volksmunde
vorwiegondo, ja fast aussohliessUclie Geltung gewonnen bat, mocbte sioh daraus erldiiren dass minhoto auch
einen Einwohner dor Provinz Miiilio bczeiohnet und der Vogel somit scherzend von den Proviuzialen als ibi-
Landsmann anerkannt wird, ein boser Landsmann dem sie manches Ilvihnchen als Tribut zahlen miisseu!
■ Die Endung a/re ist mir sonst nur aus cs2»nafre — Spinai (auch spinascos pinascos) und aus cast, golafre.
bekannt. Das r konnte epenthetisoh sein wie in chefre tabe/re eto. Afe aber, und afo afa gehoren auch zu den
soltnen, wenig iìblicbon Suffixen. Bitafc = Spottname ist epitaphium; mrrafo mogUoherweise eine selbstiindige
Bildung, von sarrctr fiir serrar.
' Coelho verzeiohnot bolor ohne etwelclien Doulungs\ersucli.
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nanuto dor Poitugiese urspriinglich lumes de bofjla, Cane, da Vat. 807, dami, wohl
um sie vou deu bugios uud òur/las zu unfcerscheiden , hufjeiya(s) sp. hugem{s). Gr. V.
I 65 ; III 123.
10. BuiB.
DiEZ II'' oline Erlilarung. — Span. port.: glnften , polirm srhurfen; .sp. = acicalar
aguzar; T^ort. ^= pulir , allsar. ' Im Span. veralfcet; jedoch. noch von Cervantes beniitzt
iva D. Qcix. II cap. 23: un punnl buiclo, mas agudo que una lezna. Im Port. lieuto
noch iiblicli in der an die Spitze c;estellten Form. Vordem stauden neben buir
als gleichwertige Doppelformen boir^poir und p>wir. Der j) laut ist also der ursprting-
liclie, und jwir puir^ dessen Heimat Portugal ist, aus lat polire dnrcli Aiisfall
von l entstanden wie sair aus salire, soer aus solere etc. Buir und polir siiid dem-
nacli Scheideformen , die erste volkstumlichen , die zweite gelehrten Ursprungs.
Der Kastilianer(?) kennt buidador, der Aragonese huidador und buirador fiir
Gelbgiesser , Schwertfeger. ~ Selbst dio kleineren span. "Wòrterbiicher verzeichnen das
Wort, dock mifc dem Vermerk, es sei eigentlich ein Provincialismus. Vom Partizi-
pium buido=:2)olirtj gescldiffen, gesclidrft bildete man vermutlich ein neues Partizi-
pialverbum buidm-*, davon aber buidador, welches durch Dissimilation zu buirador
ward, àhnlick -wie mentida mentirà; polvarera polvareda; muradar muladar ergab.
Der Gallizier liat die altport. Form pidr aufbewahrt, dock uur im Special-
sinne des Fadengldttens beivi Abhaspeln. Ouveiro Pifiol sagt: fvir = alisar , pulir ,
siiaoizar el Mio cuando se devana por medio del podoiro. Podoiro (d. i. poudoiro) aber
stekt fiir poidoiro pulidoiro u. pulideiro, -von. pulir; gleicksam also pulitorium. Es
beneunt ein Stuckchen Tuch oder weichen Leders, dardi ivelcJies man den gesponneìien
Faden beim Haspeln oder Spuhlen gleiten Idsst.
11. Caramunha.
Coelko erklart: Termo popular. Cara das creancas que clioram. Clioro das creanqas.
Lamuria affedada. Agastamento. Por cara mona. — Das ware also Affengesidit. Scbeint
mir unricktig. Der eckte urspriingliche Sinn des Wortes kat sick in der sprickwòrt-
licken Pkrase erkalten : fazer o mal e a caramunha = das Base heimlidi thun, offentlidi
aber ein Kkigelied daraber anstimmen. Caramunha fiir queramunha (wie sarrar fiir ser-
rar, libardade fiir liberdade etc.) und dies fiir altport. querhminha aus lat. quwrimonia;
-munha aus lat. -mania wie in testemunha lat. testimonia; pop. ceramunha carmunha
' Im Port. wird huido aucli benutzt lun clas Abgebrauchte Abgetragene eines Stoffes zìi bezeichnen, der schon
zu glanzen anfangt. Zuerst mag biiido von abgenutzten , iibersoharf und zweisohneidig gewordenen Messern
und Schwertklingen gesagt worden sein.
■- Der Wohnungsanzeiger von Madrid kennt das Gewerbe der huidadorcs nicht. wolil aber der von Barcelona.
16
- 122 —
iind cirmonha (Cane, de Res.) aus lat. a'.rlmonia. ' Caranmnhan wurden dann, mit
humoristischer Ernstliaftigheit, die penetranten Klagelieder der kleinen Kinder,
hernacli aneli das nur zum Weinen verzogene Gesicht derselben genannt. Cara-
munha im letzeren Falle also fiir cara de caraimmlia. Wohl mòglich dass auch die
Eedensart qiie cara tao mona! (toelcìi hdssliches, unfreundliches , loeinerUches Gesicht!)
zn diesar Begi'iffserweiterung beigetragen hat. Die von Coelho aufgestellte Reilien-
folge der Bedentiingen isfc nichts als Resnltat seimìr Dentnng; die hier befiirwor-
tete von Klayelled zu Klagecjesicht naturgemass Resultai der meinigen.
12. Ceibo.
Gali.: Hagestoh, JiinggeseUe , unuerheirateter Slami. Diese Bedeutung sichert, z. B.
folgende Stelle aus den « FoUas Novas » p. 200 :
Poche! meu Santo San Fedro,
que ben deixas conocer
qu'andiveclies sempre ceiba,
que nunca foche» casado,
nin na terra nin no ceo!
Ceibo durfte vom lat. cadibe d. h. von ccelebs kommen, dessen l zwischen Vokalen
im westlichen Sprachgebiet der Halbinsel ansfallen musste , und dessen geschleclits-
lose Einfòrmigkeit recht wohl nacli dem Typus der das Genus sondernden
Adjectivklasse us, a umgeiindert werden konnte. Man vergieiche aspau. und aport.
tristo neben triste; rado neben rude.
Ceibo bedeutet nnn aber aneli ganz allgeniein los, lose, frei, ungebunden, ledig '
und liatini Gallizisclien wie ini nòrdlicheu Portugiesiscli (Minho) ein Verbuni ceibar^
lóseii loslassen^ erzeugt, eine Begriffsentwickelung vom Engen, Beschrankten zum
Allgemeinen, die etwas Uberrascliendes liat, und derjenigen, welche im gleiclibe-
deutenden span. pori, solteiro salterò, also iin Junggcsellen der Scliriftsprache steckt,
diametral gegenuber stelit. In solteiro soltero liat man, wie im deutsehen ledig, den
Begriff' des Einsamen , Freien , Ungehemmten zu dem BegriiFe ehelos specialisirt.
Diesar Deutungsversueh ist daher selir hj'pothetiscli und wird liotfentlich bald
Begriindeterem weichen miissen.
' Das Siiffìx -monia utouìit anch in cachi monin^ Sdì ad ni, Kop/, Vcratoiìd, Ge/iin?, (einerjonor Jerbon Mctajihern
welche Korporteilo im Eomanischon bonennen; denn es ist eine l'reie Bildung von cacho = Scherhe) , imd forner im
katal. greximonia = tinto de. rana, ungUmto de Mexico (vulg- e joc), von '/i-cr, kast. tjrasa, port. grnixa (lat. crassia).
' Follas Novas, p. 201 Qu'ora anda ceiba e ben ceiba x^ara meternos no inferno.
' Poi't. Ceivab = soltar oa boia do jugo ; Gali. (Cuv. Piii.) Ceibaiì = aoìlar, deaatar, dar Ubertad , tanto a las perao-
naa corno al ijanado. — Ceibado: suelto, deaatado, libre.— Der gallizische Lexikograph verzeiohnet das interessante
ceibo nicht einmal, und giebt somit die, moines Eraohtens, falsche Auffassung an dio Haud, als sei ceibo ein soge-
oanntes, abgokiirztes Partioip, das erst von urspriinglioliercm Ceibado hergoleitot sei.
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13. Ceeniglo.*
Das Wort cemigìo wird deu Leseru unbekauut seiu , deun es ist uichts als eine
Conjectur von mir; eine Verbesserung des altspanischen aita.i XsYÓ|i.£voy genniglo,
welches der ErziDriester in folgender Stelle aufweist :
estr. 98'2 Niinoa ilos que nasci pasé tan grand periglo
do trio : al pie del puerto falle me con vestigio
la mas grande fantasma que vi en este siglo:
yeguarisa trefuda, talla de mal cenniglo.
Das AVort kann nui- so viel wie Sclireckgespenst bezeiehneu. Die Deutung von San-
chez aus ceno mit der Erklilrung (josto asjiecto ist falscli. — Ceviiiglo* ist in meinen
Augeu der in altspauischen Texten oft geuanute Name des Ranbvogels cemicaJo,
saniìcfdo. Dass dieser Vogelname noch beute, provincieli (bercianisch) und im
familiaren Verkehr , ein Scheltwort ist, genaii so wie das begrifflich ualie verwandte
tartarana tantarana (fiir tatarana (port.) aus catarana vom griecb. lat. catarades,
wolier auch prov. tartarassa), ein Scheltwort, mit dem die abstossend hdssUche dussere
Erscheinung einer Person gekennzeichnet werden soli, habe ich bereits friiher ander-
warts gezeigt. ' Doch. konnte ich mir damals nicbt erkliiren wie und warum der
Name der beiden Rauh- und Jagdvogel diese Bedeutung angeuommen habe. Jetzt
weiss ich es. Sie galten fiir, oder sind tatsachlich, Aasrduher und wurden also
in eine Linie mit dem Geier gestellt, der ja auch ein Sinubild alles Hasslichen
geworden ist und dessen gefiirchtete , unschone Grewohnheiten immer mit Abscheu
hervorgehoben werden.
Man sehe « Castigos » p. 172'': muclina moscas siguen à la miei é muclios cernicalos
sigiien à los cuerpos muertos; ferner D. Juan Manuel, Obras p. 250; und Cai. e Dym.
p. 30, so wie die iinter birlocha erwiihnte Stelle iiber den Hiihnergeier. — So ward
denn « Aasgeier, Leichenvogd! » ein in der uiederen Komijdieusprache vielbeuutzter
Scheltname. '
Der Formwandel bietet noch weniger Schwierigkeiten als die BegrifFsentwic-
kelung. Cernic{a)lum durfte cerniglo werden wie peric{it)l'uin , periglo (heute jjeligró)]
mirac{ti)lum. miraglo (heute milagro). Man vergleiche wèlter unten vestigio (No 47).
' Pratica de tres pastores, Glossar s. v. InUimnliào faHnranliì>n. TaHaranha ^ Leichcnvogel Schreckges-
penst wies ioli nach in G. V. HI 109, in :1SS u. in dei- Posse < A madrasta inaturavel • Ceniicalo mit gleicher Be-
deutung in Poes. Bere. p. 56. Daza l'iige man folgende Stelle aus Aut. Prestes. Autos p. .B98 està tartaranha ma
que arida aqiii. — Der Portagiese nennt den cermcalo auch peneireiro (von penetra = Sieh) im Hinbliok atif seinen
kreisenden Flug. — Bei Feststellnng der Species^ welcher die fartnranha augehort, mus.s bcachtet werden Jorge
Perreii-a de Vasconcellos, Aulegraphia p. 163 por isto snfro mal polhastros desta outonada que scndo filhos de sacres
ba/arls, salicm ogeus oii tartaranhas. Herr Baist, der so vorzuglich mit allem Bescheid weiss, was .Tagd und .Tager-
sprache betrifft, wird iiber die Eigenart der beiden Raubvogel gewii!slicl] weiteren Aufsohluss geben kiinnen.
' Cnveiro Pinol verzeiohnet ausser cernTcalo sarnìcaìo noch ein familiares sarmaila mit der Erklarung: la
persona pesada y targante; tacaTio y avaro. Vermutlioh dasselbe Wort.
— 124 —
Unti stiinde im Mauuscripte des Erzpriesters cermijìo, so wàre alles gut und schou.
Ob dies der Fall ist, das aber bleibt noch dabinsestellt. '
14. Derbeter.
Zu DiEZ II". — Tatsachlich derreter fiir de-reter aus de-terer{é). Die Versetzung
der Buclistabeii t und ;• hat auch das mit deterere den Sinn schnelzen teilende
Simplex terere im Altspanisclien betrolFen. Im Caue. Gen. I 302'', 10 (ed. 1883) sagfc
Rodrigo Gota:
Yo mostre 7'efir en piata,
wofiir eine andere Ausgabe die Tiesskvi fiindir bietet. — Eeterer, also re-terere, fìnde
icb im Cane, de Baeua I 157 (ed. Leipzig): si ci sol retiere el plomo, la razon es
desatada. Derreter {derrite. 3 ps. s.) bereits bei Jvian Manuel, Obras p. 262.
15. DOBAR.
Port. : ahliaspdn aufs^nden; dobadoura: IIas2)el Garnìoinde; TiOBXTiKinA: Hasjjhrin,
Frau welclie Garn windet. — Alt dehar (Ined. V 588), das nodi im 16'" Jahrhuudert
Sa de Miranda anwendet, « Estrangeiros » II 1 : Sào obras de Amor que ja fez a Her-
cules, conquistador do mundo Jtar <& dehar. — Dehar fiir debaar dehàar span. devanar
prov. dehanar, ìi. dipanare , vom lat. pamis = B'ùschel WoUe zum Spinnen. — Zu Diez I
154 hinzuziifiigen.
16. EiDo.
Eido port. gali. Substantiv (auch heido cito und heito). Es bedeutet Vorraum vor
einem Bauernhause der oft als Knchenrjarten , oft als Stali fiir das Kleinoich benutzt
wird. Das Volk sagt beute nocli aido. Gedruckt stelit diese Form in Coelho, Con-
tos p. 154, Leite de Vasconcellos , Trad. p. 175 (/iaicZo geschrieben) , Braga, Contos I
p. 38; eidico ebenda p. 199; heido Leite de Vaso. 175. — Es liegt nalie aido als aditum
aufzufassen. " Begrifflicb und lautlich steht dieser Deutung niclits entgegen. Pedi-
<«s ward im port. gali. bere. ^>eWo; iur credito sagt das port. Volk cìxito und creta; und
neben greta (vou crepitare) steht vulg. greita.
' Cerkicai.o kommt auch vor: Libro de Cetreria, p. i&ì (als ce.rrcnicalo); Zsclir. T 235 u. 239 (Sprieliwort:
Nunca btien gavilan de amicalo que viene a la mano); Lopo do Ruoda, Caratula; Torres NaliaiTo, Camila, als sorro-
mUalo; Picara Justina, p. IS; Baona II p. 31 etc. — Dass ccrnicalo aucli Papierdrarhe bedeutet hat, bevvoist folgende
Phraae aus Evangelista: los mucliachoa se pagan mucho de/aselloa (Zschr. I 2S6, i).
' Ein Gegenstiick zu eido ist exido {eia:ido enxido eìixidro inxidro; cast, ejido; cat. exida), welcbes ur-
spriinglioli den liaum hintcr dem House bezeichnote, der moisthin al.s Weidcpìatz, aber auch als VieìistaìL uud
als Qarten benutzt wurde. — Eido und Eìixidro sind in Portugal und Uallizien auch Ortsnamen gevvordeu.
— 125
17. EivA.
DiEZ EAV II'' ohne Erklàrung. — Port. gali eiòa eioa hedeutei je(/licìie>i h'òrperU-
cheii odo- (jdstigen Makel oder Fehler; beim Menschen das FeUeu eines Gliedes oder
Unhvauchharkeit desselben, Krììjjpelhaft'Kjkeit so wie Geistessckwàche tind moralische
Uìizidanglichkeiten; auf Glas oder Porzellan angewandt eineii Bprung^ Riss oder Fh-
ckea; beim Obste das Fkckigseiii, der Ansatz zur Fciulniss etc. ' Ableitung davon
ist eioar-se, besonders iiblich elucido, im Sinne von felherhuft, ncliadhaft , defect uach
irgeud einer Kichtiing bin. An Stelle von eivado liabe ich alcado im Volksmunde
gehòrt (von eiiiem (/liedeìiakmeii Mensdien gesagt) und kann diese Form aus einem
Drucke nachweisen, aus der Romanze Os dois amantes bei Estacio da Veiga, Rom.
do Algarve p. 128, wo es heisst:
pelo aivado da colméa
logo eu quiz desconfiar;
pensei que eresiava os favos,
nenhum era por crestar !
o corfci<;o ja nào tinha
do mei que eu ia provar. "
Elba eiva^ stiinden demnacli tur aiòa* aiva^', Formen, welche aus einem. àltereu
laiba* durch Abwerfen des anlautenden l entstanden sein kònuten, in Folge irrtùmli-
cher Auffassung dieses l, das man fiir den Artikel la ' liielt. In alter Zeit, solauge
der port. Artikel noch lo la lautete, konnte dieses Verkennen wohl eintreten; ein
Gegenstiick zur Agglutination des Artikels in laira leira aus la area (S. N" 22). '
Dies hypothetische laiba laiva nun diirfte lat. labia* fiir labies* statt labes = Flecken
Schandfleck sein. Und gleichen Ursprungs ist aller Wahrscheinlichkeit nacb port.
laivo laibo," volkstiimlich laibio, welches in Bedeutung und Verwendung genau das-
selbe ist wie labes, und zu eiva wenigstens in verwandscliaftlicliem Verhiiltuiss steht.
' Defeilo plìysico,falia ou macula maral, fallia no vidro ou vaso, nodoasinlia ou toqtie de podridao na fmcta eie.
' Die Stelle lasst freilich auch eine andare, minder ansprecheude Deutunsf zu. Aivado ware Nebenform voti
aivado welches beliaiintlioh den Einyang zum Bienenkorbe, bedeutet und mit lat. alveua alveolus in Zusammenhang
gebracht wird. Entwedor also: Die Beschddigung , die Scliadìmftigkeit maclite stutzig. Wegen des Verletstseins ward
ich misstrauisch! Oder: Gleich das Bienenloch machie mieli stulzig?
' Altport. cyba z. B. Ord. Alfons. IV p. 107 por nenliTia màlicia nem bvba nem doen^a que depois em ella aeja achada
(im verkanften Stiiok Viali). — Gali, eiba: falla de un miembro. eibado: tullido; eibak tidlir (Cnv. Piiiol).
' Agglutination und Apbaresis von missverstandenem l sind auf der iberisclien Halbinsel im Grossen und
Ganzen seltene Ersolieinungen, besonders im Westen. ies(e ist gemeinromaniscb. Sonst wiisste ich, ausser eiba
und laira, nur anzufiihren: gali, loyo fiir el hoyo = Grube; lajielde fiir apelde; port. oliecl von libellum; licoriiio nicor-
nio tiiv olicoruio &US unicornio; lameda fiir alameda; betarda iixv abetarda^ ave-Iarda. Interessant ist spanisch £t
Otero fiir Lutero. Eine Strasse in Salamanca, die friiher calle del Otero liiess, wairde durch Studeutenwitz in calìe
del Otero d. i. Lutero umgetauft. Dber lumbral siehe unten N° 45.
'• Moglicherweise um laiva (leiva) Flecken von aitem laiva {leivci) Lippe zu tvennen. Bies letzere Wort hat
sich, meiner Uberzeugung nach, mit dem Begriffe Parche aiifgewor/ener Ei-de zwischen Feld und Feld, oder swi-
scìien Saatstrich und Saatstrich auf ein und demselben Acker im modemen Port. erbalten. Denn mit gleba = Scholle kann
leiva nichts zu tun haben wie die altere Form laiva ergiobt. (Sie konnte die juugere sein, da im Port. Eintritt von
ai fiir ei nicht selten ist, doch beweisen die Documento das Qegenteil).
'■ Enlaiar = beschmutzen konnte fiir enlaivar stehen, d. h. Derirat von laioo sein. Oder ist es aus enlaidar =
hdsslich raachen zu ziehen?
— 126 —
Lahies fiir lahes, iva. Gedanken an rciLies fahies snnks. Lahia nebeii luhies wohl
bereits im Vulgairlatein in Uebereinstimmung mit luxuria materia neben luxuries
materies etc; oder erst im Eomauischen , imd speziell aiif porfc. Gebiete, wo wir
sana aus sanies; especia aus species; facia hacia 3,ns facies; reqvia ai;s requies kennen.
(Vgl. aragon. quera d. i caria aus caries. N° 33). Lahia ward laiòa laiva, wie raiva
aXL3 rahia fiir rahies; Paiva aus Pavia; gaiva, woher gaivota, aus gavia. Aus laiha laica
ging leitm hervor, wie das neuport. seiva aus altera saiba salva (kast. sabia savia von
lat. sapia'^ far sapa = Saft), ' wie eira aus aira d. i area etc.
18. Encinta.
Es ist weder iiicÌHcta^=:^umgurtet nodi in-cincta = ungeg'àrtet ^ sondern das im La-
teinischen unedle indente von inciens , das im Romanischen salir wohl wieder edlere ,
griecliisclie Verwendung gefunden liaben kann. Findet sicli eiii altspan. enciente — und
es findet sioh vielleiclit, icli glaube es gelesen zu haben — so ist die bis jetzt noch
hypotlietische Frage entscbieden. Aus dem in Spanien unverstàndliclien , zusam-
menhangslosen enciente (das noch dazu lautlich mit insciente ^ unMmdig , niclit wisseud
und mit dem alten enciente fiir antecedente zusammengefallen ware), entstand wohl
durch Volksetymologie en cinta (asp.) ' und spater encinta (neusjD.) Mit demselben
guten Rechte, mit dem Baist ceFio aus griech. o/tóviov ableitet, darf ich auf griech.
x,u£(o als die Quelle von encinta hinweisen.
19. ESTRECE.
Das spali, port. Wort esfrece (dritte Persoli sing. eines praes. iud. 2*"'' oder B****'
Conjugatiou) , ist mir uur in den sprachlich recht interessanteu Werken des Dichters
Sa de Miranda begegnet, und zwar kommt es daselbst ausschliesslich in der Wen-
dungwo .se estrece, nào se estrece vor. Die beziigliclien Falle, je 2 in den beiden
Schwestersprachen , lauten :
103, 33G a suiclade nào se estrece,
103, 33 que (isto) ha de vir o nTin se estrece.
im Versausgang und E.eim mit acontece parece empecn conlwce; nnd
111, .382 no se estrece que no viese visiones.
1.51, 5 i HO se estrece que alguna escura sombra te asombró.
Alle bisherigen Uebersetzungs u. Erklarungsversuclie dioser Siitze sind, mei-
nes Erachtens, als mislungen zu bezeichnen. Andere Belegstellen aber als die
obigen, die man etwa zur bessereu Deutung der fragliclien Fomieln lierbeizieheu
' Im altport. o.xistirt eia anderes saiva (Vatio. 1017) mit tontrngendem i, also Veifcreter von lat. saliva, nnd
nicht von 9<ipì(i. Der Gallizler kennt heute uoch 6atba = Speickel Schlcim, wiilirend der scbriftgelehrtero Portagiesft
das Wort wieder zu saliva zuriicltbildete.
• Z. B. Conq. de Ultr. p. 533.
— 127 ^
konnte, scheinen zu fcli'.eu. Die port. Worterbiiclier wpiiigstens liielon enUveder
nur die zvvei, oder eiued der zwei port. Citate ans Mii-auda, oder sia bescliràuken
sich darauf das Worfc oline Weiteres mitzuteileii luid zu denten, beides aber stets
unter dera liypothetisclieu , als Stichwort ausgegebenen Infinitive estrecer, welchen
sie nacli estrece gebildet habeu — wie man niclit leugnen hann, mit dem Schei ne
vollsteu Recktes. Ioli habe S. Rosa, Blutean, Moraes, Constancio, Caldas Aulete,
Domingos Vieira, Bòsclie, nacligesclilagen; und auch die span. Lexikographen nm
Rat befi'agt, diese aber ganz fruchtlos. Sie scheinen die Werke span. schreibender
Porfcugiesen grundsatzlich nicht zn beachten.
S. Rosa de Viterljo sagt: Estrecer: estreitar diminuir rebater apoucar reduzir a
menos, ohne ein Etymon aixfzustellen. — Blutean, dessen Angaben ich durchweg als
genaue iind sorgsame befunden habe, erwahnt estrecer gar nicht: das einschlàgige
Gedicht von Miranda war ihni unbekannt geblieben, wie ich anderwilrts zu erlau-
tei'u Gelegenheit gehabt habe. Das Worterbnch der Akademie reicht wie bekannt,
nur bis azurrar, schweigt also gleichfalls iiber das fragliclie Wort. Moraes erklàrt
(3*" Ausg. von 1825) wie folgt :
Estrecer v. a. refi. Usado passivamente. — Sa Mir. : « a scinde ou saudade nno
se estrece » i. é. nào dimimie.; ant.; talvez o mesmo que aterecer-se.
Die jiingeren Ùberarbeiter des Moraes (ich nehme Bezug auf die neueste 7*®
Auflage) haben saude zu saudade verbessert, eine genauere Stellenangabe aus Mi-
randa hinzugesetzt, nm\ den als Moglichkeit hingeworfenen Deutungsversuch aus
aterecer zu eiuer tatsachlichen Gewissheit umgemiinzt. Sie erklaren den obigen Pas-
sus durch nào se resfria, und behaupten kurzweg estrecer sei aterecer-se und synonym
vaìi agnar ^ perder a forca, fcar transido, gelado de f rio. — Constancio verwirft diese
Ansicht und schlàgt eine neue, gleicli willkiirliche Etymologie ver: das kast. estre-
char-se, oder frz. e'tre'cir und iibersetzt unser Verbum durch estreitar , encolher ! Seinen
Spuren folgen Caldas- Aulete , (der iiberdies genaueres iiber die Flexion des Zeitwor-
tes weiss, da er als Paradigma ahastecer angiebt), und Bòsche der sich zwar des
Etymologisirens enthalt, estrecer-se aber, nach freier Benutzung des Constancio, mit
enger, sckmdler werdeii, eiidaufeii, eingehen(\) wiedergiebt und auf diminuir und min-
guar als auf gleichbedeutende Verben lùnweist.
Bei Moraes haben sich die Herausgeber des «Parnaso Lusitano» Rats geholt;
sie schreiben II 275 seine Ei-klaruug, sein « nào dimiime » ab und legen demgemass
die erste der Miranda-stellen so aus als wolle sie sageu: die Selinsuclit Idsst nicht
nach, hort nicht auf. Selbstandiger geht Antonio das Neves Pereira zu Werke.
In seinen Aufsàtzen iiber port. Philologie (Mem. de Litt. Porfc. voi. V) , ' in denen
"Wahres und Falsches sich misòhen, kommt er drei Mal auf estrecer zu sprechen.
Zuersfc p. Ili erklàrt er " estrecer mit extinguir und rechnet es zu den gutenalten,
£nsaio sobre a filologia portugueza por mcio do c.vinnc e compavncao dn. locncào e esiilo dos nossos mais
insignes poettts que florecerào no sec. XVI und Eiisaio critico sobre quid seja o uso prudente das palaoras de que se
servirrw os nossos hoiìs cscritores do sec. XV e XVI e deixarào esquecer os que depois se seguirSo.
'- Daselbst stelit das bekannte estruir (destmir) (Z. B. bei G. V. HI 331) sm Stelle von estrecer. ein Verseben
welclies in dei- 1"" Auflage des Moraes s. v. estrecer bereits bericbtigt worden ist.
— 128 —
echi natioualen Worteu. Dami, p. 155, preist er abermals das treffliche uud cha-
racteristische Wort, iind zuletzt p. 170 meiut er, das barbarische im Volksmunde
iibliche Verbnm estrocer (z. B. in der Phrase estrocer a dòr) sei aus dem feineren
estrecer verderbt worden.
So weit die portugiesisclien Stimmen nnd Urteile iiber das "Wort! Das letzte
Urfceil, die Gleichstellung des populairen estrocer und des veralteten estrecer enthàlt,
wie mir scheint ilirem Urlieber unbewusst, in sich den Keim zu einer neuen,
vielleicht der richtigen Etymologie. Estrece sfceht fiir estrncce d. h. es kommfc von
eiuem Infinitiv estrocer, fiir estorcer lat. extorquere. In diesem Falle wàre Kastilien
seine Heimat.
Nun, diesen Infinitiv kennen die altsp. Denkmaler sehr wohl iind verwenden
ihn iiberaus oft. Er bedeutet buchstablicli : sich herausininden cms etwas, es vermei-
den, entkonimen, davonkommeii und wird durchaus korrekt von den Herausgeberu
der altspan. Texte, Sanchez, Grayangos, Janer eto. uiit evitar evadir escapar librar
nmschrieben (port. escusar). Man fasse die folgenden dicliterischen Stellen ins Auge :
Are. de Hita 12G Segund naturai curso non se 2)uede estorcer.
767 pensando los peligros podedes estorcer.
1646 De aqueste dolor que siento tu me denna estorcer.
Alex. 716 per qual guisa que fiie muclios estorcioron.
1255 veyen que de la muerte non podien estorcer.
Danza 16 querria sy pudiese la muerte estorcer.
Apoll. 70. Si estorcer pudieres seràs bien aventurado.
Ili de los omnes uenguno non pudo estorcer.
152 ca bien entendieu todos donde era estor^ido.
223 que con el cuerpo solo estorció de la mar.
279 seremos todos muertos, estorcer non podemos.
335 dixoles de qual guisa estorció tan lazdrado.
417 si vos daquesta manya pudierdes estorcer.
492 por amor de furtar-me de muerte me estorcìeron.
640 Gommo omnes qne pudieron de car^ell estorcer.
und vergleiclie die Prosa, z. B. von « Calila e Dymna », die sicli fortwàhrend des
Ausdrucks bedieut:
p. 17 estuerce del daiio (= entflielit der Weltlnst).
26 estuerce por arte (•= kommt mit heiler Haut davon).
» salir et estorcer de aquello , cu que es caldo.
27 guisarà corno estuerza de ti.
29 guisa comò estuerzas.
80 estorceremos todos.
» non se debe home meter a peligro podiendo estorcer.
» estorcerà.
!> de guisa que e.'itorciese.
33 logar donde non puede estorcer.
» estorceràs asi tan quito del leon.
34 non estorcerla del leon.
— 129 —
36 non cstoreeràs.
» has esperanzas de estorcer de tan grande pecado.
37 non estorcer.
» tu non estorceràs.
40 por estorcer.
41 non estorcerà de la mala andanza.
> punnaban por estorcer.
46 fuyendo en tal manera que esforzamos de este peligro.
47 estorcieron los uuos por los otros.
» estorcer de muy grandes tribulaciones.
48 estorcer de grant dano.
» el que feciere mal feoho non estuerza la pena.
Cane, de Ees. I 205 E.itorcendo toda ora
Sem conto penar sobejo,
bradando vou : oh senhora !
Die alten braucliten also estorcer als Verbum intransitivum oline jegliche Eec-
tion; oder sie sagteu estorcer alg. e, la jiena, la vmerte, dolores etc. odor liessen es die
Prapositiou de regieren : estorcer de alg. e, de muerte^ dolor, peligro etc. Und das port. Volk
bedient sich keiner verderbten und barbarischen, sondern nur einer archa'ischen
Formel wenn es beute sagfc: estorcer ìima dar, um perigo etc. Genau in demselben
Sinne, durfte Miranda sagen A suidade nào se estrece d. h. 7iào se póde estorcer:
die Selinsucht ist tmvermeidlich, que ha de vir e nào se estrece: sie viuss Jcommen,
sie Idsst sich nicht vermeiden, man entgeht ihr niclit. In den span. Stellen ist no se estrece
durcb. eine uupersonliche Formel wiederzugeben, wie etwa: es lassi sichnicht leugnen
dass.... oder es ist Mar dass...., Phrasen, die von deni (ledauken es ist oder ivar unver-
meidlich nicht allzuweit abliegen.
Sachlicli scheint daher die Zuriickfiilirnng von estrece auf estrocer fiir estorcer
sebr wold niòglich. Und phonetisch?
Dass man trocer fiir torcer, also auoh estrocer fiis estorcer sagen konnte, und gesagt
hat, bedarf des Beweises nicht. Das port. Volk zieht die Form trocer entschiedeu
vor. Wie torcer nun tuerce, contorcer contuerce, so bildete — wie die obigen Stellen
es zum Ueberfluss beweisen — aneli estorcer ein regelrechtes estuerce; estrocer also
estì'uece.
IJbergang von «e zu e, besonders in unniittelbarer Nahe vou r und /, ist oft
besproclien worden. Gleichwie a.ns fruente , frente ; aus afruenta, afrenta; aus estuerà,
estera ward; aus luerdo, lerdo (lurYi\dus); aus snerba, serba {serbum sorba); aus culuebra,
culebra (colomba); a,us Jiueco , Jleco {floccus); aus suerdo, cerdo {sord[id\us) , aus seciiestro,
secresto, so durfte estruece zu estrece werden. ' Ein Infinitiv estrecer, so er wirklich exi-
stirt, ware dann, nachdem die Herkunft von es^rec« sich verdunkelt batte und das
Wort ein seltenes war, vom Volke aus der vereinzelten iibrig gebliebenen Form
abstrahirt worden.
' Siehe auch pes fiir pues lat. i)Ost im ka,st. i>escuezo pespunte pesponto, port. pescoso pesponte, j^ort. pespegar ;
astur. atbedro iur albuedro aus lat. arbutrum fiir arbutum ; Tnaat. careTia fiir curmna; lejos fiir Unjos {longiis); viel-
leicht auch combUzo fiir combluezo. — Vgl. N" 30 pelmazo.
n
- 130 -
Eine andere Auslegiing als die oben von vniv vorgesclilagene ware freilich
noch moglich und wird manchem vielleichfc darum vorziiglicher ersclieinen, weil
sie die Heimat der, niir in den Werken eines portugiesischen Dichters vorkom-
menden Form estrecc in Portugal suclit. Estrece, oder in dieserà Falle der Infinitiv
estrecer, kònnte fiir estraecer steheu. Man vergleiche esquecer von cscaecer ; aquecer ftir
acaecer von calescere; aquentar fiir acaentnr von acalentar, und, was das prostketische
ex betrifft, espadecer esmorecer etc. Estraecer, buchsfcàblich also^heraus ziehen wie
estorcer z=lierausunnden, konnte leicht denSinn annehmen sìcli einer Saclie entziehen ,
sie vermeiden, und bat ihn wirklich, z. B. im Cane, da Vat. N° 930, 21 : ' ca non
■pod' el tal morte estraecer. Das alte Liederbucli kennt iibrigens auch unser estorcer. ^
Welche Deutung ist die richtige? Oder sollten gar estraecer und estrocer in
estrece zusammengefiossen sein?
Mit aterir terescer aterecer (span). estar vescer estnrrexer (port. gali.), wober uteri-
miento und aterecimiento ^^ (und wozu wohl aucli ateritar tirìtar =zvor Kdlte zittern, geho-
ret) einerseifcs, und andererseits mit estrecìiar (span.), étrécir frz. , estrecier afrz. (von
strictus s<rtci*Ms) hat das span. port. estrece j e denfalls niclits, absolut uichts zu tuu.'
20. Fasca fascas hascas.
E. W.'"" hascas: hasta casi. — Sanchez Gloss. zu Berceo, Alex., Fita: faz caso. —
Zscbr. VII 120, Baist, ohne Erklarung. Er verwirft einfach beide Etymologien. —
Die Formen mit / sind an die Spitze zu stellen, und unter ihnen wiederum die
ohne paragogisches Schluss-s, deun diese ist die urspriingUche , an deren Echtheit
nicht zu zweifeln ist. Sie findet sich im Alex. 1413 :
onde vio Tauron qne non poclia entrar,
fasca non querie menos en su tienda estar.
' TheophUo Braga verandert in der iritischen Ausgabe des Canoioneiro stillschweigend estraecer zìi
escaecer wozu kein Grund vorhanden ist. — Fiir entkommen vermeiden brauoht G. V. I 248 estorvar. Nào se póde
eacitsar a pasiada d'este rio nem a morte a'estorvar.
■ Lied 1096 begumt in der Editio Monaci:
loiian incbolas (1. Nicolas) souhe guarecer
de mort im liom assy per sa razou
que fuy iulgad a foro de leon
que nò denya demo castorcer.
Braga andort, ziemlich unbedacht, que non devya demo cas torcer. Ich wenigstens verstehe nicht. Ich schlage vor
zu leson que non devila de mort estorcer. Dieselbe Phrase, welcher wir im Altspan. begegneten, und die das port.
Volk beute noch kennt, glaube ich deranaoh im Canoioneiro zu finden.
' Noch weniger mit aiericia atericiar atiriciar (von hyctericia), obwohl der zufiillige Gleichlilang schon znr
Aufstellung dieser ganz vorkehrten Gleichung gefiihrt hat.
' Noch oinon Punkt mbchto idi beriihren. In den < Autos > dos Ant. Trestes lese ich auf p. 143 in einer
sohr schwor verstandlicheu , dem Ansoheine nach ein Wortspiel in sich bergenden, StoUe die Phrase estrerfuir
dùr. Eatref/uir ist unbekannt. Ich vermuto estronidr oder estrogir. Konnon diese Formen mit estorcer identisch
sein d. h. in letztem Sinue von lat. extorquere herstammen? Vielleicht. Edrogiiir eslreijiiir hiitten den Gnttural
bewahrt wie das voraltete gali, munr/uir das nehen mungir, jniigir stoht, von miilgerc (Saco Arco p. 294); languir
von tangere (ib. 210) ; kasfc. crguir ergtier noben ergir erger ercer.
— 131 -
2) in der Conq. de Ultr. p. 550.
cabalgó o fuése pora su hermano el omperador faaca por razou de servir é guardar;'
3) ib. p. 592.
é estos le enviaba él fasca por amor.
Die Formen mit s sind ungleich haufiger. Man sehe :
Berceo. Dom. 188 mas era de tal guisa demudado el viento.
que fascas non avieu ningun sostenimieuto.
ib. 443 avie fanras perdida la mano de dolor,
ib. 539 ca liascas non podie corner una bocada.
S. Oria 162 lo que ella comia non era fascas nada.
Mil. 464 issio confcra la claustra hascas sin nul sentido.
Alex. 166 fallólo que iazia fascas amortecido.
776 una agua de grant guisa, fascas semeia mar.
840 priso en aquel banno un tal destempramiento.
que cayó fascas muerto sen seso e sen tiento.
868 estauan Ics reys ambos fascas en un taulero.
966 mas esto a lo al fascas non an (?) monta. '
986 el golpe de su punno valie fascas dun ma90.
1253 el mismo don Alexandre era fascas cansado.
2373 (nicbt 2353) se entrando non fusse, fascas non perdira nada.
2389 las ondas del deluvio tanto querien sovir.
per somo de Tyburio fascas querien salir.
Apoll. 514 quando prenyada .sseyo, semeio fascas rana. ^
Juan Manuel, Cast. cap. 4 oa fascas tan grave cosa es vivir home....
Fascas que ist salir selteii. Icli keime iiiir zwei Beispiele aus deu Werken des
Erzpriesters :
800 està lleno de doblas , fascas que non lo entiendo.
938 fascas que me amenazaba.
Die JJehersetznng fast, beinahe bietet niiu zwar in alien Fàllen einen guten,
verstandlichen Sinn; und felilte die Form/asc«, und wàre ferner ein eiuziger Be-
weis dafùr vorhanden dass man fascas betont bat , So kònnte man sich vielleicbt bei
der von Sancbez vorgeschlagenen Efcymologie aus/«,s cas fi\r faz caso, ' mit seltener
Apocope des o, beruhigen, ^ obwohl es in diesem Falle immerbin befremden musate
' G-ayangos maclit zu dieser Stelle die wnntlerliclie Beraerkiing: pasca està aquì por fascia 6 hacia corno si.
dìjera pora hacia el Emperador.
' Morel-Fatio (Bom. IV) sagt mit Rcclit, (lev Veis sei dunUel und verderbt. Vielleioht darf man lesen non
amonta Qud demgemass ubersetzen: dienes jcdoch, devi ilbrigen verglicken, ist scheìnbar nichts wert uud unbs-
deutatd,
' So Fidai; Sanchez ìleut fastaa.
' Caso que oder oinfaohes caso bedeutet im Falle dass. Unter Fas caso que daehte Sanchez sich also etwa setse
den Fall, dass.... Mit Fazer caso hat man jedooh, so viel ioh weiss, niemals diesen Sinn vei-knupft. Fazer caso
de nh/. e. bedeutet sicli um eine Sache kiimmern oder bekilmmern, sie fiir wichtig lialten; nnd die Phraso nUo faz ao
caso heisst cs Ud nicìits, scftadet nichts ^n^o importa. — Den Fall gesetzt, angenommen dass, giebt der Hispanier mit
dado 0 caso wieder.
' In dei- betreflenden Phrase batte auf caso ein starker Hoohton gelegen, ware also ganz anderen Gesetzen
nnterlegen als casa in ere cas de, a cas de, und guisa in a guis de, nnd /oro in a for de, und nome in era nom, de.
Cfr. N". 29.
- 132 —
dass mir zwei Beispielen fiir fazcas que ueiinzelm andere oline que gegeniiber stelien.
Dass die Formel faz cas{o) qua sicli zu fasca abgeschliffeu liaben solite aber , sclieiut
schier immoglicb.
So wie die Saehen stehen, liat man die Yovra fasca zu erklaren iinter Bernck-
sichtigung von fascas als Nebenform, deren s angesiclits von quizds neben quizd,
doncas neben dorica, soncas neben sonca, ' snmicas neben samica etc. etc. nicht schwer
und mit ziemlicher Sicherbeit als paragogischer Znsatz zu deuten ist. '
Icli sebo va. fasca den Imperativ oder die 3*" Person sing. praes. faz von fazer,
nnd die Conjunction ca fiir que. i^asca bedeutet aìso: nimman dass.... glaube dass,... oder
vielleicbt aucb, iinpersònlicli und nicht als Aufforderiing verstanden, es titt sicli so an
als oh.... es sclwint dass Man kònnte die Formel demnach mit dem Anschein nach,
gleicìisam als oh.... scheinhar ubersetzen — Pbrasen die, in ihrer bescbrànkenden, in
Zweifel ^ stellenden Bedeutung in Wahrbeit sebr nalie an fast, beinahe angrenzeu.
Im Portugiesischen ist die Redensart fdzque, eine der Formeln welclie unter
eme/i Wortaccent fallen; sie ist nocb beute eine durcbaus iibliche, tindso klarund ver-
stàndlicb dass die Wòrterbiicber es nicht einmal fiir der Milbe wert balten Pbrasen
vne faz qìie nào ouve, faz que nào ve, faz que nào quei; zu verzeiclinen. Dieses faz que
bedeutet er {sie, es) iut als oh; es scheint als oh er (sie, es) nicht sdlie, li'órte, wolle oder
scheinhar sieht, h'órt, lolll er nicht. Aus der port. Scbriftsprache habe ich mir kein Bei-
spiel als Belegstelle notirt. Ein einziges galliziscbes ziebe ich aus den « Cantares
Gallegos » p. 109, das aber sebr cbaracteristich ist:
E ti rosa, roxiùa,
qu'os pes dos homes miras
para non velie a cara,
e faz que non entendes
cando d'amor che falan:
Das altspan. fasca(s) wiirde bier, und iiberall, die Stelle und Rolle von faz que
vollkommen adàquat ausfiillen.
Fragt man nacb àbnlicben -aus eiuer Verbalform und der Konjuuktion et oder
que entstandenen adverbiellen E-edensarten, so bleibe ich die Antwort nicht schuldig.
Ich kenne erstens das gallizische, auch im bercianischen iibliche seica seique = ich
tveiss dass, welches mit geiviss, sicherlich, manchmal jedoch nur mit vieilleicht, mog-
licherioeise zu iibersetzen ist. "Wer die Grammatik von Saco Arce, die Gedichte
von Rosalia de Murguia oder die berciauiscbe Gedicht-Sammlung zur Hand hat,
' Ubor sonca soncas, samica samicas sielie Groober, Zsolir. V p. G02 unti S,1 do Mii-an la, ed. C. M. do Vascon-
cellos, Glossar.
' Man vergleiche auch gali, dendes fiir dende; nuncas fiir nunca; somenles fiir somente; indusqiie fur ùtda
que; port. alìmrcs alffures und nenhures neben alhur algur nenhitr etc. etc.
' Auch der P)eonasmu.s /a« ca que bildet kein Hinderniss fiir meine Etymologio, da sich Z. B. aus son ca
nnd sonquc d. i. auR sino que ein keineswegs soUenos soncas que. entwickelt hat. Siohe G. V. 123. Die Formeln sonca
que; fasca que wird man schwerlioh auffiuden, da sie ihren Ursprung noch ali zu deutlich vorraten. — Bewiesen
wird durch die Esistenz der fraglichen Bildungen nur, dasa schon vor dem 1.5 ten .lahrhundert das Bewusstsein
von ilirer Entstehung und ihrem eigentlichen Sinn abhanden gekommen war.
— 133 —
wird sich leiclit von der Existenz und der grossen VolkstihnlichkGÌt des Ausdrucks
uLerzeugen konneu. Hier nur drei ausgewàhlte Beispiele:
Ros. p. 142 e seka nou faltou queu Ile dixera....
Bere. p. 227 o crego estuvo
tentao cou Lucas d'empreuder a paos,
seique porque este pouco honesto anduvo
en mirai' a pastora,
ib. p. 275 0 dar lixeira unlia volta
se Ihe caen a rapaza,
seique por levala solta.
Zweiteus kenue icii das span. port. in den Dialekten ùLeraus gebrauchliche ,
und in Brasilien zu erweiterter Verwendung gekommene dizque, auch disque == der
Suge iiaclì, ir /e man .so sa/jt, ' filr dessen Verwendung ein einziger Beleg gentìgt:
Saoo Arce p. 309 Vicina da erguida serra
que em tempo disque abrigou
mouro de condiciou perra.
Dritteus creoque = so v'iel idi weiss, das im Gallizischen mit seica und dizque
ziemlicli gleichbedeutend, doch. weniger iiblicli isfc. Saco Arce p. 212 — durch deu ich
es kenne — neunt es un verdadero adverhio.
Viertens das bercianische jJOtZajiie = vielleicht, Jioffentlich; wortlicli es moge kon-
nen, sein, gescìiehen dass z. B. p. 164: ya podaque todos cuideis qua....
Fiinftens das brasilianische imrézque fiir parece que = dem Anscheiii nach, das
genau so wie disque verwendet wird. "
Ca fiir que kann der Befùrwortung entbehreuiindlìegt ja auch im oben erwahn-
ten seica vor. Beispiele filr das paragogiscli zugefilgte s nannte ich schon. Die
Uebersetzung scheinhar, wahrscheinìicJi genugt in alleiL Stellen, in àenen fasca fascas
luiscas Verwendung fanden. Die ausscldiessliche Schreibnng fas hns ist freilich auf-
fallig; die Scbreibung an sicli ist es nicht, da aucb haser vorkommt, und im brasil.
disque derselbe Wechsel von s zu s eingetreten ist. Sonst wiirde die hier versuchte
Deutuug lautlich ebensogut wie dem Sinne nach befriedigen. "
' Auf dem Pestlande behauptet dizque nàmlicli seiue ursprtlngliche Steìlnng ani Anfang des Satzes und
tragt anf {«e einen secundaren Accent, warend der Brasili.aner die Formel an das Ende des Satzes stelli und sie
unter einen Accent fallen liisst.
- Bemerkt sei lùerbei dass die alte in span. Wórterbùcliern umgebeude Formel pazqitc statt parece que,
welclie Z. B. auch Cuveiro Piiiol verzeiclinet, sich moglicherweise noch als schlecht gelesenes abbreviirtes pa-
rezqne. oder als fazqiie d. h. als unser fascas entpuppen ìvird. — Ich kenne sie nur aus Tirso de Molina p. 532. Auch
das im Kastilianischen so belìebte penséqite muss erwàhnt werden. Der Komòdientitel £Z castigo del penséque
von Tirso de Molina ist bekannt.
' Bei G. V. I 13.5 ftndet sich das Wort /oscns in folgendem Passns: Issohefoscas mui asinha Por me metter
rthentinìia, Mas perol nào t'hei de crer. Der ungefahi'e Sinn ist: Das sind ìiòclist wahrscheinlich nur Flauaen. i?e-
denaarten die micìi drgern sollen, und darum i/erade werde ich Dir niehl glauben. Auch Jorge Ferreira de Vascon-
cellos. Eufrosina p. 164 kennt es; er sagt: tado isso suo foscas foscas. Steokt in diesem /oscas , welohes von den
Wórterbiichem als port. subst. fem. fosca katalogisirt wird , das alte fasca ? Kanm ! Vermutlich hat man es mit
dem in lasco fusco weiterlebenden Adjeetiv /«sco /osco zu tun, d. h. mit lat. /«««(«.
— 134 —
21. GuiNILLA.
In clen spau. Wòrterbiicheru als Proviucialismus erwàlmt. Ist galliziscli und
bedeutet PtqnUe, Augapfel. Gidnilla entspricht kast. guindiì.la, einem Diminutiv vou
(/umda^: Weichselkirsche. Vgl. esccma nebeu escanda, penol ueben lì&ndol. J] eber guinda
und quinja, ])ovt. giiija, woher auch altspan. yeuiUa, frz. guigne, afrz. guisne, kat. ginjol,
frz. giiujeole siehe Diez , E. W. 1 445 unter visciola. Auf der Halbinsel bàtte das Volk
also die grossen scbwarzen i^ugapfel seiner Sòbne und Tòcliter mit den dunklen
Kirsclien verglichen, — ein Bild, ahnlich dem welches im frz. primelle=PflUumclimi
.steckt (span. primela ist ein Gallicismus). Docli hat sich das treffende Bikl (spricht
nicht aneli das deutscbe VolksKed von Kirschenaugen ?) in der Schriftsprache,
gegeniiber dem klassischen nina, port. menina (lat. inipilla, griech. v-óf-Tj) nicht
gehalten.
22. Leiea.
E. "VV. II'' okne ErkLarung. — Zsclir. VII 102, Baist; von cireM. — Das port.
Wort, welches auch in Gallizien und in der Landschaft Bierzo heimisch ist, habe
auch ich schon ver langer Zeit fiir eiue Scheideform von eira=:DrescMenne (bere, noch
beute atra) gehalten , d. h. fiir lat. area mit aiSgirtem altport. Artikel la (altport. aiich
taira). ' Bereits in Dokumenten von 870 liest man larea und laria (Port. Mon.,
Chartae p. 4 u. 15). Es bedeutet nicht eigentlich Beet, -wenigstens kein Blumen-
beet ^ sondern einfach eine Scholle Erde, cm /Stiickchen Grund und Boden, einen
Flecken Landes, off. auch einen kleinen, meist langen und scJimalen Erdstrich der zum
Planzen von Koìd und anderem Gemiìse òenutzt wird, i;nd den man ja wohl auch Ge-
museheet neunen kann (friiher aller Wahrscheinlichkeit nach, wenu die Etimolo-
gie richtig ist, von bestimmtem Flàcheniuhalt?).
Zu bemerken ist dass neben leira ein Maskulinum leiro existirt , meiues Wissens
nur in der spanischen Landschaft Bierzo, mit vollkommen gleicher Bedeutung wie
leira. Poes. bere:
]). 224 o leiro da oorzapifia y o prao do vai.
302 as foUas das patacas se esmureoian nos leiros.
Und dies Nebeneinander briugt mich zu der Frage, ob in altspan. ero (das einen
von era deutlich unterschiedenen Sinn hat, da es Trager des Begriffes Stììck Landes,
und zwar Ackerlandes war, wahrend era nur Dreschtenne war und ist) ob im altspan.
ero nicht auch area steckt, das man als substantivirtes Adjektiv ansehen und daher
doppelgeschlechtig machen konnte. " Dass ero wirklich Ackerìaud benanute, zeigen:
Fita 1211 derraiiiar la simicntc al ero.
720 lue sembrar canuainones en un vicioso ero.
317 levólo et corniolo a mi pesar en tal ero.
' Siehe oben eiva N. 17 wo icli bereits auf gali. /oi/o = kast. Iioyo, port. /o^o, lat. /oc e a liiuwies.
■ Das Blumenbeet heLsst aUgrete.
' Vgl. das eben genannte hoyo neben /loi/rt aus fovea.
- 135 —
Dagegeu ib. 12Gt):
trigos e todas mieses en las eras tendiendo.
Der Samen wircl in deu ero gestreiit, die reife Frucht auf dio era. Ero kònnte
freilich aiich, wie altport. aro (E,om. XI 81, Cormi) vou agrum kommen (eine
Efcymologie, die wie idi iiachtraglicli bemerke, vou Baist, Z.sclir. VII, p. 633 befiir-
wortet wird).
Jedeufalls aber siud von ero = Arlcerland iind nicht von era^z Tenne die Substan-
tiva erta erial und erlazo abzuleiten, denn anch sie bedeuten Ackerland, und Diez (IP)
der sie aneli als nrsprimgliche Adjektiva ansieht, irrt wohl wenn er sie mit temie-
nartirj , ìcie eine Tenne hescliaffen (d. h. glattrasiert) unanfjeòaut wiedergiebt (in Uebe-
reiustimmnng mit einer modcrnen Verwendnng der Worto fiir Bracliland das mit
pousio (port.) vorziiglich gut gekennzeiclLuet ist?).
Man sehe:
Fita 721 comed aquesta semiente de aquestos ertales (=Felderu).
124G dà primero farina a bueyes de erias (=Feldern).
14G3 tal homen corno este non. es en todas eriax (= Landeii).
1208 de juglaros van llenas cuestas e eriales (=Hohen u. Ebenen?).
Ero era leiro leira also , meiner Ueberzengung nach , lat. area. — Gehort dahin
etwa aneli das aragonesische alerà: llanura en que se hallan las eras? (Borao p. Ili;
das Wort steht ancK in alien span. Worterbiichern) Alerà = lera * mit prostheti-
schem a , wie aglera = glera (lat. glarea) (da die Eeiheufolge arca aira era l'era lera la
lera l'alerà zu kiinstlich nnd seltsam ist)? Alerà ist ein Streifeu oder Stilck trocke-
nen, oder von der Natur mit flachem Gestein versehenen Landes nnweit der Hànser,
welches als Tenne dieut. Lera diirften wir angesiclits des westlichen leira fiir ge-
sickert anseken. Dock gebe ioli zn bedenken ob alerà., und selbst laira lera, nickt mit
dem eben erwaknten altspan. glera aglera , ' port. gleira, d. k. mit lat. glarea eins und
identisck sein konnen* Dasselbe bezeicknet bekanntlick im astur. aleira llera « ein
trocknes sandiges oder steiniges ebenes Stiick Land besouders am Meeresufer. » An-
laiitendes l &\xs gì wie in liron lirào von glire; lande landre von glande; latir von glatir.
Und das albori. ler^Meerestrand Strand Kusten.stncli,' gekòrt es zu area era ero?
glarea glera lera? oder ist es ein ganz auderes, alt einkeimisckes Wort? Der Fragen
viele ! der Antworten wenige ! dock auck das Fragen niitzt ja bisweilen.
23. Macho.
Diez II*" und Studien p. 43. — Ob span. port. macho = Mann, mannlich identisck
ist mit macho =z Hammer , d. li. ob es auf lat. masctdus oder auf »if«'c«Z«(s zurilckweist,
' Poema del Cid 56. 2243..— Berceo , Mil. 442 674 : hier iiberaU alerà , docli kommt aglera vor. - Maria Egypc,
291 eglera (?).
- Cane, da Vat. N°. 246 Foy eu madre veer a.s barcas em o !er; N». 710 foy ham dia polo veei- a santa Marta
em o ler; N". 754 En Lisboa sobre lo ter barcas novas maudey fazer.
— 136 —
bleibe dahingestellt, obwohl ich, uugeachtet der laiitlichen Schwierigkeit , fiir das
erstgenannte Etymon ganz entschiedeii eintrete, imter der Annahme das si zu eh
werdeu konnte, wie idi andereu Orts nachweisen werde. Pess'lare von pessulum
ergab nàmlioh pechar und vielleiclit aneli fecliar; penisla d. i. peninsula port. Peniche;
ass'la d. i. assida port. acha (nicbt ascia und iiicht astia); Sixffix is'luii aus isculus
ergab iclio.
Hier handelt es sicli iim span. port. maclio = Maultier welches weder maixulus
macìio, noch mascul'us macho ist. loh setze Rìr macho := Maultier ein drittes Etymon an.
Es steht fiir moacho* m.iiacho, das uns z. B. iui Cane, da Vat. 1109 und im Cane.
Col. 109 begegnet ; dieses aber fiir mulacho welclies ebendaselbst zur Bezeiehnung
des jungen Maultieres vorkommt (Col. 409). Macho muacho mulacho ist also ein Deri-
vat von 7nu muu^ mulo, lat. mulus, und ist idontiscli mit mulato, welclien Namen
nodi das Cinquecento fiir Maultier kennt und benutzt. Man sehe Miranda 108, 280;
G. V. II 227, 111232,233, 243. Das junge mannliclie Tier wird gleiclierweise
dureh die Endungen acJio und ato bezeidinet, welclie also in diesem Falle dimi-
nutive Bedeutung liaben. Man erinnere sieli an lehracho lohacho borracho, und aucli
an mochaeho muchacho und riaclio, andererseits an chibato cercato jabato' corvato,
lobato und lebrato.'
Macho fiir muacho "wie callaclo (gali.) fiir coalhado {]port.) = coagulatus ; port. gali.
cando fiir quando, cai fiir qual, calidad fiir qualidad, Jani fiir Joam, consante fiii"
coHsoante. A fiir uà gebort dem "westlieheu Spracligebiet an. ''
24. Madroào.
Einen Namen fiir den Erdbcer- oder Mecrkirschenhaum iiberkamen die Lateiner
den Eomanen. Es ist arbutus ( arbutus unèdo bei Linné.) lek habe friiher versueht
nacbzuweisen dass das astur. albédro, gali, érvedo hérvedohéròedo, altp. érvedo érvodo,
kast. alborto, alborzo, bisk. borio, kat. arbos arbosser, mail, arbossa, frz. arbouse ar-
bousier, arag. albrocera alborocera zum Teil aus arbétus zum Teil aus arbiitrum (fiir
arbfdrurn), zum Teil aus adjektivischem arbuteus hervorgegangeu sind. ' lek liiitte
noch das ital. albatro aus arbùtriim hinzufiigen kònnen.
Diese alten hispanisehen Vertreter des lat. arbutus sind lieutzutage im Munde
des gebildeten, aber nieht fachmànuisdien Spaniers nicht mekr zu finden. Der
Erdbeerbaiini heisst fiir ikn madroùera span., madronheiro gali., medronheiro port.,
und seine Fruckt madroho (sckon bei Juan Manuel, Obras p. 259) madronho medronho.
Nur als Provinzialismen leben die alten Namen weiter, auf hisp. Gebiete in
Gallizien, auf port. in der Proràiz Beira, welcke beideu Landschaften reieli an
' Muuz. B.Hv. de Linli. p. 186 u. Viit. 1000, im, muaih. 517, 1109, u. Coli. Br. 409,410; »!« boi G. V. Ili 216, 218.
' AuBjavali (aspan. javalin, vulgport. javuUm) dem arabisohen Adjektivo, abstraliirto man fiilsclilich den
Stamm jav.
' Siebe auch cegato niTiato novato nabato (rotw.) und nabaton.
' Was ist moacha bei G. V. z. B. II 81?
' Albédro aus albuedro albodro von albulrum fiir urbuirum. S. Studicn, jiag. 251.
— 137 ~
Erdbeerbii,umen, reicli aneli aii Ortschaften wie Ervcdedo Erbededo Ervedeira Ervedosn
Ervedal sind.
Ein Zusaminenhang zwisclien den alten iind den neuen Bezeichnungen ist
nicht, oder nur auf das allergewaltsamste liei'zustelleu mit Hiilfe des bere, mevodo
das ich weiter unten ini Artikel ilber morango erwahne. '
Nahe liegt es vielmehr in madronlio medronlw ein von mnturun vermittelst des
Snffixes -oìieus abgeleitetes adjektivirtes Substantiv zn snclien, uuter Berufnng
darauf, dass die Frucht sehr langsam reift, im Zustande der Reife aber durch ihre
kostliclie hoclirote Purpnrfarbe das Sinnbild aller Eeife sein kann. " Madronlio ware
verniutlich eine westliclie Bildung, da der Westen die Endung -onho bevorzugt.
Man selle medanho tristoiiho risonilo enfadonlio pediijonho guardonlio (Adjektiva) und
succedonho vidonJio " (Substantiva). Bei kast. Ursprunge wiirde man -ueno erwarten, wie
in risueno pedigueho lialag'ùeho viducno , oder -uiia wie in redruna veduno.
Das kat. maditxa maduixa., maduxera madiiixera, welches vorwiegend die
Erdbeere (fresa) aber aneli den madrono benennfc, wird von diesem Worfce kaurn zu
trennen sein. Mcuhixa filr madruxa von einem hypothetischen matur-uceus.* Zu ver-
gieiclien wiiren pori, garducho santucho peqtierrucho machucho hnrlenguche.
Eine frlilier versnclite Deutung von madrono ans dem Arab. sclieint mir
misslungen. Mathroniat matharunlat sind niclits als Arabisirungen der span. Form
madrono (inadruho*). '
25. Maecico.
Obras de D. Juan Manuel, p. 250'' Zeile 28 u. 57. — « Vogelart, welclie gejagt
wird, aber iiiclit selber jagt und sich auf festem Lande aufliàlfc wie Trappe,
E.olirdommel » etc. Vergleiclie Baist, Libro de Gaza p. 168. — Aller Walirsclieiulich-
keit nach. derselbe Vogel welclien der Portugiese macarico oder viassarlco nennt
{macarico wolil fiir macrico wie mnssnroca flir massroca span. mazorca). Hier zu Lande
ist er jedermann bekannt, wenn niclit aus eigener Anscliauung so dock von
Horensagen, durch folgenden Kinderreim:
Pico, pico, massarìco ,
quem te deu tamanho bico?
foi nosso senhor Jesu Christo etc.'^
' S. unten N». 27.
' Die schamroten Wangen dei* span. Schbnen werden im Liede unendlich oft mifc den madroTios vergli-
ohen. AugenbUcklicli fallt mir nur der andai. Vers ein : En dandole una gromita A cualquier mosa Pepilo , Lo mesmo
que un madroTiito Se pone de encarnada.
^ Sanfonlta aus sympkonìa; vergotika aus verecundia (alt auch vergon^a); peqonha Umbildung aus altem peQou
sp. pozon von polionem; vesonha, Umbildung aus veson = vision ; cegonha= ciconla. — Woher cnrantonha? — Bisonìio
vom it. bisogno.
' S. Colmeiro, Dico. Bot. p. 115 und das von Ihm citiite «libro de Agvioultura de Ebn-el-Awam, trad. del
àrabe y anotado por Banqneri », Paris, 1864.
" Mifc demselben Liedcben wird iibrigens auch noch ein anderer Vogel mit langem Schnabel angesungen,
falls, was sGlir wohl moglich ist. ein und derselbe Sumpfvogel nicht zwei Namen getragen hat. Das Liedcben
lautet namlich auch (bei Q. V. Etl 22): Qiiem te deu tamanho bico, Eostinho de Ccrolico? oder Sirolico tico tico
18
— 138 —
der ilin als einen Vogel mit sehr ' langem Schuabel cliaracterisirt. Nàheres wussten
die Laien der Naturgescliickte .mir nidit anziigeben; die einen erklilrten den
mussar ico filr eine Sclmepfensorte, ' die anderen fiir eine Reiliersorte, wieder andere
f'iir einen Kranicli : die Auswalil aber fand stets im Kreise der Sumpf nnd "Watvògel
statt. Die Worterbiiclier und die naturwissenschaftlichen Handbilcher besclireiben
den massarico als ave aquatica da orclem das pernaltas de Meo convprido e raho ctirto =
Ardeola marina, strepsilas, tringa mterpres, und untersclieiden den malarico redi
= numeni'us phaeopus ou scoloj>ax arquata; malarico das r o chas :^^ actites hypoleu-
cits; und macarico gallego =r: limosa melanura, scolopax limosa.
Das Wort zu deuten reiclien meine Kenntnisse niclit aus. Mit marzo marziego
Miirz liat es uichts zn tun. Die Erklàrung, welche Gayangos giebt, ist durcli und
durcli falsch. '
26. Meigo.
Zu Zsclir. VII p. 113. Auch der KastiLianer, oder sagen wir lieber auch die
spanisclie Schriffcspraclie, die wie alle Scliriftsprachen den verschiedensten Provin-
zen Worte entlehnt, bedient sick des Wortes mega im Siune von Zaubrerin, Hexe. Die
« Picara Justina », die wie ich schon ofters erwahnen musste, viele Eigentiimlichkeiten
der niit westlicken Elementen naturgemàss reicklickst gesattigten Provinz Leon
entnimmt, brauckt das Worfc auf p. 57 u. 202: sirva de defenderse una persona de
hellacas òrujas sanguijuelas , que asi Uamaron los antiguos a las lamias, hrujas y
megas. Graston Paris, Eom. XII p. 412 sckliigt vor an Stelle von magius die
Form magicus, als Etymon anzusetzen , und auck Herr Baist sprack mir vor
Zeiten in einem Briefoken dieselbe Ansickt aus. Magicus inalcus maigo meigo kast.
mego entspracke vom zweiten Gliede an genau der Entwickelung von Idicus durck
laigo zu leigo kast. lego. Und gegen den ersten Sckritt, Ausfall von g zwiscken Vocal
und Vocal (a + i). ware auf port. Gebiete nickts einzuwenden. Es geniigt an mestre
durck meestre aus maistre magister, an setta durck seetta aus saitta fiir sagitta, an hainha
aus vagina, mais aus magis zu erinnern. Was mick dakin gebrackt, die Form magius
lieber denn magicus als Etymon aufzustellen , an die ick natiirlick auck gedackt,
oder Sirolico lieo tico oder Sorrobico massarico) Qiiem te deu tamanho Meo? Und dieser ceroUco sirolico sorrobico
heisst feruer seropico soropico soropicote. und, wie der Spottname des Dichters Fernao Eodrigues Lobo beweist,
Soropìta Sorapita Surropita Suropita Zarapita. Kast. sarapico und zarapito (Fila 987; Cai. y Dim. p. 74). Der
Katalane nennt das Tier (deu numenius pliacopus) polii. — Cfr. Hom. VI p. 54.
' loh sago sehr lang weil der Goldsohmied sein feines Lothrolir naoh dem Schuabel des massarico ge-
tauft hat.
' Meiner Moinung naoh das Rtclilirje. Ilier kommt der massarico bisweileu, als gixtes Jagdstuck. zuni
Kaufe auf don Markfc, doch ist es mir noch uiclit gegliickt die Gelegenbeit beim Scliopfo zu fassen, xind den
fragliehen Vogol zu erwerbon.
' Die betreffendon Stollen sind Aufzahlungen und lauten: et los alcaravanee, et los marcìcos, et los siso-
nes etc. und Ila y olras qac se mantienen sicmpre cu el seco asi corno lus almfnrdas et ìos cucrvos caloos. et los
alcaravanes, el los mirlos \el los] marcicos el las ijamgas etc — Gayaugos bemerkt dazu, sein Augenmerk einzig
auf dio zwoito, vordorbto Stollo richtend: ' Marc ico adj. apllcado al mirlo. Diz-se tambion marziego (!) y (luizà
se tome del mes de marso. »
— 139 —
isfc die grosse Zuneigung der nordlichen und nordwestKcheii Dialekte der Halbin-
sel zur Ersetziing des auslauteudou o und a diircli io i;nd ia. Ausser den bereits
welter obeu untev a^amo erwahnten Fàllen seien angeflihrt: vulg. port. cifrìa, (juapio
morihuncUo ouvidio (Santo Ouvidio Schutzpatron der Ohrenkranken) melenia promes-
sia rabio escadia und altport. (u. vulgport.) clmvia und chuiva, venturia und venttdra,
in welchen beiden der gleiche Umsprung des i aus der Endsilbe in den eigentlichen
Stamm eiutrat wie in maiga. Vgl. aucli altport. Astuiras Estuiras fiir Asturias. Dies ist
ein kleiner Beitrag zu der zwischen Baisi und Cornu liin und ber bewegten Frage
iiber cudiar cuidar.
27. MORANGO.
Diaz, "Wortschopfung p. 59, erwithnt das Worfc irrtiimlicher Weise als spanisch.
Es ist portugiesisck. Der Spanier nennt die Erdbeere entweder in gelekrten Krei-
sen fraga, oder im gewohnlichen Leben des Volkes /resa [E. W. II''. s. y. fi'aise],
seltner (prov. ?) mayotn mayueta mayeta = Maifrucht [E. W. II''. VergL itak mag-
giostva]. Frilber soli er sie auck mit dem nock ungelosten micsgo (woker amiesga
miesgado amiesgado und durck Metatkese miezdago) bezeicknet kaben. ' Der Portu-
giese kingegen kennt fiir die in seinem Boden, wie auf der ganzen Halbinsel
(Aranjuez!) kerrlick gedeikende Fruckt keine andere Bezeicknung als morango fiir
die weisslicken grossen, moranga fiir die kleineren dunkelroten Sorten. Morangào
morungal morangueira sind Ableitungen zur Benennung der Pflanze als solcker, und
der Beete und Felder auf denen sie wackst. Die Orts ckaften Moraho und Moran-
gueiì'o liegen in G-allizien.
lek zerlege das "Wort in den Stamm mor und das Suffix ango (-anicios ?), das frei-
ck zu den seltneren geliort, ' kalte es also fiir eine auf kispanisckem Boden gesckaf-
fene Neubildung, fiir welcke kein unmittelbares Urbild in andereu Spracken (Lat.
Deutsck, Grieckisck Arabisck) zu sucken ist. Nur der Stamm ist lateinisck, ist das
bekannte mórus (grieck. [xtìipov und j),ópov), der Name also fiir Maulbeere u. Brom-
beere, der auf der Halbinsel diese selben. und nock andere abweicbende Beeren-
friickte bezeicknet, als da sind Himbeere Erdbeere und die eiues eigenen Namens
entbekrende Fruckt des Erdbeerbaumes (arbutus unèdo), (der, nebenbei gesagt, eiuer
der sckSnsten Zierbiiume des slidlicken "Waldes ist).
'Oolmeiro p. 126 stellfc miezdago unter die ùblicben Viilgaìrnamen dei* span. Pflauzen. Ob mit Recht? Das
brauclibare Bucli ist niclit immer zuverlassig. — tjber die Etymologie von miezga wage Icli nur eiiiige, vielleioht
ganz wertlose, Vermutungen zu aussern. Von mies (messis) wird es kaum kommen; die Bezeiclmung Erntebeere ver-
stande man in ilirem Motive niclit reolit. Eiier vielleicht lionnte miesgo das lat. vescus, d. h. dem Linnéschen //-a-
f/arìa vesca entnommeu sein. Hierbei sei bemevkt dass Colmeiro p. 231 unter den veralteten Pflanzennamou ein
mir gànzlicb nnbekanntes hiezf/o fiir sainbiicus ebuliis verzeiclinet. Icb vermute dieses biezgo sei Lesefebler fiii- yezgo
(altes yedgo), Attich Aditeìistaude Actenbecre (HoUunder), fiir den savibucus ebulus also. Dass dies .sjjan. yezgo unmòglich
ebulmn sein kann, wie Diez I" p. 161 s. v. ebbio sagt, sondern niohts auderes als deficit»* von ade grieoli ixrii fiir
àuTsa ist. Bei nebenbei erwiilmt.
- Diez Gr. II 377 eiico engo ango =la,t. inqulis ; ingo engo ango = deutsoii ing ling. Vgl. Foerster Gr. § 320 u. 322.
Docli sind der hispan. Bildungen in anca anco, anga ango, ancro, enga engo engtie, eneo, inga ingo ingitc, inca. onqo
onga,onca, unga ungleich melire als es nacb jenen Uebersichten den Anschein hat.
— 140 —
Morus steckt in deu peninsularen Namen ftìx
1) Brombeere: span. mora, mora de esjjuio, mora de zarza, zarzamora, port.
gali, mora, amora, amora de sìlveira, amora de silva; vai. mora de zarzal. '
2) Maidheere, span. mora, mora de mora! od. de murerà; port. mora, amora,
amora de drvore; gali, amorote.
3) Eì'dbeere, gali, amorote morote morodo morogo, port. morango.
4) Erdbeerbaumfrucht , Meerklrsche , gali, morote de ervedo und amorodo. Der
Einwohner von Bierzo neunt sie merodo (aucli morodoì), ein Wort. welches viel-
leiclit auderen Ursprungs ist, vielleiclit aber auch fiir morodo morote stehen kann."
5) Himbeere sp. mora roja, mora de zarza troyana ó idea, mora de zarzafraga,
port. amora roxa oder vermelha. DÌ6se Bezeicliniiugen siud selten, docli volkstumlicli.
Der Grebildete nennt die Frucht [morum idamm] mit dem niederlandischen Worte
frambuesa,frambueso, welches das Volk sich durch Umbildung zu sanguesa sanguéso
(gleichsam also Blutbeere) mundgereclit gemaclifc liat. '
Das altport. benannte zwei hockrote Beerenfriichte mit Derivaten von morus;
mit morèco entweder die rote Erdbeere oder die Meerkirscbe , mit amora walirscliein-
licb die Himbeere. Man lese das 1062te Lied des Cane, da Vat. , ' in welcbem die
weinrote, ins Blaulicbrote spielende Nase eiues Bischofs von Viseu mit Tollapfeln,
mit Feigen, mit Scliarlach, mit Himbeerrosen und zuletzt mit der Erdbeere, wenn
ich morecescuro richtig dente, und mit Himbeeren amoras maduras verglichen wird.'
28. Mouco.
Port.: sclmerhorlg. — Bei Diez E. W. II''. oline Erklarung. — Eom. IV p. 367 von
Bugge aus mucus* griech. jj-Oxcc gedeatet. Befriedigt weder lautlich nocli dem
Sinne nach. — Was ich hier verzeichne ist nur ein Einfall; vielleiclit jedocli der
Einfall einer gliioklichen Stunde.
Dass mouco aus manco entstanden sein kann wie ouro aus aurum , pouco aus
IKiucus, ronco aus raucxi,s liisst sich nicht leugnen. Manco aber diirfte auf'ein urspriing-
' Der Maulbeerbaiim beisst span. moral, inorerà, port. moral. mnoreira, der Brombeerstrauch {rubus) dort
zarza zarzal, auch zarza-idea nnd selbst moral zarzal (woher zablreiche Ortsuamen wie Morales Moraleda, ja sogar
Moralzarzal), hier silca silveira.
■ '■ Poes. Bere. p. 206 u. 245. - S. oben Madrono N» 21.
' Blutbeere nennt der Spanier bekanutlioh auch, nach alter lateinischer Sitte (Plinius), dio Korm'Ikirsche
mit den Worten saiigueno sangiùTiol pg. sanyuiiiha zniigrhilio (zaiKjrinheiro). Friiher beuutzten beide Sprachen
htiufìger cornizitelo cornizolo.
' Bemerken will ich dass der roten, stellenweiso ins Blaiilichrote hineiuspielenden Naso des weinseligen
Priilaten auch die Parbenbezeichnung cdrdeo beigelegt wird. Ich lese: et foi feda a hum bispo de Vi»eu, naturai
ìVAragom qiie era cardeo conio cada ima d'estas comas que contam evi està cantiya, ou màis.,., Th. Braga iindert auch
hier ohne jeglichen Grund und nicht mit gliiekiichem Griffe. Die verglichenen Gogenstande .sind bereniienlia ,
figos i^ofeinoa, escarlata roxa, rosa bastarda, morecesatro, amoras maduras.
' Mit amoras maduras vergleiohe man das kat. maduixa maduxa, maduxar maduxera madiixera und das span.
port. matiron/io. — Das kat. bietet ùbrigens fiir die hier verzeichneten Beerenfriichte recht abweichende Namen.
Die Himbeere heisst </er», der Himbeerstrauch gerdera: die Bromboere mora deesbarser; oder e.war.w.r der Straucli
esbarserar oder auch rnmaguera (^roma nietli: t'iir moraf odor von rubu.t, da an rumex dodi nicht gedaciit werden
kann f) ; die Kornelkii'sche jordu.
— 141 —
liclies midco weiseu ■wie faida aiif falta. ' Zuin Uberfluss seieu uocli Formen er-
wahnt, in denen ein port. ou aiis lat. id eritstanden ; soido -.^ saltus ; outeiro ::= altarius ;
ensoum = insaìsus; bouca = balsa; poupar = papar; toupeira von talparia, talpa.
Malco nun ist eiu Eigenname, ist der Name jenes berùhmten Kriegskneehtes
Malckus, welcliem Petrus einst das rechte Olir absclilug (Evang. Joli.), ihn also znm
Einolir machend. Den Schw&rhUrigen und den sicli ahdchtUclt tauh und ohrenkrnnk
stelleiiden konute man sclierzhaft selir wohl mit den Namen des sicheiiich berillim-
testen, òftest — in der Kirche — genanaten aller Eiuohre rufen.
Dass eia Eiuolir tatsachlicli einmal ein Malckus genannt worden ist, beweist
zum ilbrigen z. B. Estebanillo Gronzalez. Er erzalilt (p. 27 der ed. Paris) von seinen
Abenteuern als Barbierlehriiug : no acordando-ine que tenia orejas y pensando que todo
d distrito que cocjian las dos lentpuis aceradas, era madeja de Aòsaloii, apreté los dedos
y dejélo heclw un Malco.
Matteo Malcns steht also iu einer Reilie mit fiicar Fmjijer, sencjo Seneca, payo
Pelayo. '
Was die Begriffsiibertragnng von Einohr zu Stummelokr, schlechthorendes Olir
betrifft, so bietet z. B. sard. òisoyu, frz. louclie, port. zarolho eiuen iilinlichen Ùber-
gang, von schielend zu cindugig.
Von mouco abgeleitet sind mouquice, mouquidào, moucarrào, moucarrice, lauter gute
alte Formen welclie bereits in den alten Liederbiicliern vorkommen (z. B. Cane, de
Ees. I 396. 414). -
29. Non nom nào.
Spau. non noni; port. noni nào: Name; volgaire Kurzuugen des altspan. alt-
und neuport. nome (lat nomine; kast. nonihre) welclie jedoch nur in Schwurformeln
vorkommen: span. voto a noni de dios ( Valdivielso , Rem. Esp. p. 11) a non de dios
(Tirso de Molina p. 207); port. nào de deus (G. V. Ili 15), nào de san (id. II 498)
nào de Sào (id. I 251). — Diese Formeln fallen unter einen Accent; die Apocope ist
also genau so aufzufassen und zu beurteilen wie in anderen entsprechend gebauten
Formeln. lek meine en (de, a) cas de.... (spanport.); a guis de.... (Berceo, Millan 414);
afuer de.... (Mir. 102, 781); a for de (G. Y. I 195); a cab de (Mir. 113, 401); >' da
nemiga, hi de perro, hi de ruin etc. iiir fjo liijo de; gali, nò mais fiir nadamais; aport.
cdque fiir cadaque (Mir. 35, 4, dock problematisck) ; port. che-te = chega-te, guar-te
' Dar quince e faida Ausdruck des Ballsiùels. Span. dar quinse y falta.
■ Pelayo, der astm-ische Held und Konig, heisst in den port. Genealogien stetig Palayo, uud fiilirt immer den
Beinamen < o montesiiilin •■ S. Liv. de Linh. p. 231, iHS. Dass ans 'Palayo o montcsiiiho » palayo zuerst den Beige-
sclimaok, dann ausschliesslioli den Sino von « bàuerisch « annahm, liann nicht Wunder nekmen. Die Form 2mnyo fili-
Palayo bieten die Liv. de Linli. des ofteren, z. B. auf p. 249, wo vom heiligen Pelagius sam paayo die Rede ist;
payo aus Pelagius in dem bekannten Namen Sampaio. Im Kast. blieb payo in seiner Entwickelung steben sobald es
den Sinn von bduerisch |« agreste, safio »] grob, plump angenommen batte; im Port. gieng man noch einen Sohritt
welter; vom ausserlich baueriscb aussehenden, plumpen, knrzen, untersetzten Menschen ging das Wort dazu
iiber, eine dicke kurze ÌVurst zu benennen. — Angedeutet habe ich diese Etimologie bereits in meinen « Studien >.
— 142 —
= ffuarda-te , far-te = favta-te , cìpjìen-te = dejlende-te (Sjmn.) — Dies zu Diez II''
nombre.
Nach den Gesetzen der Satzplionetik wurden auch scnhor senhora iu den liispa-
nischen Sprachen behandelt, da wo sie iu der Anrede als "Vocative, iu Begleitung
eines anderen Wortes auftreten, welclies den Ton tragt. In der famiUaren port.
Sprache liort man oft: oh seu marroto! [oh sua marota.'] uud dhnliches. Séu séo fiir
séó seló aus senyó senhor. Der Andalusier sagt só^ der Bogotaner sió [das and. Fem.
kenne icli niclit, bog. lautet es sid und sena nd.]
30. Pelmazo.
Diez EW. IP: grieck. iTéXjia Fussohlef — Sanchez, Gloss. Alex 986 : jjZìHwazo ? ' —
Rom. IV 48 Morel-Fatio: flumhamtis.' — Zsckr. V 241, Baist: pemma (Backwerk).
Ein neuer Versuch das schmerige Wort zu losen, sei liier verzeicknet. Unbe-
dingt muss vou dem Stammwort ijdma ^ und von der Bedeutung flach zusammenge-
presste, klebende, breiartige{?) Masse ausgegangeu werden. Weil uun, was alle meine
Vorgiinger ubersehen haben, im Ladiuisckeu (buch. uud grd. und auck im bresc. Val
di Scalfe) ein vollig gleicklautendes Substantiv jjeZm« existiert, niit der ausscUiessli-
cken Bedeutung Honigfladeii ; da ein Fladen aber einmal soviel wie eine Honicjumbe ,
dann aber auck ein ]3lattes flaches Backwerk ist; weil also bei voUkómmenem
Grleicblaute Àkulickkeit der Bedeutung beider Worte vorHegt , so darf man diesel-
ben nickt getrennt von einander erklàren wollen; und muss ikr Etymon im lat.
Sprackfonds gesuckt werdeu.
Honigjladm, Honigwaben und Waffeln werden von alien Etymologen als zellenfor-
mige Backwerke ckaracterisirt, mit voUem Reckte. ' Und da meine ick denn, die
VorsteUung welcke den betrelFenden Backwaaren im Romaniscken den Namen gab,
konno sekr woki die eines ZusammengefUgten sein. Das von Sckneller ^ vorgescklagene
' Auch der Erzpriesfcer verwendet das Worfc, was bislier nirgends angomerkt ward, und zwar im Sìmie von
Langiveiligerj Làstiger, Scinvcr/dlliger tMensch) oder aucli vou Langwclligkeìi, Widcrwdrtigìceit, Idstigc Sache. Fita 718;
Este vos tirarla de todos esos pòbnasos,
de pleytos, o de afruentas, de verguenzas, e de i^lasos.
muclios disen qua coydan parar-vos tales lasos
fasta que non vos dexen en las pnertas Uumasos.
■ Lluma.w ist der hisp. Vertreter vom lat. plttmbaccus, port. alt cJiumba^o, chiima(;o; lettere Form vertritt
auch plumaceua und bedeutet Fedtrkissen ; indma-o noben plumazo = Federkissen z. B. Port. Mon. , Chartae p. 44. —
TJeber den genairen Sinn von pdmazo im Alexanderliedo ist es scliwer vorlaufig zu ontsclieiden. Zum Scliutze
gogen die Schljige des grimmen Megasar (Megusar Legusar Nogusar) konnte obensowobl ein Waffenstiick
aus Eisen als ein gepolstertes wattirtes Wams dienen: es kommt eben nur darauf an womit jener scine Scbljige
austeilte. Spricht das GedicUt von Faust- oder Keulensohliigeu oder von Lanzensticben ? Cfr. S77 und Q9i agebó
canna Jieafra mano una fiera plomada. Der Kiimpfor verwimdete scine Gegner an Brust und Schulter und im Kreuze.
' Ist es wirlilich ein andalusiscbes iind nur ein andalusisobes Wort? In den mìr bekannten and. Texten kommt
es nicht vor. Und das Worterbuoh der AUademie sagt, wie viele andore guto Wortcrbucher, oinfaob: « Pclma 1/ pel-
mazo : lo que eald aplastado. Met. El siijeto tardo 6 pcsado. » — Aucli kommen apclmazar apelmazado haufig genng vor :
z. B. cahello apdmazado bei Lue. Bodriguez p. 258; letrafcrmosa que non se apelma-ae im Cane, do Baena II p. 136.
' Cfr. Diez nii oro!i/"re ; Weigand s. v. ìVabe ÌVaffel; etc.
' Schneller, Sudtirol. p. 243.
_ 143 —
Etymon lai. jiegma gr. ;:Yj7;j.a befriedigfc also saohlicli. ' Und lautlich. gleicherweise;
denn aus griech. lab. </ luifc uamittelbar darauf folgender Consonanz (m und d) ist
im Span. melir denn ein Mal ein l geworden. Salma aus sagma, gr. aàY[j,a; esmeralda
aus smaragdus, gr. a[j.àfja-cSoc; altsp. Baldac fiir Bagdad;' ehenàsih.QV haldoque;^
ueuspan. im Volksmunde Maldehurgo fiir Magdeburg.
Einen anderen, friiiier, von niir versuchten Deutungsversuch lasse ich ange-
sichts der oben verzeichneten Auifassung ebenso leicht fallen -«de die vier àlteren.
Er -woWie pelmazo (durcli puelmazo* polmazo*) aus einem ìiy \ìOÌ\\eiisc\\Qn polmaceus*
erkliiren, d. h. ilin als ein Derivat des port. poIme = Brei\'' anselien, gestiìtzt auf
zahli-eiolie span. port. Eedewendungen, -welche den Tragen und Pblegmatikus als
Breisack (deutsch Melilsack!) bezeichnen.
31. PlNTASILGO.
Diez II'' : pidus passcrculuii. — Zschr. V 239 u. VII 121 : inctns{?)syìic,us. Der Por-
tugiese sagt keutzutage j>i«<rts%o wie der Spanier; friiher waren vorwiegend, wenn
auch nielli aiisscbiiesclilich, Formen mit rg in Gebrauch. Pintasirgo linde ich z. B.
in Diogo Bernardes, Bona Jesus p. 148, pintisirgo bei G. V. II 433; auch pintaxirgo
isfc mir begegnet. Man verstebt darunter gemeinhin unseren Stieglitz oder Di-
sielQ.Tik.= f ring illa carduelis, welclier hier allerorten — und sehr gern — geselien ist,
besonders als Stuben- und Singvogel; das fein geputzte Herrcben also, iiber dessen
buntes Galakleid den Kindern manches Gescbichtchen erzàhlt wird. Eichtig ist
dass der Spanier den Vogel meisthin xilguero nennt, nebenbei aber auch noch
pintad'dlo n. pecliicolorado im Hinblick auf seine bunte Farbung, und cardelìna carda-
lina (frz. chardonneret) nach seiner Lieblingskost, den Samen der Distel.
In cilgo silgo sirgo xirgo vermutete auch ich seit làngerer Zeit eine Farbenbe-
zeichnung; und das von Baist vorgeschlagene syricus == hochrot '' scheint mir gut ge-
' Dass palma im Span. ein Baclaoerk bezeichnet, ist freilioh zunaohst nnr Hypothese. Eine Zwischenstufe
zwischen der ladinisolien Bedeutiing und der span. in pdma und pelmazo steckenden glaube ich jodooh gefunden
zu haben. Beroeo bietet namlioh ein Wort pemazo im Sinne von kleisferaftige klebeiide Masse, vieUeicht von M'aclis-
kuchen d. h. von dem nach Auspresmtng des Honigs zuruckbleibendem Wachsbestand f
Dom. 6S7: En medio de Ics labros pusoli vm pedazo
de un engrut miiy negro, semeiaba pemazo.
Isfc Ai&s pcmnzo Druckfehler fiir, oder Nebenform von pelmazo? Eines von boiden gewiss. Sanohez erkliirt diesmal
mit Vorsicht: Parece especie de cerate. — Im Cane, de Baena II 97 scheint pelmaso so vie! wie Fhlerjma zu bedeuten. —
- Conq. de Ultr. 504.
" Conq. de Ultr. 26S und Cren. Rim. 928.
' Bei der Gestaltung desport, ijoime haben vioh\ polline (von poli en miàpol.lis)=feines Mehl, nnà pulmentum^
Speise (wofiir piilmen im Volksmunde eintreten konnte) zusammengewirkt? Palme aus polmen ptilmen, wie nome
aus namen, home aus homen età. Polmàa, aport. polmeira (Vat. 993 u. D. Duarte, Iieal. Cons. p. 118) bezeichnet eine
Geschwidst, ein Geschwiir, einen vlice««. — Moglioherweise ist bei der Enstehung von palme auch pulmo(ne) nioht
ohne Einwirkung geblieben , da dem Bomanen in den Lungeu besonders das « Sohwammichte, Leichte » auffallt
(Sp. livianos, alt lei:es, port. bofes).
» Eot ist die Farbe aller Farben; und der hoohrote Pleck des Stieglitz fallt in die Augen. — Botwein nennt
der Portugiese nie anders als vinlio tinta; span. Colorado, port. corado, ist ebeu rat.
— 144 —
fnnden uncl wird wohl das Etymou aneli fiir xilguero, alt xirguero, xirgan, sirgucrn
(gali, xilgaro Ros. Caut. p. 128) sein. '
Was aber ist 1)1111(1 imitif Baisi spricht sicli dariiber niclit aus, hat sich also
vermutlich mit der von Cabrerà und Diez befùrworteten Eetroversion zu pidus
begnilgt. Ein Kompositum pidus sijricus im Sinne von rotfjnfdrU rotfnrhig oder
bunt und rot (Part. +Adj.) ist selir unwahrsclieinlich und stiinde keineswegs auf
einer Linie mit Zusammensetzungen wie acpidulce , vcrdinegro (Adj. -r- Adj), oder wie
plntipaì-ado. (Part. -r- Part), oder -wie Pintaflor (Eigenname; Part.-h Subst.).
Eber kònnte jìinta pinti das Substantiv j;i«frt sein (von pidus, pida^ oder Ver-
balsubst. Yon. pintar?) welches auf der ganzen Halbinsel einen Farhenfleck bezeichnet.
Pintasllgo ware also liotlifledc. Dock scheint mir die folgende Deutung vorznziehen.
Pinti ist eine durck naheliegende Volksetymologie kervorgernfene UmbildiTng
aus pitiz=pedus^ Brust. Und zwar glaube ick das, obwohl die Form pitisilgo nickt
nackgewiesen ist, weil in zaklreiclien anderen Zusammensetzungen des peninsula-
ren Sprackfonds, welclie rotbriìstige Tiei-e, so Vogai als Fische, benennen , als
erstes Glied j;eh" piiti pinti pinto pinta und pecho aus pedus vorkommen. Pintasilgo
also i?o<&)'«sf, ein aus Subst.-r-x4dj zusammeugefugtes Wort wie nlcdtlanco pRclnplanco
carilargo etc. Peti piti ward pinti pinto pinta, mit welcken Formen sick naturgemàss
der Gedanke an pinto jnnta^=FarbenJlecJc verkntlpfeu mnsste. Dass sick beim Stieg-
litz der kockrote Fleck, welcker ihn ziert, eigentlick nickt auf Brust oder Kelile,
sondern am Scknabelgrunde befindet, ist freikck wakr; dock dass man es mit der
Ortsangabe des Fleckeus nickt allzugenau genommen, beweist das span. pcchicolo-
rado, in dem. jyecho nickt miszuversteken ist.
Zum Vergleicke kabe ick kerangezogen
1) jiort. gali, pintaroxo pintorroxo. Dasselbe soli zwei Vogelarten benennen,
beide aus der Familie der Finken , gleickwie der Stieglitz; erstens unseren rot-
brustigen Dompfaifen, fringilla rubridlla, welcken der Kastilianer auck mit dem
Namen des StiegKtz 2><i<^hicolorado , sonst aber auck camadiuelo und ferner pardillo
nennt; zweitens unser Rotkkelilcken, sylvia riòecula, die den Namen « Eotbrust »
gewiss verdient. '
2) kast. pitirojo, pitlorroxo^ (it. pettorosso) worunter das ebeu genaunte
Eotkciddien verstanden wird.
3) kast. pintarroja pintaroxa petirrojo pechirojo , (kat. pitros<) lauter Namen
fiir einen rotbriistigen Fisck (oder fiir mekrere ?). Die Portugiesen keunen nur den
Namen ruivo fiir denselben. ^
' Sirgo xirgo wo es im Altspan. vmd altport. als Simplex auftritt, bedeutet freilicli immer soviel wie se.rìcua =
Seide und seidig {Q. V. 1 84 und ol't). Und pinio airgo = Seidcnhrnst wiire eine keineswegs umnogliche Bildung. Es
fiagt sich nui' ob das Bruslgefleder des Stieglitz wirkUcli mehr Seidenglanz uud Seidenweichheit hat als das an-
dorer ouropiiischer Singvogel.
■ Conocimiento de las diez aves menores de jaula. Madrid 1614.
" Pito-nù heisst im port. Volltsmiihvchen oine Eulenart. S. Braga, Contos, voi. I p. 152. — Auch im kat.
giebt es einen Vogeli)i(ros = Rolhhrust; welcher cs ist, kanu ich uicht sagen. Den RothsptcM nennt der Gallizier
jìilurei pctorei. — Ein gali. Kinderreim, der vermutlich dom Buntspeclit gewidmot ist, beginnt: rito pito colorilo,
quem che deu lamano bica? (Rora. VI 54). S. obcn N» 25, Anm. 1.
145
32. POUSALODSA.
Diez EW. Il' s. V. mariposa. — Rom. V. 180 Storm. — Zschr. V 246 Baist.
Den Sclimetterling nennt der Portugiese borboleta, vulgar (wie auch galliziscL.
II. bercianisch) barbureta uud balbureta, seltner boas-novas (weil die haufigeren hellfar-
bigen buuten « Sommervogel » als Vorboten. guter Naclirichten angesehen werden;
die scliwarzen gelten hingegen fiir Tràger von Todesbotschaften, die gelben sind
Geldbrief-melder) ; selir selten mariposa. Das poetiseli kliugende jpottsaZoMsa, welches
Diez mit: setze dich auf den Grabstein! iibersetzen wollte, hat bis haute noch kei-
ner von ali den Portugiesen gekanut, die icli darnach gefragt, weder Kinder des
Volkes, nodi Gebildete von den oberen Zehntansend. An seiner Existenz zweifle ich
nicht; dock ist niir unbekannt wolier Bento Pereii-a es genommen. Seiner « Proso-
dia» entlelmten es alle spateren Lexikograplien. "Walirscheinlicli iiat er das, bes-
cliranktem Gebiete angehorige Worfc direkt aus dem Volksmunde aufgelesen. Den
Ursprung desselben glaube ich gefunden zu haben.
Pausar heisst niedersitzen und wird von Vogeln und Insekten oft gebraucht.
Die Ubersetzung setze dich die man pousa gegeben , ist also die rechte. Lousa ist der
flache Stein, besonders ScMeferstein, Schiefertafel. Grabstein bedeutet das Wort nicht. '
Eine Bildung pousa a lousa ist ganz nnmoglich. Setz diali auf den Stein ware
pousa na lousa oder soòre a lousa. Die W^òi'tev p)otisa=sitznieder, und lotisa^= Stein sind
schlechthin ohue jegliche bindende Partikel neben einander gestellt vvorden, und
zwar einzig und allein aus dem Grunde weil sie reimen , reimen auch in einem
Verschen welches die Kinderwelt Portugals (und walirscheinlich auch gewisser
spanischer Gebiete) alien oder einigen summenden, schwirrenden , schwebenden
Insecten ensgegensingt um sie zur Eulie einzuladen.
Dass der Portiigiese Eeimformeln oder wie Eeimformeln Idingende Wortab-
leitungen liebt, versteht sicli eigentlich von selbst. Cegarrega (fiir cigarra), tengo-
meìigo, luscqfusco, trouxemouxe , gigajoga, antecoante, terolero, tiravira, alhaspalhas,
choldabolda, trincolhosbiincolhos sind einige wenige Beispiele. "" Auch dass er zu
gewissen oft wiederkehreuden Phrasen eine ganz sinnlose Eeimformel hinzufligt,
einzig und allein aus Freude am Eeimgeklingel, ist ein Zug, der sich in alien rom.
Sprachen, wenu nicht in alien Sprachen iiberhaupt, wiederfindet. Z. B. zu Bem o
digo eu fiigt der Redende oder der Hòrende hinzu E' a Maria d'Abreu ; zu Que é
aquillo?, que é aquillo? ein Sani Joào a cacar um grillo! — Nào é nada, nào é nada. Sam
Joào a corner pescada. — Nào é mui{iì)to , nào é mui{iì)to. Sam Joào a corner presunto !
oder Basta, abasta, Maria da casta. — Deixe deixe, Maria do peixe etc.
' Ein Schmetterliug auf Grabsteinen in Spanien oder Portugal? Wer je einen Kii'chliof der Halbinsel betre-
ten, wird ibn daselbst nicht mehr suchen.
' Vergi, eira nem beira; reira e baceira; de cabo a rabo (altspau. de colodriello a tobiello); sem Milìio nem
vcncllho.
19
— 146 —
Der Kinderreim uim. um clen es sicli hier handelt, lautet:
Apouxa, ojìoìisa oder Pausa, ponsa
Maria da lousa.^
Das Màdclien, welches ilm meinem Kleinen vorsang, war aiis S. Joào da
Madeira bei Ovar, und behauptet in den Dorfem und Stadtclieu der Umgegend,
Oliveira d'Azemeis etc, kenne ilin jedes Kind; auf den Schmetterling liabe sie ihn
nie anwenden lioren, wohl aber auf den Hirschkàfer, die vacca loura oder carócha,^
wenn dieselbe im Finge summend angetroifen werde ' nnd , irre sie nicht , aneli
auf das Mavienwiirmchen. Dass der Kafer der gesnngenen Aufforderung stets
Folge leistet, niedersitzt und schweigt, versteht sich von selbst. Dass man denselben
Vers anderwàrts auf andere Insecten anwendet, wusste meine Gewàlirsmannin
ubrigens; dass mit demselben auch das beliebteste, verbreifcetste und augenfàlligste
aller Insekten, der bunte Sckmetterling , zur Euhe eingeladen "wird, ist meine Ver-
mutung, welcke die emsigen port. und span. Folkloristen koffentlich bald bestati-
gen werden.
Meine Meiunug besckritnkt sick nnn uickt darauf poiisa lousa aus jenem
Kinderreim kerzuleiten; auck mariposa soli gleicken Ursprnngs sein; und existirte
Marilousa, ick wurde nickt ansteken, auck diese dritte Form darin gegriindet
zu seken.
Mariposa (ein gutes altspan. Wort das z. B. Juau Manuel, Obras 248 kennt)
worin ick ricktig, wie Storm, den Namen Maria und den Imperativ posa vermutete,
ward somit nickt erst aus altem man y posa umgedeutet , wie ick annakm. Das
sardiniscke maniposa muss vielmekr eine jùngere Volksetymologie sein.
Den Namen Maria ftikren iibrigens weder im Port. nock im Span. Schmetter-
ling und Hirschkàfer ; in Portugal ist nickt einmal das Marienwiirmcken , das Son-
nenkafercken, der Mutter Gottes geweilit: es keisst Joanninha (gali, jedock Mariquina,
kast. Mariquita, kat. Marieta). Wolil aber kann und -wird mit dem Namen Maria anf
der Halbinsel jede beliebige weiblicke Gestalt angerufen , deren Namen man nickt
kennt; ' jedes Wesen an dem eine ckaracteristiscke Gestalt kervorgekoben werden
soli, jede Personificati on von Naturersckeinuugen.
' Doch aucli mit geschlossencm o Laute ApOsa apusa Maria da Iòsa.
' C'aroclia ist anderwàrts ein Name der barata, unserer Scliabe (Schwalie). Vgl. Leito de Vasconcellos. Trad.,
N«. 367, 370.
■' Die Jugend pflegt den Kiifer Ijoim Horn zu fassen, eineu Faden daran zu befestigon, ilin damitpendeln zu
lassen und dazu zu singen:
Zipiquéj zipicó
dd-ìa mosca no billió ,
cai de cima , cai de baixo.
Pica pica
na ban'iga
Die Verse sind eine Aufforderung zum Fliegon. Weder diosor noch der obige Reim sind bis jetzt von dou Folklo-
risten gebucbt worden. Sie haben nocli eine Uberreiclio NacMese bier zu Lande zu balten.
' V"!. Picara Justina 48: A^o liay hucspcd que no llamc Maria a loia moza de mcson und sielio Borao, Dice, de
Vozos Arag. p. 199 Mari- mariprisas, marienredos, mariapuros.
— 147 —
Nichi nm* class jeder Mamiol seine Maria hat wie bei uns jeder Ilansi seine
Liese, das Volk kennt ferner eine Maria das pernas compridas oder de bons pés := deu
Regen; eine Maria Parda als Trinkerin; q\\\q Maria da manta,' eine verkappte mit
der hassiichen altiDort. ca/m verhiillte Frauengestalt, ein Schreckgespenst; eine
Maria Marcella, eine mythisclie Figur, ùber die ich nichts nalieres weiss; eine Mana
Gou-Gou, desgleichen; eine Mari Castanhas, die Verkòrperung der fernsten Vergan-
genlieit. In Spauien haben wir dieselbe Maricastahas , haben dieselbe marimanta
uud ferner eine marimoreiia mariperez maritornes marizapalos marisahidilla marima-
ricas (Justina 193) manforzada (ib. 194), eine Marifea, Mariangel, Mariseca, Mari-
corta, Mavimanclia, Marinstiena (Luis Milan, Cortesano p. 13, 254, 236, 334, 876,
388); eine marica = Elster, eine Marinica del cascajal (Kieselstein) etc. " Bei fast
alien abergliiubischen Branchen der Sankt-Johaunisnacht muss die Handelnde
eine Jungfrau uud Maria sein. Drei Sterne fiilireu den Namen o.y tres Marias.
Tres e tria disse Marta a Maria und dergleichen mehr. — Ein altes Wort mit der
Bedeutung « Schmetterling » kann ich in ^osa nicht finden ; den Ursprung von
lousa suche icli wie Mahn im Celtischen. ^
33. QUEEA QtJEHADO.
Borao, Voces Arag. p. 225: « quera=carcoma, querar = car corner. » Wohl aus
caira fiir caria an Stelle von lat. caries.'' Caria fiir caries, wie rabia fiir rabies, satiia
fur sanies. S. ob. Eiva N°. 17.
34. QuExiGO.
Diez II"': « Quexigo grline Eiche; nicht aus quercus abgeleitet, da dem Spanier
keiu Suffix igo zu Gebote steht. »
Ist das vermeintliche Fehlen des Suffixes Igo der einzige Gl-rund , welcher daran
hindert, quex{igo) von quercus oder richtiger von einem Thenia querci abzuleiten,
d. h. bleibt die Mògliclikeit des Eutstehens von quex aus quess fùr qiierc unange-
fochten — was mieli Wunder nehmen solite — so kann ich die Etymologie quexigo
von querc{i\us ziemlich sicher stellen.
Vorausschicken muss ich dass man sich im Allgemeinen der Annahme viel zu
schroff und spròde gegenliberstellt als konnten Worter westlichen Ursprungs in den
kast. Sprachschatz u. in die Schriftsprache des span. Volkes Aufnalime gefunden
' Das kast. marimanta gebrauolit Quevedo im Sinne von « alte .Tnngfer. » (Poesias, p. 154, cfr. p. a-JS). Diese
Stelle (quedarnn por marimaiitas y a tu ìiiz por mariposa) ist interessant, weil sie zeigt dass 3fari in marimanta nnd
mariposa im Bewusstein des Dichters ein und dasselbe bedeuteten.
' Von Pflanzen nnd Tiernamen zu scliweigen in denen Maria und Maìi hUxiiìg sind.
° Die jungsthin von Baist vergesclilagene Erkliirung aus laxa befriedigt nicht.
* Ist caries iiberhaiipt einmal in die romanische Volksprache iibergegangen, so diirfte ancb fiir das kast.
carcomer, welches ich friiher bebandelte (.Jabrb. XIII, zu Diez ni>i , eine neue dritte Dentung aus carie comedere in
Betraclit gezogen werden.
— 148 —
haben. Als ob in Spanien sicli niclifc wie allerwarts die Seliriftsprache je nach dem
Heimatorte der verschiedenen Schriftsteller , mundartlicli farbte , wenn aucli nodi
so leise! Als ob die kast. Spraclie nicht aus dem Wortschatz der Volksmundarten
geschopt hatte ; als ob nicht manclies leonesische , asturische, aragonesische, andalu-
sische Wort Heimatrecht in ihr gefunden. Warum nun gerade kein portugiesisck-
gallizisclies ? Hat man vergessen wie eng der Znsammenhang beider Staaten bis
1640 gewesen? Und solite eine Periode wie die der alten galliziscben Troubadour-
poesie voriibergegangen sein okne in der Sprache irgend welche Spur zurùckzulas-
sen? ' Wie mrgo, wie sarao, wie chero, wie broa saudade huir vigiar etc, balte icli auch
quexifjo fiir ein port. "Wort.
Denn der mit diesem Namen benannte Baiim ist eine portugiesisclie Eiclienart,
quercus lusitanlca (v. Colmeiro), eine kleine kurzstiimmige Sorte ; wo eine Sache hei-
misch ist, pflegt aber aneli das Wort zu Hause zu sein, welclies sie benennt; und
was wesentlioli ist, das Suffix Igo, welclies in dem Worte steckt, ist ein j^ortugiesi-
schfis, wie ich gleich zeigen werde. Von Wichtigkeit ist auch'dass eine andare Ablei-
tung vom lat. quercus, dass cerquinho in carvalho cerquinho, gleichfalls dem Westen
angehort, der liberaus reicb. an Eiclienarten ist, die alle ihren besondereii Namen
haben.
Ich wiederhole dass mir nicht ganz klar ist, warum aus quercL... nicht querc,
sondern queix qnex ward (der Grallizier sagt qiudxigo). Gesetzt aber, es sei entstan-
den, so konute das Simplex nicht geniigen weil es mit drei anderen gleichlautenden,
doch vòllig verschiedenen Stàmmen zusammengefallen ware. Erstens mit quexo =
Klage (altsp. fllr modernes quexa, port. queìxd), von quaestium; zweitens mit
g'!tea:;o(aspan.) qiieixo (port.) = Kinnlade, (aspan. auch quexada, neusp. quijada) aus
capsus; drittens mit quexo (aspan.) queijo (port.), neusp. (2«e.90 = A'asc, aus caseus. Ge-
nùgte das Simplex nicht, so war Erweiterung desselben durch Diminutivsylbeu
leicht an die Hand gegeben: wie man ovicula und nicht ovis, apicida und nicht
apla, auricida und nicht auris sagte, so konute man auf hispaniscliem Boden sehr
wohl quercicida brauchen. Aus ovicida apicida auricida ward freilich ovelha abelha
orelha, span. oveja abeja oreja; aber aus lat. -iculum ward in Portugal auch igoo igo.
Und so gut wie lìericulum perigoo jjerigo ward, articidum aHìgoo artigo, aus umb{{li)-
culum timhigo, konnte querciculum (durch quessicidum queixigoo) quexigo, und hesticidum
(von bestia) vestigo * werden. Nach Analogie dieser Formen konnten Neubildungen
in Igo entstehen und entstanden tatsilchlich , was um so leichter war als eine En-
dung igo dem Hispanier auch aus amigo enemigo mendigo postigo entgegentònte. '
' Man vergisst oft auch — beim Etymologisiron wenigstens — dass der gomeinsaraen Vorwandtscliaftszuge
welche den altspan. und den altport. Mondarteli auhaften , viel mehr waren als hente zwisohen der kast. und der
port. Schriftsprache bestehon. Der Zusammenliang zwisohen port. gali, tmd asturisch u. loonesisch ist ein viel in-
nigerer als man gemoinhin glaubt.
■ Siche nnten N°. 4S vestigio und oben Cernirlo N". 13, zwei Artikel aus denen orhellt dass port. (170 alt iijoo, aus
lat. iciilum, dem Itast. ij)lo ontsprioht.
" Igo auch im aspan. pdcigo (Berceo, Mil. 240} fùr pdizgo pcUtzco^ Ein ganz andores, durch Einfiigung von
hiatustilgendem g, aus io entstandones 7.70 Itennt das asturische, welches die 3ps. sing. perf. der Verben 3 Couj.
statt in io in Igo bildet : Vigo scntigo eto. — Man vergi, vulg. port. /atiga fiìrfatia.
— 149 —
Dass es sich in beideu Reilieu nm ursprimglich ganz verscliiedene Sufìixe handelt,
weiss und empfindet das Volk eben niclifc. Die mir bekannten Noubildungen , zu
denen man meinethalben auch qnexigo und vestigo rechnen mag, sinà jazitjo =: Be-
grdbnisstiitte,' pascigo=Weideplatz^ tapigo = Hecke Zcmn, hodigo ^: Brodòrocken und
Kuchen,' rahigo adj.= scJiioanzelnd und geschtocinzt.^
Jazigo ' hodigo und unser quexigo sind westwàrts oder von Nordwesteu nach Ka-
stilien binilbergewandert. Besonders in der Gegend von Avila und Cadalso fiilirten
ehedeui Eiclieuwaldstrecken , mit ergiebiger Biirenjagd, Nanien wie Quexigar
Qiiexigoso Quexigosillo. Cfr. Monteria 120, 120, 161. '
35. E.ELHA.
Diez EW I: « Relìm pg. pr., raille altf'r. ; reja S]).; jjflugscJiar; von rcgulti ^lattei »
— Wolil kaum; die Begriffsentwiokelung stort und port. regoa re</ra, sp. regla^ etc,
widersprechen. — Warum niclit von lat. rallia^ rnllium* fiir ralla rallum, welclies
ja PJiugschar bedeutet? — Fiir Ausdriicke, welche der Ackerwirtschaft angeho-
ren, sind die Spanier dem Kòmer meist direkt zu Dank verpfiiclitefc.
36. Sakdeu sandìo.
Man kann das port. span. Wort mit seinen Ableitungen sandece samlice, sande-
cer eììsandecer, sandejar (port.) ° auifassen entweder als bestehend aus einem Stararne
sand und dem Sufìixe io{eu) {inacio , nadio sadiu — • judeu) oder als ein Compositum
von san und deu^ dìo. "Welche Auffassung der Wahrheit entspriclLt. wage icli nicht
zu entscheiden: die Acten ùber das Alter, die ursprtìngliclie Bedeutung und
Verwendung und damit iiber den Ursprung des Wortes sind noch nicht geschlossen.
Bis beute ist meines Wissens nur ein ernster Versuch ■ gemacht worden sandéu zu
deuten, ein sehr ansprechender Versuch, und zwar von Diez selbst (EW. II'') unter-
nommen, und neuerdings von Baist Zschr. VII p. 633 gutgeheissen.
'. Neben jazigo und pascigo bestanden im Altport. die niinmebr erstorbenen Formen i«s!(!o una pascido. Ich
glanbe nicht dass sie selbstandige , von den iibliclieren unabhangige Bildungen sind. Vielmehr fasse ich sie so ani
als ob das Bestreben , das immerhin Beitene Sufflx ìgo dui'ch das nngleich brauchliohere ido zu ersetzen sie ins
Leben gerufen; ein Leben von kiirzer Daner. Man vgl. scnzido N^. 38. Cfr. aport. taiìjuda neben tanjuga.
' Altspan., Fita USO. Gaìlofas e bodigos lieva y condesados.
^ TH&fonniga rabiga spielt in einem port. Vollksmahrchen cine Eolie. Coelho, Conto N°. IH.
' Da neben altspan. yacigo auch yaclja besteht (Zschr. I 2i'2), im Altport. aber jazigoo vorkommt, darf auf
eine (3rvujiàiorm.jacicHlum geschlossen werden.
'■ Ich habe mir die Form cair.igo fiir queixigo als der alten Landsohaft Ribagorza angehorig notirt, doch
ohne QueUenangabe, weshalb icU sie unberiicksiohtigt lasse. — oi fiir ei, eine im Port. haufige Erscheinnng,
ist auch auf span. Boden zu finden, freilioh nur in Fiillen, in denen ei (an Stelle von zu erwartendem kast e) auf
westliche Beeinflussung schliessen liisst. Man denke an taimado fiir teimado temado , von thema.
' G. V. I 264.
' Dmstellnng aus einem Part. aanido von sanir fiir insanir wird Niemand ernstlich befiii'worten, um so weni-
ger als man die Etymologie saTìa aus insania neuerdings aufgegebén. Herkunft aus «««72a = Zahnefletschen, welche
Diez gleichfalls fragend erwahnt und die, wenn ich nicht irro, bereits im « Dialogo de las Lenguas > vermutet
warde, ist ebenso imwahrscheinlich.
— 150 —
Diez siehfc iu sainUo ein Compositum sancte deus, und meiut, derjenige welclier
dieseu Ausruf gar zu oft im Munde gefùhrfc, sei sandeu (p.) samlio (sp.) genannt
worden. Besticht auf den ersten Blick! Denkt man aber etwas scharfer nach, so
stellen sich gewisse Bedenken ein. Ziigegeben dass wer ùber alles staunt, ein
Dummkopf, meiuethalben auch ein Narr ist, nach dem Grundsatz nihil admirari, so
glaube ich doch dass in einem Lande, wo das Sich-bekreuzen , das Anrufen Grottes
nnd aller HeiLigen bei dem geringsten Gegenstande des Staunens, so sehr an dar
Tagesordnung ist wie in Spanien und Portugal, das Uebermass davon kaiim als
ein Zeiclien von Narrheit angesehen werden mirde, eker vielleicht als ein Zeichen
von Fròmmelei und Scheinheiligkeit. Ist der Gedanke im Grande richtig, so wilre
san{cte)dei(, elier derjenige, ob dessen Dummheit das Volk mit einem kraftigen
santo deus! die Hàude iiber dem Kopfe zusammenschlagt, gerade so wie ein
Aijesus! aijesusinho! der Liebling des Volkes ist , iiber dessen Schònheit, Klug-
lieit nnd Liebenswiirdigkeit es sick vor Verwunderung nicht zu fassen weiss. Was
aber besonders gegen die Etymologie spricht , ist dass die aitaste Form des Wortes
— im Fuero Juzgo und bei Berceo , Mil. 646 — nicht sandio sondern sendiu lautet.
Obwohl ich ein eutsprechendes altport. sendeu oder semdeti noch nicht aufge-
funden habe, glaube ich doch dass man von der Form mit e ausgehen muss, da
der Ubargang von semdiu zu sandio, bei der bekannten Vorliebe des Romanischen
fiir a statt e in protonischer Anfangssilbe , wahrscheinlicher ist, als der umgekehrte,
noch dazu die Badentung verdunkelnde von sandio zu sendio.
Betrachtete man den Einfaltigen, den Geistlosen und den Geisteskranken vielleicht
alseinen Gottverlassenen und nannte ihn ainen Ohne-Gott, sen-diu, sem-deu*? Formeln
wie sem deus e seni dereito , setn deus e seni razào waren und sind viel gebrauchte. Ein
altes Baispial steht in den Livr. de Linh. p. 268. Volkstiimliche Zusammensetzun-
gen mit lat. sine bieten alle Romanischen Sprache und Mundarten. Der Spanier
kennt sinjin sinigual shijusticia sinnumero sinrazon sinsabor, asp. auch sinsaber, der
Portugiese semfim semnumero semrazào semsahor semsahorào senisal senipar semsegundo
semnome semceremonia etc. Und Span. sen fìir sin ist iu der alten Sprache ganz
gewòhnlich (s. z. B. Alex. 840. B18), im Port. sem von jeher die einzig iibliche
Form. San fiir sen in tonloser Sylbe ist wie gesagt jadenfalls moglich; es sei auch
an it. sanza, frz. sans erinnert.
Sandeu scheiut bereits in den Livros de Linh. und im Cane, da Vat. die aus-
schliesslich angewandte Form zu seiu; ihre Bedeutung stets narriseli; besonders
hàufig ist die Verbindung lonco e sandeu , auch span. loco y sandio und necio sandio;
in der stereotypen Formel morreo sandeo e seni semel kònnte es einen etwas
abweichenden Sinn tragen (Linh. p. 195, 205, 260 und oft).
Ich selbst messe diesar Deutung nur den Wert einer Hypothese bei, und ver-
suche personlich noch weitere zwei Erklàrungsvorsuche , oline von dcnselben be-
friedigt zu sein.
Sandeu port. (doch auch von Spaniern iu der gallizischcn Liederpoesie gebraucht,
sandeo z. B. im Cane, de Baena, I, 31) kliugt, wie Diez bereits heworgehoben, auf-
— 151 —
fàllig mit seiuem suffixartigen -eii. aii jadeu (pori. u. altspan.) an , (nensp. jndio wie
sandki; \>oxt. sandcu sandia, wie judeo jad/'a); fiilirt also auf lat. -ams. — Buy da
Saade nun war ein altport. dem 13ten oder ].4ten(?) Jahrhundert angehòriger « Lie-
besuarr, Liebeswahnsinniger » (doudo de amor), der noch im IGten Jahrhundert
sprichwòrtlich genaunt ward.' Von ihm sprechen unter anderen Francisco de Moraes,
Dial. p. 17 aqid nào chega Raij de Hande; Camòes, Filodemo p. 30 Com essas finezas
de iianiovado mmca chegareis onde chegoic Riuj de Samle; Jorge Ferreira de Vascon-
cellos Eufrosina p. 190 aqui nào chegou Ruy de Scinde; id., Ulys. p. 224 dasselbe.
A.ndere uennen ihn als Geistesbruder des Macias. Stammt er aus Zeiten die vor
die Siete Partidas, das Fuero Juzgo etc. falleri, so batte man den welcher vor
Liebe den Verstand verloren — was in Portugal ja nicht selten geschehen — einen
SaudcBus ■■= scmdeu nennen kònnen, im Gedanken an die vielen in a'.m endenden
Volksnamen wie fariseo philisteo judeo hebreo ccddeo etc. — Ein Einfall der angesichts
des altsp. sendiu nicht Stich hàlt.
Noch weniger Wahrscheinlichkeit hat fiir sich dass sp. sandin sendiu mit sandia^=
Wassermelone etwas zu tun hat. Scmdia, auch sandria und sendria sendria acendria., kat.
cindria, sùidria — die kast. und kat. Nameu der port. melancia — hàtten um ihrer wàs-
serigen unsubstantiellen Beschaifenheit wegen, wohl ein Epitheton fiir saft- und
kraftlose Menschen hergeben kounen. Nennt doch der Portugiese eine schlaffe
weichliche schlafmiitzige Person banana und eine gedunseue phlegmatische ahohora
(Klirbis). Ehe man jedoch zu diesem Vergleich zwischen sandio Narr und sandia
Wassermelone schritte, musste man ùber die Herkuuft des letzeren Wortes etwas
genaueres wissen. °
Gii Vicente , III , 250 , kennt ein Wort snndia " dass sich soust iiirgends findet.
Ob es mehr als ein Druckfehler, ob es eine Nebeuform von sandia sendia ist?
' Im Cane, general (1557) findet sioh auf il. 89 das Gedicht eines Portugiesen Antonio do Velasco, betitelt:
.... tcslamanlo que hlzo ere nombre de un portugiiéa ìlamado Buy de Sonde. Mir ist niclit Mar ob das burleske Te-
stament zum Scherzo im Namen eines liingst Verstorbenen, in der Erinnerung der Nacbkommen aber Lebendigen
verfasst ward, oder ob Velasco und Sande Zeitgenossen, Angehorige des loten .Jahrhunderta sind. [Cane. gen.
ed. 1883 voi. II N°. 207]. Ein Euy de Sande war um 1480 Gesandtschaftsecretair am Hofo der katholischen Konige
(Sousa, Hist. Geneal. IH p. 1D4). Sande, ist ein port. Stadtolien (Beira; imweit von Lamego). Alfons VI scliuf das
Marqoisat Sande.
' Wie populàr sandcu im Port. war beweist die grosse Keihe von Spricliwòrtern welclie dem < Narren >
gewidmet sind:
O sandeu trata do alheo, doixando o seu.
Quem pedo ser todo seu, em ser d'outrem he sandcu.
Mais sabe o sandeii (< o telo », oder « o ignorante ■) no seu quo o sesudo no alheo.
Muito pode o sandeu, mas mais o he quem Ihe dà o seu.
Espada na mSo do sandeu, perigo de quem Iha deu.
Quando o sandeu se perdeu, o sisudo aviso colheu.
Donde o sandeu so perdeu, o bom siso aviso colheu.
Quem de sandìce adoece, tarde ou nunca guarece.
Sandicc crasnia^àa,s < Lob der Narrheit » des Erasmiis.
^ E teu pae he tao cniel
e tua mae tao sundia^^ semsaborona.
— 1-52
37. Saeau Serào.
Sarau sarao bedeutet im heutigen Leben Portugals etwelche AbendunterhaUung ,
besonclers aber ein nachtliches Fest , dessen Hauptvergnugen im Tanze besteht. Pas-
satempo nocturìio, funccào; halle nocturno entre pessoas nohres. Der tibliche Plural
lautet saraus; das Wort folgt also der Analogie von mau pau vau nau degrau.
Serào — in alter Schreibung seram ' — bezeichnet die Abendzeit besonders die
langen Wintermichte iind vor allem. die in denselhen nacli Sonnemmtergang verricMete
Arheit.^0 tempo desde a bocca da noite até ds 10 lioras; o traballio que se faz depois
do sol posto ; tarefa nocturna das criadas, nas primeiras tres lioras da noite, comecando
do lìrincipio do mez de Outubro até o Entrudo ou Paschoa ; traballio nocturno. Die ubliche
Pluralform isfc seròes, nach Analogie der ùbergrossen Schaar derjenigen "Worter in
ào, welche auf lat. onem znrilckweisen, oder aiaf port. Boden selbstandig dnrch dies
zum Augmentativsuffixe gewordene on vergròssert wurden {verào von ver) iind vie-
ler anderer von nicht lat. Herkunft. (Cfr. N'^. 2 AtgAPÀo u. N". 3 Alinhavào.)
Bedeutung, Verwendiing, iind Flexion beider Worte sind also liente durchaus
verschiedene. Solite das friiher uiclit anders gewesen sein? mnss man sich jedoch
fragen, da ein Beruhruugspunkt zwischen beiden vorhanden ist, das ndclit-
liclie. Ob sich als urspriingiicher Sinu beider "Worte nicht Naclitzeit, ndchtliche Be-
schdftigung ergeben wiirde? d. h. ob nicht in sarao und serào ein und derselbe Stamm
steckt welcher Ahend bedeutet. Dass e vor r geme in tonloser Sylbe zu a wird,
beweisen iins ja port. sarrnr sarralli/iiro Thareza Tareija libardade misaravel impa-
rador, etc. etc.
Und tatsachlich war das Verhaltniss friiher ein anderes. Was beute Scheideform
ist, war ehedem Doppelform. Beliebig liess man die Formen in «o mit denen in ào
wechseln: sowohl sarao serao (denn serao existìrt) als serào sardo (denn auch sardo
kommt vor) konnten ein lùìfisclies Ball/est, cine Hofgesellschaft benennen. Und alle
vier Formen bedeuteten urspriinglich Abend Abendzeit; dann ndchtliche Besclidftigtmg ,
ani spàten Abend ausgeubte Tàtigkeit , gleichviel ob diese nun Arbeit oder Vergnll-
gen war — zwei Begriffe , zwischen denen ja iiberhaupt eine recht bewegliche
Grrenzscheide steht. " Die Scheidung zwischen sarao und serào ist erst im Laufe des
17'"' Jahrhunderts eingetreten. Was mancher beute als sej-òes litterarios:=litter arisene
Abendarbeiten, auffasst, beurteilt ein anderer als saraus litterarios=litterarisclte Abend-
nnterhaltungen.
Aeltere portugiesische Lexikographen haben in ihren "Wórterbiichern sarao
und serào zu deuten versucht, deren Einheit, was den Stamm, das Etymon be-
trifft, ihnen mehr oder woniger warscheinlich schien. Der eine schlug ein hebrà-
' Im Cane, da Vat., Cane, de Bos., etc.
' Zahlreiclie SteUen aus Resendo, S» do Jliranda, Barros, Bemardes, Nrnies do LoSo etc. beweisen os zuv
Geniige. Abend bedeutet aerào z. B. iu Sa de Miranda 107, 277 i alto o serào: « es ist spat am Abend. » Scrùcs und
seraos im Sinno cines h'Ofiachen Festea benutzt obondorsolbe JDichter 109, 127.
— 153 —
isches Etymon si/r vor, der andere ein persisches xire, der dritto ein arabisches sar-
hoiiz^ vigilia; wieder andere, niinder orieutalisch angehaiichte, glanbten ini afrz.
serée, oder im neufz. soirée, oder im ital. sera, oder im lat. seruni das Vorbild gefnn-
den zu haben. Die letzeren haben RecKt. IJber die Art und Weise der Ableitung,
ùber das Suffix, sucht man bei ihnen natilrlich umsonst nahere Aiiskunft. — Diez
erwahnt die Worte gar nicht; ebensowenig Coelho.
Ich naunte sarao und serào bereits oben ein Scheidepaar. Um dies zu bewahrhei-
ten muss icli erweisen dass ao und ào ein und dasselbo Suffix sind, was leicht ge-
lingen wird. Nur wenn man serào seròes und saran saraus getrennt betrachtet, ma-
chen sie Schwierigkeiten iind filgen sich nicht in ein e Musterform. In ào-òes sucht
man dann o-onis, d. h. ein Augmentativ, sevo seronis; und aus sarau weiss man
uichts zu machen, da wohl Worte in au vorhanden sind, ein Suffix au mit schòpfe-
rischer Lebenskraft, das also als Suffijx empfunden wiirde, aber nicht. Selbst fllr
viele Portugiesen hat sarau fremdartigen Klang, maurische Farbung.
Das Nebeneinander von au und ào, gerade klart auf — mit einem Schlage und
mit unfehlbarer Sicherheit. Das Suffix welches an lat. serum gefiigt ward, ist das
echt lat. in alle rom. Sprachen iibergegangene anus. "Wie der Portugiese das kurz-
stammige ver zu verano machte, so ser.., zu serano; ano aber konnte ebeuso gut ào
wie ao werden, und zu den beiden Vertretern des Suffixes, gelehrtem ano und volks-
tiimKchem ào, mkss als dritter, vereinzelter , impotenter, die nur im archaischen
Port. , im Volksmunde und in den Norddialekten [Minho iind Gallizien] erhaltene
Bildung ao gefiigt werden.
Hier einige Beispiele. 1° Aus enanus = Zwerg ward einerseits das schriftmàssige
anào, andererseits ein populaires anao^^Knirps, dessen heutiger Vertreter anaio heisst ;
und drittens ein beute veraltetes nano in paro nano = Zioerghirne. 2° Germanus ward
irmào; dass jedoch nicht allerwarts Nasalisatiou eintrat, beweist das mirandesische
armano und stiirker noch (denn im Mir. konnte man span. Einfluss vermuten) das
veraltete port. irmao, welches Sa de Miranda 116, 417 aufweist, im Versausgang
als E,eim zu mau, (malus). 3° Neben argào existii't gleichberechtigt argao, zwei For-
men, die, wenn nicht in Wahrheit, so doch im Volksbewusstsein auf organmn zu-
riickweisen. 4° Neben quartào steht quartati ; neben rahào rahano und rabao. Doch
welter! der Gallizier stellt beute noch irmau neben irman; tahau neben taban
{tabanus); vrau neben bran vran [veranus); chati neben chan (planus); Cibrau neben
Cibran {Cypr{i)anus); ìiviau neben livian {levianus) etc, (um mit Wortern Mar
erkennbaren Ursprungs zu beginnen in denen ohne jeglichen Zweifel lat. anus
steckt). Durch Anlehnung an diese Gebilde entstaud dann auch neben bacallao
z. B. ein unmotivirtes bacallan, gleichwie im Port. neben alacrào lacrau, neben
girào girau, neben babau babào. ' Auch im Bercianischen wiederholt sich der gleiche
Vorgang: neben cercau steht cercano.
' Das port. solau, naoh dossen Sinn u. Ursijrung vielfach gesuclit worclen ist, wird kaiini etwas anderes als
soìanus sein (gali, soao) , also eine Sclieideform von aiiao {vento sudo).
— 154 —
Entsclieiclend fùr diese Etymologie ist dass der Gallizier den Ahend noch beute
seran nennt, dock niclit o seran, sondern weiblicli nacL Analogie von a tarde und a
manhan, a seran; Murguia, Foli. Nov. p. 77 u. 218. Nebeuformen sind sera und sa-
ran); enfcscheidend aucb dass der Portugiese die Pluralform seràos gekannt hat. Siehe
z. B. Cane, de Ees. I 256. 467 etc:
Là lograe vossos seraos,
vossas damas e privaii9as
cos cortesàos;
mas bom par de bois iias m aos
vai seis pares d'esperan9as.
Im Kastilianischen ist snrao Balìfest ein Lebnwort, welcbes dem. port. Sprach-
fonds entnommen ward.
Zum Scblusse frage icb nocb, ob das span. sereno =r Nachtivcichter , nebst frz. sc-
rein^ neap. serena, it. serenata nicbt doch aiif seranus bindeutet, wie Diez annabm?
Bekanntlich hat Storm, Rom. V 182 dem widersprochen. Durchgang von seranus
durcb Frankreich, wo serain zu serein ge-vvorden wilre, liesse sicb zur Net ja annebmen.
Eutstand das Wort in Spanien, so konnte aus einem bypotbetisoben seraneus seranio
seraiìio sereno geworden sein.
Im asp. ist. sereno die feucJde, ungesìiiide Kachtluft, ver welcher in den Jagd-
blicbern so oft naclidrllcklicb gewarnt wird.
38. Senzido.
Altspan. z. B. bei Berceo, Millan, 389:
Piegò aSant Fagimt. , qncmó una partida,
fue cerca de la media de Carrioa ardida;
por poco fuera toda Fromesta consmnida ,
Castro entre las otras non remaso senzkla.
undMil. 2:
un prado
Verde o bieu sencidn , de flores bien poblado.
Im ersten Falle kann senzido nichts anderes bedeuten als ganz, unverschrt,
verschont, imhetreten; im zweiten dlirfte es wobl unserem schmuck, sauber, tinversehrt
gleichstehen; eine Wiese aber bleibt schmuck und sauber nur solange sie von
menschlicben und tierisehen Ftissen verschont, also unbetreten bleibt.
Das Glossar von Sanchez erldart ganz ungenau und willkurlich, wie so oft, die
beiden Filile durch adornado , hermoseado. ' Wunderbar dass der geborene Spanier
sich nioht des modernen (provinciellen? seltenen? volkstumlichen ?) Vcrtreters des
aspan. senzido, des Wortchens cencido erinnert hat, welches; nur auf Wiese und
Weideland bezogen, unhetreten, mit frischem. nicht niedergetretenem Grase hedeckt be-
deutet. Acad.: la tierra, yerha etc. quenoestd hollada. Salva: e. se dit d'un pdturage doni
' Sencido, da. Pareoe adornado, hermoseado. Milag. 2. — Senzido, da. Lo mismo qvio scncido, S. Mill. 3S0.
— 155 —
Vherhc ri est point foidée. Das unbetretene Weideland ist gleichzeitig ein unnlifczes,
iinbestelltes Ackerland, daher cencido deun auch %nangehaut, und mit erweitertem
Sinne — im Gegensatze zu tierra lahrada — die tierra inculta bezeiciinet. Die aus
Originalwerken abgeleiteten Wòrterbucher [SeckendorfF, Franceson etc] gebeu
diesen abgeleiteten Sinu duroh Worte wie ode vnlst nicht ganz treffend wieder, und
manche erwahnen leider nur diesen (dem ioli NB. in Druckwerken nocli niclit be-
gegnet bin).
Sens- senc-oàev cenc-ido. Einen Stamm cene- iinde ich. im kast. cchc-gììo wieder;
sene-, in sencillo. Cenceno bedeutet beute schlank dilnn zart (von Ì/Lensoh und Thier),
bedeutete 'aber frllher vorzugsweise rein, unvermischt, umerfàlsclit, redlich, ohm Fcdach,
aufricMig, und vom Brode gesagt mujesimert. Sencillo bedeutet rein unverfàlscht auf-
ricJitig, einfidtig, einfach. Die von Diez vorgesclilagene Deutung dieses Wortes aus
simjilicellus ist abzuweisen (wie ioli anderwarts ausfilhrlich getan.) Es ist vom port.
siuyello nicht zu trennen und aus gleichbedeutendem lat. sùtgillus zu erkliiren. Der im
lat. siiicenis u. singulus steckende Stamm (indogerm. sania=ganz) ist es, aus dem
ich sene-ilio, sing-ello, senc-ido, cenc-eno ableite, und ferner uoch port. sinc-el sinc-elo.
Siìic-eì-us bedeutete integer =:z ganz , unverletzt, und aufriclitig , oline Falscli, rein
fleckenlos. (Siete die mittellat. Grlossen). Die Bedeutung ganz bewahrte es z. B. im
altkat. sancer mail, sencer. Tirant lo Blanch p. 14 lo qual aneli era fet ah tal artifici
gues departia pel mig restant cascuna pari aneli sancer. Weitere volkstumliche Vertreter
des Wortes sind nicht vorhanden : als mot savant lebt es unverandert mit der Be-
deutung aufrichtig luahrhaftig in alien romanischen Sprachen weiter.
Aus sing-illus, Diminutiv von sing-ulus, entstand zweifelsohne das port. sing-eUo
adj. einfach schlicM, und auch sp. sene-ilio. Sincel sincelo =Eis, gefrorener Schnee (prov.
Douro , Villareal) ist dagegen kaum als Scheideform aufzufasseu. Es lasst sich besser
aiis sincerus = rein fieckenlos deuten , dessen ero zu elo el werden konnte.
Im kast. senz-ido nun und in cenc-eno (s. ob.) sencer und sene-ilio ware Suffìxver-
tauschung eingetreten. Der Ausgang zu derjenigen welche in senz-ido vorliegt, konnte
ein laiitlicher Process sein. Sencero durfte im Munde des Spaniers sencedo werden; '
das in Adjektiven ungewohnte Suffix edo aber , welches im Kreise der Substantive
seinen bestimnt abgegrenzten Wirkungskreis hat, wurde mit dem Participialsuffix
ido vertauscht.
39. SOSEGAE.
Diez II'' und Anhang, nach Rom. V p. 184 Storni. — Sosegar ist weder subcequare
noch suhsidere noch suhsedicare; das Praefix sìib steckt liberhaupt nicht darin. Die
altesten Formen, in welchen uns das Wort auf der Halbiusel begegnet, im Port.
' Der, im Grossen und Ganzen nicht liaufige Ubergang von V+r-h Fzu V-i-di- V liegt vor in secadal se-
quedal fiir secaral; panadizo fixv panaricio; polvareda fùr polvarera (Dissim.) ; pclarc-la iiir peladela (Beimformel).
S. Stndien p. 235 u. 332.
— 156 —
ebenso hilufig wie im Span., kenneu cleri o Laut der ersten Sylbe niclit. Derselbe ist
erst spater in die tonlose Sylbe eingescbmiiggelt worden , in Nachabmung der vielen
Bildnngen mit so:=s2tb welclie der Halbinsel eigentiimlich sind. Dass sub jemals zu
se geworden wàre, ist niir iinbekannt: als so zo sa za son sol zom san zam sai ist es
mir begegnet; niemals als se. Hingegen ist ein iirsprùngliclies se, das die erste Stelle
im Wortkòrper einnahm, mebrfach in so iimgedentet worden, z. B. im altport.
socrestar fiir sequestrar (segar sohcrestar kommt vor); ferner im span-port. sopultura
fiir sepoltura tind im kast. soholUr zabulUr fiir sepelire.
Die altport. Dokumente kennen nur sessegar und assesseijar assessego assessega-
mento etc. Man sehe z. B. die von Santa Eosa de Viterbo mitgeteilten Stellen,
welche sich verzehnfaclien liessen. Bis zur Neige des lo"" Jahrhunderts hat es
bestanden; im Cane, de Eesende kommt es noch oft geni;g vor, z. B. I 84 sospirar
nunca sessega. I 64, 162, 256 etc. Ebenso ist im Altspan. die Form {a)sessegar die
iiberwiegende. Aiis den einschlagigen Stellen, von denen ich einige wenige mitteile,
gebt deutlich hervor dass es urspriinglick niedersìtzen, sich setzen, sich niederlassen,
cine Stellung einnehnen, zum Stillstand komnien oder hringen, einsetzen bedeutet:
Conq. de Ultr. p. 490 pues que tobieron cercada la villa e la hueste asesetjada fioieron
armar los engennos (= aufgestellt).
ib. p. 503. Mas despues que el rey Amauric hobo eoliado de Egipto à Siracon é
asesegado en ella à Senar el Soldan (^eingesetzt).
ib. p. 503. mas non se le asesegaba la voluntad de creer de tod en todo que el
Rey le vinia ayudar (= Seiii Sinn war nicht fest in dem Glauben....).
ib. p. 583. E Sal.adin dejó los bien asesegar e comer e tnmar de las viandas a.
su voluntad.
Von gesetzt zu rìihig ist nnr ein Schritt. Man sehe Conq. p. 493 :
« E deque el Rey caso con su mujer, dexó todas malas costumbres.... e fué asesegado , de
buenas costumbres. »
Ein Land beruhigen, Frieden darin hcrstellen bedeutet es dann in iibertragenem
Sinne, z. B. p. 607, 587, 586, 581 etc; und spiiter allgemein beruhigen.
toh. leite dies sessegar, aus dem wie gesagt sosegar sosiego (pg. socego) und sosegar
somegar sonsiego ward (Cane, de Baena I p. 200, 201, 202, 289 etc.) durch Ein-
sckwàrzung des Prafixes sub, von einem hypothetisckeu, dock kochst wakrsckeinHcken,
mittellat. sessicare ab [S. Du Gange sessoniun sessura sessiva etc.) das aus sessum, part.
von sedere, entstand; ' und weise, ein lat. sessiì.... z. B. auch im port. adj. ressésego,
ressécego, rececego = altbacken , abgestanden^ nacli, und im gali, srssigas = asiento de las
losas en que se coloca el pie del molino.
Im altport. haben wir ferner scsega séssega ■= assento ou terrado nào so de qual-
quer edificio, mas tamhem das arvores; sesega bezeicknete auck eine Ahgabe fiir irgend
ein auf fremdem Grund und Boden wurzelndes Besitztum, Baum, "Weinstock,
Miihle etc. Dass gali, sessiga ist ein Sprossling des altport.
' Prov. it. assestar kann nur lat. scss-itarc sein.
' Bluteau , Suppl. II 504: rececego ^=seidii;o oii de muito tempo.
— 157 —
40. SOTUENO.
Port. Adjektiv : ^«sfe;-, uìifreuwlUch, m'ùmsch, fjriesgrum'uj. Wohl niclits anderes
als Saturilo, der finstere Gotb und ungllustige unheilbringende Planet (grave sidus,
stella ìiocens, sidus triste und sogar bugne dio del — bei Victor Hugo), im Gegensatze
zu Jupiter, dem jovialen Gotte, und glixckspendenden Planeten.' Also ein adjecti-
"virtes Substantiv, und zwar adjectivirter Eigenname, wie der Portugiese deren
mehre kennt. Sengo = sjìruchiveise, narcizo = eitelschon, marialva = geckenlmft,jusimino=^
liebKcIddnend, fucar =z steiiireich , sandeio ^ liebestoll , nsihm. er von den Eio-ennamen
Seneca, Narcino, Marialva, Josquim des Prés, Fugger, Sande [f Siehe oben N. 36).
AVas deuWaudel von a zu o vor der Tonsilbe betrifFt, so sei, um auf port. Grund
und Boden i;nd daselbst im Bereiche der Scliriftsprache zu bleiben , nur an bolor aus
pallorem (S. ob. N. 8.), an bogalho ftìr bagalho von bacca erinnert, und an Monfreu
ftìr Manfred, Domas fui' Damasco, Wolistan fiir Wallenstein (Cfr. Eom. X p. 336-345).
Dass der Wandel aber im Eigennamen Saturno tatsachlich vor sick gegangen,
beweist die Form Saturno, welohe z. B. im Cane, de Baeua I 265 u 267 vorkommt
und gern als Reim zu noturno = nàchtlich finster verwendet wird , im Gegensatze
zu vorausgegangenem diurno.
41. So VELA.
Port., span. subilla, aspan. sobiella (Alex. 2009). "VVie ital. subbia vom lat. suhùla.
Dock ersetzten die span. Spracken das Suffix ùla durch diminuti ves, toutragendes
illa; also von subilla.* — Cfr. hebilla Jivela von fibula; postilla bostella von pustula;
lucillo vou loculus; pestillo von pestuluin fiir pessulum.
42. Atordido sp., STORDraE it.
Diez I stordire. — Zsckr. II 86 Foerster. — Zsckr, VI 119 Baist. — lek mockte die
Kerleitung aus turdus dock nickt abweisen. Der unleugbare Anldang des Drossel-
namens turdus an rom. turb'dus torv'dus trop'dus, also an turbidus torvidus torpidus,
— Bezeicknungen fiir unriddg wirr Starr betdìibt — konnte den Glauben an eine tatsack-
lick gar nickt (?) oder in geringem Grade vorkandene, zeitweilige Starrkeit und
Betaubtkeit der Drossel erwecken. Einmal vorkanden musste er sick in allerkaud
Fabeln " Makrckeu Sprickwòrtern Kinderreimen dokumentiren. Diese musste man
sammeln, um zu erfakren ob der Glaube oder Aberglaube wirklick in romaniscken
Landen vorkanden, wie mir wakrsckeinlick vorkommt. lek kabe mekrfack sagen
' Cane. Gen. II p. 301 spricht D. Francisco de Castilla vom « Saturnischen Melancholiker ■ Saturnino me-
lancólico.
'- Die eine Fabel, dass namlicli die Drossel sicli selbst den ToJ bereite, ist bekannt. (Comenius § 157.) —
Was aber wiU das Sprichwort sagen: TaTtc el esqiiiloii- y dnermeii los tordos al soii? Wer Haller oder Sbarbi zur
Hancl hat, weiss es vielleicbt; icb nicbt. — Was bedeutet nascer de las tejas abaj'o corno tordof —
— 158 —
lioren, die Drosselscliwàrme, welclie im Friilijahr uacli Europa lieruberkommen,
fìelen nach dem langen Finge wie betaiibt zu Bodeii, was geméinhin von dar schwer-
fàlligeren Waclitel gilt. Die statUiclaeu gesclilossenen schwarzen Ziige der Drosseln
gaben jedenfalls eia Bild und Gleichniss her, iiuter dem man Scliaaren hereiubre-
cbender Feinde oder ausgesandter Pfeile etc. betrachtete. ' At-tordire und ex-tordire '
konnten daher reclit wohl ein plotzliches iìber-raschen, ersclireckeu , erstarren, betàuhen
bezeiclinen {bedrosselnf Cfr. heluchsen u. sp. amilaiiar; amilaiiamienlo = Furàttsamhéit).
43. TERgó.
Der Spanier nennt das Augenlidgeschwur wie der Deutsclie, ein Gerstenkorn,
oder richtiger ein Gerstenkdrnclien:=orzudo. Dasselbe tun Italiener iind Franzosen, d. li.
sie alle bezeicliuen die AugeuUdentziuulung mit Worfcern welohe auf lat. hordeolmn
von hordeum zurtickweisen: it. Oì-zajuolo = hordeariolus, frz. orgelet orgeolet = hordeolum
mit Anfllgung der Diminutivsylbe et. Der Porfcngiese, welclier, mit dem Spanier,
auch das Simplex hordeum einbnsste uud es durcli ceuada sp. cebada ersetzte, betrach-
tet das Gerstenkorn als ein Weizenkornclien , denn die mannichfaltigen port. For-
men tressó ' tressol treqol terqó tercól tersol trecouro tregougo ticouro treqòlho iind sogar
torcào, die man sammtlicli im Volksmunde hòrt und zum Teil auch gedruckt
findet, weisen, mitsammt dem gali, ttrizó tirisol, naturlioh auf ein ursprungliches
triqól und tricóo, Parallellbildungen aus lat. triticeohim * vom Adjektiv tritlceum.
Sie entstanden unter euplionischem Ausfall der zweiten Sylbe, deren Gleicliklang
mit der ersten misfiel.
Port. (c)ó^ diiViS {t)lolum fur [tjeolum in lencól, kast. lenzuelo=^Unteolum; anzol an-
zuelo aus und{ni)olus , wie ioli anderwiirts zeige. — Man vergleiche auch port. nraHoL=
araìiuelo, crisol = crisuelo ; und port. Neubilduugen wie reinól.
Port. óo neben Bildungen in ol liegen vor z. B. in feijoa (haute feijào,) aus
phasiolus (span. /(r)jsMefo) ; ferner in tercóo tergo tregó prov. tersól, afrz. terciol, kat.
tersol, spau. terzuelo torzueh, it. terzuoìo = lat. tertiolus Habiclit (kat. astor tergól);
linhó neben linhol etc. — ■ Viele Ortsnamen in oo od. ó wie Figneiró, Griju etc. mogen
auf ursprungliches olus lohis hindeuten.
44. Trinca.
Diez II'' und Anhaug, nach Rom. V. p. 186 Aum. — Das span. port. cafrinca
quatrinca= Vierheit Vierzahl, welches mir z. B. in einem Prosabriefe von Camòes
' Oonq. do Ulfcr. p. 346 tan eapesos comò banda de tordos p. 412 tan espesamente que parescien mCbada de tordos.
'■ Eslordido z. B. tei Fita 741 n. 952. Esloriecido im Amadis I oap. XIII. Atordido (niolit aturdido) ist die gute
alte, aach heute nooh volksùbliolie Form, die jedem Romanisten oft begegnet sein muss. (Z. B. Cane. Gen. II 45;
Valdivielso, Cane. Esp. p. 29; Basna I 131. Amadis etc.). — Der Port. kennt aucli alordar und atordoar.
" Cfr. Leite de Vasconcellos, Tradi(?oes, N" 22. Qiiem tiver um tert^ol, ou corno o povo Vie chama um tres sóy
vae ao campo antea do despontar da manlià , e collocando sobre o olito atacado a mào contraria, dìz tres veses: Sol
toma Id tressó (nicht treasólf), e era pouco desappareoe o mal. N" 85 Para curar um ten;ol, é costume l'azer uma
casinha peqaena com cinco pedraa, accender lume Id dentro, deitar-lhe sai e largar afiigir dicendo: Aquedelrei quem
acodc ao fogo na cata do tercOgo (j; hiatustilgend zwiacben vo).
— 159 -
begegnet in der Plirase: òeijo es.ms màos urna quatrinca de vezes, spriclit daf'ur
dass man uach dein Master vou unus luiicus aus trinus eiu triìiicus,'ii,us quattuor aber
quattrinicits gebildet hat. Im port. ist trinca nur im Kartenspiel ilblich wo es
drei gleiclie Karten bedeutefc, wie catrinca deren vicr.
45. Umbral.
Zsclir. VII 124. — Baist erkliirt daselbst das span. Wortfiir Schwdh aiis dem lat.
luminar e ^= Fenster, gestiitzt anf die alte, seltne, mir in kasfc. Texten nie begegnete
Form lumhral, ■welcbe die Wòrterbiicher verzeicknen, vaia, die, nebenbei gesagt, noch
im Grallizischen weiterlebt, was fiir ihre Existenz im Altsp. spricht. ' Das anlau-
tende l von lumbral ware also als Artikel anfgefasst, iind vom Wortkorper ge-
trennt worden, wie in afril ans latril fiir letril. Lautliclie Scliwierigkeiten sind also
nicht vorhanden, und sachliche aiich nicht, weun man zugiebt dass der Name des
Tiirfensterchens auf dessen Stixtzbalken d. li. auf die Oberscliwelle und von dort
auf die Unterschwelle, die eigentliclie Schwelle, llbertragen werden konnte. Der
zweite Ubergang ist walirscbeinlicli , der erste bei der Durchscbauliclikeit aller
Ableitungen vom lat. lumen niciit. Darum befriedigt mieli die vorgescHagene E±y-
mologie niclit ganz. Die Untersucliung Baist's ist aiich keine voUstandige.
Fiir Oberscliwelle, das iiher der OherschweUe angebrachte Fenster und die verti-
calen Pfosten icelclie die Ohersclurelle tragen, d. h. fiir die Eiuzelteile des Tiirralimens ,
bieteu die Sprachen der Halbinsel eine ziemlicli bedentende Eeihe von Ausdriicken,
deren lateinisclie Etyma — als da sind 1° luminare von lumen; 2° liminare von limen;
3" Immeralis von humerus uud 4" limitar is von limes — zufallig zu mancben sich ahnli-
clien und einigen fast ganz gleiclilautenden Hispanisirungen gefiibrt haben, deren
Specialsinn, eigentliclie Bedeutung und ursprùnglicbe Verwenduug fiir einen be-
stimmteu Teil des Tiirgesimses , wie mir sclieint, in und durcli einander gegan-
gen and verweckselt worden sind, so dass in den Einzelfàllen die Entsclieidung fiir
oder wider dies oder jenes Etymon iiiclit ganz leiclit zu treifen ist.
Umbral aus lumbral d. h. aus luminare abzuleiteu, obne Rucksicht zu nehmen
auf das aspan. limnar, port. liminar und limiar, aport. limiar, lemear und himear lo-
onear, altgall. lumiar, neugall. lwmial{es), aspan. lumnar und auf. port. gali, lumieiro lu-
mieira, so wie auf umbreira ombreira liombreira Immbreira (port.) und auf die port.
Sckreibweise Immbral, und ferner auf die span. port. Ableitungen von limite
(namlicli lintel dintel lendel und vielleiclit gar aledaììo, port. lindeira prov. lindar
frz. linteau, latinisirt Untellum) scheint mir gewagt und misslich. Selien wir die
A^erschiedenen Gruppen ulilier an.
rt) Die Derivata von limen liminare, d. h.. das aspan. limnar (Berceo, Saorif. 163)
mit dem neuport. limiar (und liminar, gelelirten Ursprungs) liaben sclieinbar stets
' Sonst konnte man glauben, die Lesikographen hatten aus ellumbral eines alten Textes irrtilmlicli (statt
cìl ambral) ci lumbral gezogen.
— 160 —
Scluvelle bedeutefc, liaufiger die Unterschwelle, aber wolil aiich, wie schon im. Lat.,
dell oberen horizontalen Querhalken ocler Ohersturz.
h) Die Derivata von lumen rr: luminare luminaria (neutr. pi.) kòniien urspiiiiiglicli,
Direr Mar erkenubaren Lichtbedeutuug gemiìss, iiur das « Turfenster iiber der
Oberschwelle » bezeiclinet liaben. Es sind aport. lomear lomiar lumiar lumear gali, lu-
miar n. lumial; port. lumieiro gali, lumieira, aspan. lumnera, ' uud vielleiclit eben auch
sin bypotlietisclies aspan. lumnar* lumnal,* Avoraus lumhral uiid spiiter durch Auffas-
simg des l als ware es der Artikel, das moderne span. umhral port. hnmbral entstan-
den sein konnte. Solange lumnal lumbral das Turfensterclien bedeutete, ware das
freilich eiiie kaum zu erwartende Verundeutlicliung des Begriffes gewesen.
Die grosse Aluilichkeit zwisclien limiar und lomiar lumiar im Port., nnd zwisclien
limnar und lumnar * im Kast. konnte dami sehr wolil eine Verweclislung der beiden
Begriffe und die Verwendung von lumiar lumnar zur Benennung erst der Ober- und
Unterschwelle und dami vorwiegend der Unterschivelle liervorgerufen haben, und liat
es getan. Fiir port. lumieiro und gali, lumieira ' bestand soldi eiii Grund zur Ùber-
tragung der Begriffe nicht, weslialb beide Worte denn aucli lieute nocli ausschliess-
licli die Bedeutnng Fensterchen bewaliren. Und da im Kast. neben limnar kein limnal
existirt zu liaben scheint, war auch fiir das, in Bezug auf Tiirrahmeuteile ganz
hypotlietische, lumnal aus lumnar die Gefahr der Verwecliselung niclit vorlianden,
was gegen eine sachliche Identifìcirung der Begriife Turfenster und Oher- Untersturz,
also gegen die Etymologie umbral aus limnal unter Anlelinung an lumnal spricht.
e) Wie steht es nun mit den vermeintlichen Ableitungen von humerus ? mit
dell port. span. Repriisentanten von humerale humeralia? Im Lat. und Mittellat.
haben die A¥orte niemals « einen Teil des Tiirralimens » bezeiclmet. Der Vergleicli der
vertikalen Tilrpfosten (mit der Oberschwelle u. ohne diese) mit lasttragenden Schul-
terstiicken, wenii anders er ilberhaupt existirt, ist von den Hispaniern vorgenom-
meii worden. Ist er ein trefFender, oder ein schiefer, falscher verkehrter? Darf man
die im Port. ilbliclisteii Worte fiir Tilrpfosten und Obersturs, darf man {h)umbreira
{lijombreira ' von humerus ableiten ? Sie sind ohne Frage Zwilliugsgeschwister des
gleichbedeutenden und gleich ùblichen {h)umhral,'' welches wiederum von kast. gali.
umbral lumhral nicht zu trennen ist. Entweder stammen sie alle, wie Baist fiir die
kast. Form ansetzt, von luminare, respective luminaria ab, oder sie sind alle mit
humerale humeralia zu identificiren. El lumbral stiinde in letzterem Falle fiir altes
eli umbral. Im ersten Falle hatte spàterhin wenigstens Umdeutuug unter Anlehuung
' Span. lumbrera = Dachfenster KeUerfenster ist oher oino selbstiindigo Ableitung vou liimbre als welter
entwickeltes lumnera. Diesos fiadet sich z. B. im Alex. UG6; Mil. 280 u. 710 als Licht Leuchte. Das gleiche cilt von
lumieira lumbcirada (gali.) als Triiger des Sinnes Herdfeuer.
' Pequena abcriura esireita e comprida sobre urna porta ou janella para dar luz e ar.
" Humbreiba: 1» parte complcmentar de qualquer especie de vestimento correapondente aos hombros. 2» cada urna
das duas pedras ou pe<;as de madeira compridas.... que postas perpendicularmcnte suatentam a verga ou os aaimeis da
porta ou portai. 3" limiar, cntrada.
' HuMBBAL : humbreira da porta ; porta , entrada , limiar.
s _ 161 _
an humems stattgefunclen. ' Filr /»HHemZ(rt spricht, meines Erachfcens, dass sowolil
umhreira als auch umbral, mici zwar im Span. wie im Porfc., aucli wenn sie
SckweUe bedeuten, im Plaral gebrauclit werden. Man denke z. B. an los umhrales de
la muerte, gali, os lumialcs da morte ^ port. os humhraes da eternidade.' Bekanutlich
stehen aber gerade die Namen von am Kòrper doppelt vorkommenden Teilen gern
in diesem Numerus {faces, mejillas, nalgas, hombros etc). Doppelt aber sind am Tilr-
ralimen niir die verticalen Pfosten; und von alien moglichen Vorbildern der be-
treffenden "Worte greift nur das von mir vorgeschlagene humeralia liumerale in das
Bereich des menschliclien Kòrpers hinein. ^ Dass im Port. eira der Vorzug vor al
gegeben ward, entspricbt nur seluer ausgesprochenen Vorliebe far die volltonenderen
Derivata in eira, die sich aneli in den Ableitnngen von limite limitaris limitaria zeigt.
d) Dem spaniscliem dintel lintel, prov. lindar, fr. linteau lintel entspriclit im Port.
niclit, wie zu erwarten, lindar, sondern lindeira: verga suferior da. j)orta ou janella
que serve para firmar e unir o pé direito ou as umhreiras entre si. Lindeira ist librigens
ein wenig gebrauclites Wort, welcbes bei einigen Lexikographen (Bento Pereira)
nur mit ornato nas ombreiras da porta gedeutet wird. Die niclit port. "Worte bezeicli-
nen manchmal die Oberschwelle, welclie als Grenze des Tiirralimens anfgefasst ward,
dodi meistens die UnterschweUe , welclie als Grenzrain zwischen Zimmer und Zim-
mer gilt.
Zum Schlusse sei nocli angemerkt, dass in slidliclien Hansern, wo man Ver-
bindungstiiren gern auskebt, die Unterscliwellen meist, wenn niclit immer, feMen
— liier in Portugal wenigstens. Oberschwelle und Vertikalpfosten kònnen nie f'ehlen,
selten fehlt aneli das Fensterchen : die Namen fiir diesa Teile waren also unentbelir-
licher als die fiir die Schwelle. *
Nur ein sorgsamer Vergieich aller alten Stellen, in denen die einschlagigen
Worter Verwendung gefunden haben, wird die entscheidende Antwort auf die
Frage nach dem Etymou von umbral geben.
46. Urze.
Diez II'': von erice. — Zschr. V 556, Baist: von idice. — Da nicht einzusehen,
warum aus der hypothetischen Form erice* erica*, statt erze erga, ìi.rze urga, mit
ganz unmotivirtem, phonetisch unmoglickem Ubergange eines tontragenden S io. u
geworden ware, dieser wLaut aber in idice vorhanden ist, darf man der letzt vorge-
' Die Sohreibung mit h an sicli Tjeweist gar niohts. Sie konnte auf t'alscher Etymologie Vieruhen.— Verlust
des ani. l ist im Port. selten dooh liommt er vor. Siehe oben N° 17.
' Àlinliche Redewendnngen sind haiifig. Das erste Beispiel das icli finde, stelit in der Pie. Just. p. 209.
' Plionetisohe Schwierigkeitea sind niclit vorliandon. Hoclistens konnte man sich darùber wundern dass
kein kast. hombral ombi-al vorliandcn ist. Jl/ftr — Ersatz fiir lat. me — halt Diez, Gr. I 303 fiir eine echte port.
Lautverbindung. Ob mit Recht? Sind nicbt alle port. Worte in ambre imbre umbre etc. Hispanismen? Fiir den
vorliegenden Fall ist die Entscheidung der Frage wertlos, denn hiitte das Port. den Namen fiir den Tili-pfosten
dem Kast. entlelmt, so milsste er daselbst mit gleicher Bedeutung vorbauden gewesen sein.
' Die Bautischler nennen hente die holzerne Unterscbwelle soleira (von sobim Boden), die steinerne cou-
ceìra {^= a pedra do baixo . em quo assentito as onibreii-as ou pedi'as lateraes da porta) von coiice = calce , also
eigeutlicU calcearia = Feraen odor Fusstilck; die Pfosten umbreiras, die Obersobwelle pavicira odor xìadieira.
81
— 102 —
schlagenen Etymologie wohl zustimmen, obwolil dasjenige Heidekraut welches alt-
span. urga ' lieisst, kast. uree, port. terze urge (vulgair auch ttrgem) urgueira, gali. bere.
tiz (welches in der doppelten Schreibung uz und hus mifc etwas abweichender Be-
deutung ins Kasfcilianische Aufnahme gefunden bat'), tatsàcblicb die rotblùbende
Erika {Erica arborea) benennt. Ob mit lat. ulice bereits dieser Sinu verkuilpft ward ,
isfc unbekaniit; die Stelle in Plinius entscheidetnicht: einen rosmarinarfcigen Strauch
hann man die Erika allenfalls nennen, obwohl der Vergleich stark liiukt. Es konn-
ten auf der Halbinsel hj'pothetisches erze nnd hypotbetisches tdze "' zu dem einen
"Worte urze zusammengeschweisst worden sein , da beide Worte Heideki-aiitarten,
vielleicht gar ein und dieselbe Art bezeiobneten.
Uz konnte aus urze entstanden sein, wie z. B. uvaduz, uva de usso fiir uva de
urso, uva ursi =: Bdrentraidie stebt; konnte aber auch aus verlorenem gali, nlze
hervorgegaugen sein, wie duz dtis, aspan, * gaU. und bere, aus lat. didce (Man vergi.
ducaina); entspreehend kast. saz aus salze (salice\ caz aus calce (calice). Den G-rund
warum filr idze nun wze, fiir ulga urga steht, fiir ulguelra urgueira (tdicaria) kenne
ich, wie schon gesagt, nicht. Pulice ergab pidga; ilice, eie... cncina; filice felgu,..eira;
salice salgu..eiro. — Eine einzige Bildung kenne ich, in der lat Z-j-& im span. zu
rgi geworden , sarga = salix alba. Gehòren sarga und urga (in tirgueira) demselben
Dialecte an? Und welchem? '
47. Vestiglo.
Span.: Ungetiim, Untier, schreekhaftes Gespenst, Scheusal, Brache; kurzum ein derbes
Schimpfworfc, mit dem ein menschUehes "Wesen den nicht sprachbegabten Tieren
gleichgestellt, als dumme Bestie oder, gut berlinisch, als dummes Biest behandelt
wird. Damit konnte ich eigentlich schliessen, doch will ich mich niilier erklareu.
Der Leser sehe freundlichst die unter N. 13 mitgeteilte Strophe 982 des Erzpriesters
noch einmal an. Ich stelle vestiglo neben die daselbst gebrauchten ReimM^orte siglo =
saeculum; per iglò ^: per iculum; ce[r]uiglo=:cernicalum, vergleiche das vulgairport. be-
' Urga z. B. in dar Conq. de Ultramar p. 329. 3i2. 343.
' Uz bedeutet im Bercianisohen , wie tirse ira. Span. Port. , die friache rolbWiende Erika , welche aiif dem
westlichen Teile der Halbinsel, und, sowol ich weiss, anoh im Norden, ganzer Borge einziges dauerhaftes, rosi-
ges Klcid ist, ani" dem die Bienenscliwarine sich gern niederlassen. — S. Poes. Bere. z. B. p. 3;}l> uceSj cantrozos e
hrezoa, womit also drei verscliìedeue Heidekriiater bezeichnet worden, der gewòlinliclien Annalime entgegen,
welcbo urz& und brczo fiir ganz gleichbedeutend ansielit. — Dies Heidekraut wii'd in Gallizien — wie im Portu-
giesischen der carqueijfi genannte Heidestrauch — dazu verwendet um das eigentliolie Brennmaterial anzuisiinden,
bedeutet also selhst klcines Brennmaterial. Ein Sinn mit dem allein es im Kast. auftritt. Das Scbeidepaar «irsc uz,
verzeichnete icb daber scbon in meìnen « Studien ». — Uz Uzes Urgueira sind biiufige Ortsnamen in Gallizien und
Leon. — Dio Etymologie w« aus ulice batto Monaci bereits im Manual, p. 55 aut'gestellt, was Baist ùbersoben bat.
' Der Ortsnamo Ulztira kommt in Gallizien ver. — lu Kastiìiou u. in Portugal giebt es mebrere Stadtcbon
Eris Brize(C)ra.
' Fita 107. 106.
' Ob wirklioh jeder Zusammenbaug zwisohen erice erica otc. und brizo brezo brcza bene (gali.) bres
!>Uzo brega eto. etc. ausgescblosson ist? Konnte brizo nicbt {e)ricius mit prostbetischem b sein wie brusco = ruscus;
bronco ^= ronco; broca = rueca eto.? J3/t;o bezeichnet allgomein alle Ueidekriiutcr, im besoudoron aber gleicb urze
cine Erìkasorte.
_ ifìs —
stilo, vestiijo ' (alt besUfjm hestigoo), welches geuau so viel wie dimmes hasdiches Vleli
bedeutet, denke uebenbei an spaii. ctUmana, das ahnliclie Verweiidung findet imd stehe
uicht liinger au , vestigio iind vestigo auf ein hypothetisches òesticulum zuriickzufù-
hren, d. h. es fiir ein volltònouderes òestius zu ei'klareu. Cfr. N. 13 uud 34 wo ùber
das Suffix igo gesprochen ward. "
Folgende Stelleu werdeu meiuer Ausicht zur Stùtze dienen:
Cane, de Baena I p. 8 Prologo. Leones e osos e puercos e ciervos e otros muchos venados
e animalias e vestyglos bravos e muy espantable-s.
Cai. e Dym. p. 7.5 de leon e de otros vestiglos.
70 Dicen qua unos homes fueron al monte e cavaron y una lobera para
tornar los vestiglos.
71 et él le conto todo cuanto le acaesciera con los vi'stìg!os (als da sind:
Affé Dachs und Otter ximio, tasugo, culebra).
57 dicen que en una tierra habia un arbol.... et al pie del habia muchos
vestiglos (mur, gate, liron, bulio).
Cane. Gen. I 45. Tu que eres el Seilor
de los siglos ;
d'animales y vestiglos
hazedor.
117 Tricipides sierpes y bravos vestiglos'.
124 por do fué muerto con duros colmillos
del bravo vestigio de tierra de Oneo.
420 Porqu'el muy feo vestigio
no me traiga mal saiiudo.
II 305 Tres fieros vestiglos, sobervios gigantes
Contrarios perpetuos del bien operar,
Salieron senora, con vos a lidiar etc.
48. Vinco.
Diez 11'^ ohne Erklarung. — Die IJbersetzung Folte , Geleise des Wagens klart un-
genugend iiber den waliren Sinn des Wortes auf. Vinco bezeiclinet « den Eindruck
oder Einschnitt, welchen ein Band oder Biudfaden, stramm angezogen, auf eiiiem
Packete binterlàsst , die Rinne welcke ein Rad in den Boden drlickt, den KniflP
der in Papier, Zeug etc. bleibt, wo es gefaltet worden war. » ^ Provinziell benennt das
Wort auch « eine Nasenklemme aus Draht , welche dem Schwein aufgesetzt wird um
es am Wùhlen etc. zu liindern. » Vinco kann nichts anderes als lat. vincidum sein, in-
' Siete z. B. G. V. I 262: mentis comò bcstiyo, salvanor, (d. li. mit Verlaub zu sagen wie der hofliche Portu-
giese beute noch hinzufugt, wenn er Worte wie beata burro porco in den Mund nimmt). Sielie auch Cane, de Bes.
Ili p. i9H porque me vi muy cercado | de bestiguos | de minha Vida imignos, | e eu por foijyr lìeriguos \ foi /orgado \ em
hitma arvor ser trepado.
' Das span. Diminutiv Jitslimga (Pio. Just. p. 2S) dtìrfte nach port. Weise far Jnstinigua atehen d. h. Justi-
nicula sein. Man bedenlie immer dass der ganze Roman in Leon spielt am Zeafliisschen , und dass geistig wie
.sprachlicli port. gali. Elemente darin naclizuweisen sind. Ob igo aucb in dem humoristisch gebrauchten Adjektive
Xtrincipiantigas steckt , weiss icb nioht. Mòglicberweise ist es priiicipidntigas.
' « Signal que fica em cousa que se dobrou, ou na parte de um coii)o apertado com fìta, oti finalmente em
sitio por onde passou roda, > — Aviucar a testa = die Stìrii kraus oder in Falten zieJiev.
— 164 —
dem der Name des Ursachliclien (des Bandes, des Strickes, der Fessel) auf die
hervorgebrachte Folge und "Wirkung (den Einschnitt, das Geleise) iibertragen ward.
Fineo aus vincoo fiir vinculum, mifc syiicopirtem Z wie in magoa aus macula, hago
aus haculum, perigo aus periculum, dialo aus diahulmn, orago aus oraculum, povo aus
pojndum etc.
Vinco vaxà vincido sind also Sclieideformeu. Die erste Form ist die natiouale
volkstiimliclie, die zweite die Idassische, dem Lateiuischen entlelinte.
49. Xato.
Diez IP 193 weisfc nur die arab. Etymologie ab. — Baist, Zschr. VII p. 124
halt das kast. Wort fiir identisch mit span. port. kat. chato (xato) =rjjZa<t Man hiitte
das Kalb, welclies sonst auf der Halbinsel vom lat. vitellus, -a seinen Namen hat
(port. vitello, -a, kat. vadell, mallork. vedell), oder mit Ableitungen von tener z=zart,
■ und noviis^=jung benannt wird (im and. kast. vai. temerò, -a; kast. novillo, -a) alsjilatt-
ndsiges Tier bezeicbnet. Ansprecliend, obwolil der Spanier fiir plattnasig ein be-
sonderes Wort batte, romo port. rombo.
Gresichert ist die Etymologie iibrigens keiueswegs. Feruan Nimez citirt namlich
ein Sprichwort, welcbes lautet: Jado de noviella y pjotro de yegnn vieìla, und erklàrt
jado durch hezerro de bezerra, also in Ùbereinstimmung mit der modernen Verwen-
dung von xato. Sonst bin ich dieser Form nocb nicht begegnet weder in alten, noch
in neuen, noch in dialektischen Texten, so dass es sich ja moglicker Weise um
einen DruckfeKler fiir jato handeLn konnte.
Zu bemerken habe ich noch, erstens dass xato das Kalbchen nur bis zum Alter
von 6 Monateu bezeichnet (spater heisst es im Asturischen moseo, jahrig, und Mm-
bon, 2 jahrig, Vergleiche port. phnpào = schmuck). Zweitens dass das Wort nicht im
Nordosten zu Hause ist, sondern im Nordwesten. Gerade der Asturier, der Gallizier
und der Einwohner von Bierzo benutzen es. '
50. XODEEIEO.
Die Wòrterbiicher verzeichnen ein port. Wort xodreiro nicht. Ich keune es aus
Sa de Miranda 164, 338 wo es als Beiwort von porco ^auftritt uud soviel wie im
Scìdamme wuhlend, schmutzlieòend, schmutzig bedeuten muss. ' Sichergestellt wird das
Wort mit dem angegebenen Inhal^ durch das alte Sprichwort : Janeyro porcos em
xodreyro (Nunez), im welchem es also als Hauptwort auftritt und Pf'ùtze, Schlamm-
was.^er besagt. Ein solches kenuen die Lexika denn auch, in der Form enxodreiro
enxurdeiro = lamaqal lodagal. ' Sie keunen ferner enxurdar-se = sich ini Scìdamme loiil-
' Poes. Astur. p. 36; Bere. p. 179. 308, GaU. Cuv. Pinol s. v. jato.
' Acliou d' eia (da agna de maio) inda que farle, E corno porco xudreìro, Ben cnmUo d' ùa parte , Deu a volta
ó corpo enteìro.
' S. Rosa bietet: Éiucadreiro ^eslrumeira, Ittgar de immundicias , lodagal. — Aneli als Orfcsname kommt Enxu-
dreiro vor. (Vielleioht eine Verdrehvmg von Inxidreirof)
- 1G5 -
zen, und chHvilo^scInnntdg ' In xiivdo .vordo xodro erkenue ioli das lat. sordidus.
Porcus sordidus liat walirlich niclits befremdeiides. Indirekfc wird durcli diese vul-
gair porfcugiesisclien Vertreter des lateinisclieii Eigenschaftswortes auch die Her-
kunft des kast. cerdo (serdo smrdó) aus sordidus bestàtigt. "'
Mòglicherweise stammt vou xordo auch das port. Substantiv cholda, choldra ab,
oder isfc eins damit. Es bildet einen Bestandteil der Reimformel clioldaholda choldra-
boldra, mit welcher ein sclimutziges unordentliclies Gemengsel von allerlei Diìujen , dann
Wirrwarr, Unordmmg, und ein Haufe roller Mensclien benannt wird.
Xodreiro z= sordidarius %• xurdo = sordidus.
51. Y.TADA.
Rabbi Santob, 153 Quien vestir non quisiere
sy ■a.on piel syn yjada.
162 Non ay piel syn yjada.
604 Syn taohas son falladas
dos costunbi-es senneras,
dos pieles syn yjadas,
que non han conpauneras.
Das Glossar giebt keine Aiifklaruug. Yjada muss liier so viel wie Ungeziefer,
(Laus oder Floli) bezeichnen. Docb kanu ioli dem Ursprung und den Verwandten
des Worfces durchaus niclit auf die Spur kommen , weslialb ich es hier nur fiir an-
dere glùcldicliere Forscher hervorhebeu will. Yjada = Injada von hijar, Eierlegen i Eiu
Ausdruck « ein Nest voUer Eier » scheint jedoch eine fiir den Juden von Carrion
zu -wenig realistische Ausdrucksweise ? Im Port. freilich wiirde Jedermann verstehen
was eine felle sem ninliada bedeutet. Ich glaube , es existirt auf der Halbinsel ein
Sprichwort, des Inhalts « es gabe keine Rose ohne Dornen und keinen Pelz ohne
Ungeziefer » , doch finde ich den Wortlaut nicht wieder. HaUer und Sbarbi geben
mògUcher Weise Aufschluss.
52. ZlSME.
Altspan., bei Juan Manuel, Obras p. 249. Et otrosi ha y otra manera de bestias
que son muy enojosas et sehaladamente d los caballeros cuando acaecen que andari arma-
dos en las guerras, asi corno los piojos, et las jndgas, las zismes et las formigas et sos se-
mejantes. Grayaugos erklart im Glossar, zismes musse in zinifes umgewandelt werden
denn es seien i^^i'e^eu darunter zu vestehen! {zinifes que san moscas!) Wunderbar!
noch wunderbarer aber dass Baist diese Auslegung nicht nur unangefochten lasst,
sondern sie sogar ausdriicklich gutheisst (Gaza p. 166).
' Cìiurdo^=villào ruiiiij mìseravel; lan churda^^sitja de guarda, corno sahe'das ovelhas).
' Ein Naclitrag zu dem, meìnen « Sfcudien • eingefiigten Exkurs iiber die romanischen Eigenscbaftswoi-ter
in ulits, den icli mit manchem intereasanten Beispìele bereicliem kònnte. — Ctr. Zscbr. Vili 228,
- 166 —
Vou Fltei/eu war sclion vier Zeilen hòher bei Juan Manuel die Reda: Et ha
y otros que son'entre maìiera de hestias et de aves asi corno morciellac/os et mariposas et
abejas , et ahispas et todas las maneras de las moscas. Zu den Fliegen liat der
Verfasser aber hochst wahrscheinlich aneli die Mùcken gerechnet, was cùiife doch
ist. Die ZusammeusteUung « Lause und Flohe, Mùcken und Ameisen », gìnge ja recht
gut an, dodi schemfc mir man milsse lesen los piojos, las prdgas et las zismes, et las
formigas d. h. die drei erstgenannten Quiilgeister zusamnienstellen , und den vier-
ten viel unschuldigeren alleili lassen.
Floh Laus und Miicke bildeu freilicb uun kein bekanntes Dreiblatt; man
erwartet Floli , Laus und Wanze , — und findet es auch wenn man ricbtig liest.
Zisme ist lat chnice, und steht fiir zùnce [cliinclie.) Wer es nicht glaubfc vergleiche
aporfc. chimse! (bask. cìiimetch, romagn. zemsa, mail, scimes, ital. cimice, veuez. cimese,
sard. diimiglie, albanes. Taiftsx) Einport. chinche, wie Diez irrtilmlich angiebt, existirt
nicht, und liat uie existirt. Das abstossende Tier heisst hier zu Lande lyersevejo
« der Verfolger, der Verfolgungsfrohe » (alt j^ersovejo porsovejo porseve perseve fùr
persegue vou perseguir).
Dies zu Diez IP chinche und zu den Eeicbenauer Glossen 14 scinifes cincellas,
131 ciìnex cimcella, welclie vielleicht eiue andere Erklarung als die vou Diez p. 22
gegebene zulassen. ' Fùr das Volk kounten die verschiedenen , im Sùdeu jedoch
durcli ihre Sfciclie gleicli lastigeu lusecten wolil ein und denselben Namen (cimcella)
tragen, so dass auch im aspan. zisme beide Arten inbegriffen waren. Lautlich aber
ist zisme, wie bemerkt, durcli zim,se (die Vorstufe von chinche) aus cimice entstan-
deu. Man vgl. hrizna neben brinza, gozne neben gonze, hrozno und hvonze, hizna und
liiaza; trezna und trenza tranza.
C'inif e = Miicke ist im Span., obwohl vielgebrauchfc, gelehrteu Urspruugs. '
' Icli wiirde cimex cimcella unangetastet stehen lassen.
' Im altport. Te.stamente (Boaventura II p. 101, Exodus Vili 16) wird das sciniphes der Vulgata, in Ermange-
lung eines entsprecbenden Wortes, durcli moscas wiedergegeben. Modem mosquito.
Carolina Michaelis de Vasconcellos.
DIE ENTAVICKELUNG VON C0N80NANT+W'
IM FRANZOSISCHEN.
Aus eineni Hiatus-^ eutwickelt sich bekanntlicli schon friihzeitig im Lateini-
schen eiu consonantisclies u (ir): ich erinnere hier nur au die eine Thatsache, dass
Wòrter wie temds u. dgl. bei ròmischen Diclitern wie Grammatikern bald di-eisilbig
(d. i. te-nu-ù)j baki zweisilbig (d. i. ten-iois) gerechnet werden, an die Vorschrifteii in
Probi App. vacua non vaqua, u. s. w. Man vgL kieriiber jetzfc E. Seelmann, Die
Ausspracke des Latein nach physioL-kistor. Grrundsatzen (Heilbronn, 1885) S. 231 ff.
Was nun die Weiterentwickelung eines solchen aus Hiat-w entstandenen w beim
Znsammenstoss mit andern Consonanten im Franzòsischen anbetrifft , so beobachtet
man hier die auf den ersten Blick uberraschende Tliatsacke, dass in einigen sonst
ganz gleichgearteten Fàllen eine trotzdem verschiedene Bekandelung des w sich
eingestellt hat. So ergibt die Grappe itgjuWa -r- w in einigen Wortern LigMtVZa-j- y,
wahrend in andern Wortern mit denselben etymologischen Voranssetzungen das io
ganzlich schwindet: man vergleiche z. B. Jaimarius : ^Jemoarius '.jenYter, aiinualis :
*anwalis:aTi^el^ etc. roìt voluisti:*volwistì:vo'LÌs ^ teimisti : *tenwisti: teixis. Die Wahi'neh-
mnng dieser zwiefachen Behandekmgsweise veranlasste mich schon vor langer Zeifc
einmal alle FaUe von inkxutendem consonantiscken u (tv) naker zu untersuchen: die
Gesetze, welche sick als Resultai dieser Untersuchung ergaben, habe ich in Kurze
bereits Zs. fùr rom. Phik Vili S. 371 Anm. und S. 406 Anm. mitgetheilt. És sei
mir gestattet, das dort in anderm Zusammenhange nur kurz augedeutete hier an
dieser Stelle etwas welter atiszufiihren und zugleich in einem Punkte zu bericktigen.
Es ergeben sich folgende Lautregeln.
I. Kurze Muta (b p v g g d t)' -ì- io: in diesen Gruppen geht die Muta stets in
Assimilation an das folgende consonantische u (w) unter; es entsteht jeweils aus Muta
-f- w zunachst wic, das alsdanu . wie jeglicke lateiniscke Consonanten-Gemination
' Da andere Zeiclien in der Druckerei uiclit vorbanden siud, bezetchne icb mit w consonautisches f. , mit j
consonautisches i.
- Thurneysen, das Verbum Hrc und die franzosische Conjugation (HaUe 1SS2) S. U sin-icht mit Unreoht
nur von b p e d g.
— 168 —
franzòsisch friihzeitig zu einfacher Consouanz ubergiug, zu io reduziert wurde. Ùber
die weitern Schicksale dieses aus Muta -f- te entsfcandenen w ist von mir Zs. f. rom.
Pliii. Vili, S. 371 f. S. 386 f. u. sonst ziemlich eingeliend gehandelt: 1) InIìAUTend
INTEBVOKALISOH ist IO erhalten , sobald es voe bem Accent steht und der Vokal a oder
e vorausgeht (in der Schrift gewohnlich diirch deu Buchstaben w dargestellt), vgl.
imter den folgenden Beispielen als kierher geborend Falle wie aìois, sawis, plawis,
deiois., etc; geht dagegen der Vokal u voraus, so ist tv gefallen, vgl. niuis, nuis,
comds (S. Zs. VTII, S. 378); nber pois =2^oticisfi s, u. I, 7, Anm. 2) Nach dem Ac-
cent dagegen liat ?i' in derselben Stellung (inlantend intervokalisch) uv beziehungs-
weise V ergeben, vgl. vidwa : *veivwa : véuve, véve und das welter unten hiezu be-
merkte. 3) Inlautend voe. folqendem Consonanten wurde w zu vokaUschem u, das
mit vorausgekenden a o und i zum Dipktkong versckmilzt, dagegen bei vorlier-
gekendem ìi in Assimilation an dieses fàllt, vgl. unten die Perfect-Formen mit, saut
jdaut, liout {xìbev pot porent s. Zs. Vili, 374) diut etc, atirent, saurent, plaurent, j)ou-
1-ent, diurent, etc; dagegen mwi, mit, conut, plut, murent, nurent, conurent. 4) In
den Auslaot geteeten wandelte sich tv ebenfalls zu vokaHsckem «t, auf einem Wege,
den ich vor alien a. a. 0. S. 386 naker bescluieben habe; dies u verschmilzt mit vo-
rausgekendem a o e i wieder zum Dipktkong, fiillt aber bei vorausgekendem ti; vgl.
von den unten stekenden Beispielen die Perfectformen aii, sau, plau, j)ou, diu, etc,
dagegen mu, nn,'conu, jj^u. Beispiele, welcke das kier fiir die Entwickelung der
Grruppe: Kurze Muta -f- «« aufgestellte Gesetz bestiitigen, liefert besonders zaklrei-
cke und instructive die Klasse der' starken ?tt-Perfecta; vgl. fiir die in Betrackt
kommenden Einzelkeiten , auf die lek an diesar Stelle nickt wieder eingekn kann ,
Suchier's bekannte trefflicke Abkandlung Zs. f. rom. Pkil. Il S. 255 ff. sowie Neu-
maun , ebenda Vili S. 369 ff. Uber die sonstigen kier folgenden und fiir unser Gesetz
beweisenden Beispiele findet man das Nakere von mir Zs. Vili S. 381 ff. ausgefiikrt.
lek lasse jetzt die Belege fiir die aufgestellte Lautregel folgen, deren Allgemeingiil-
tigkeit sick dabei kerausstellen wird.
1) b~i-iv:io. Vgl. ]iabwi:*awwi:"aw[i]: nordosiir. aii; ' hahwisti:*awwisti:'^awisti :
nordostfr. airis; ebenso entstanden aut, awimes, atvistes, aurent, aioisse, età. aus habioit,
*habiciìnus, hahwistis, ^lidbicerunt , liabioissem, etc; vgl. ferner *bibwi, %ibwisti, etc. zu
*biw[i\, *bkvisti, etc. : biii, bewis, etc; dehioi, debwìsti, etc. : *deio[i], ^dewisti, etc. :
diu, dewis, etc; desgleicken *se&M-^°''- : ^sebio- : *seio- : seu (s. Zs. Vili, S. 399).'
2) p -^w.w. Vgl. sapwi , sapwtsti, etc. : *s«(«[t] , ^saivisti, etc. : sau, snwis, etc;
^recipwi, '*re,dpu-isti, etc : *reci('.-[*] , *reciwlsfi, otc. ■.reciu, receu'ls, etc; desgleicken
' Ich teschriinie mieli, xim niclit ziiviel Eaum in Ansprnoh eu nehmen, bei don Formen von iu-Perfeoten
auf Angabo ilei- nordostfranzbsiscben Gestaltunp;. Wie aus einem *aioi etc. sich die gemeinfranz. Form ot etc.
entwickelte, ist von mir a. a. O. eingobend dargolegt wordon.
■■ Die nahere Begrilndung der oben dos bosohriinkten Eaumes wegen n\ar kurz angedeutetcn Entwicke-
lungsreiho, der gemass wir in seu (wie in einor Eeiho von weitern Fiillen) ■^erallgomeinerung einer in der spezieUen
Stellung vor folgcndem vokal. Anlaut eingetretonen und duroh diese Stellung bedingten Gestaltung zu erblicken
haben, ist von mir a. a. 0. Zs. Vili; Heft 2 und 3, besonders S. 381 ff. gegebon.
— 1(19 —
*ca^jM-™^'- : *capw- : *caw : *cau , woraus danu iu der Zs. Vili , S. 399 beschriebenen
Weise kieu, keu bervorgiug.
3) 0 -h IO : w. Vgl. ^pavioi, ^j^avwisft, ete. : *j>)aw[('J , ''■^jnwUti, etc. : jjrtft, pawis, etc;
*crevwi, *crevioisti, etc. :*cr'ei«[ij, ^crewisti, etc. : cj-im, creiois, etc; *movwi, *'movivisti, etc:
*»iOR'[i| , ^rmwisti , etc : mw , »mws, etc. ; *cognovxoi , ^cognovwisti , etc. : "*co»ìOM'[t] ,
*conowist{, etc. : conw, conuis, etc; '^jilovioit : *pZo«6'[i]< :pZ«f. Desgleiclien die Adjectiven-
dung -um-^-"'^- : '^-imu- : *-iw : -iu (s. Zs. Vili, S. 397 f.); *blavu-^o^- : %lavio- : *blmo
: biau, blou (s. ebenda) ; clavu-^°^- : '^eluvio- : *claw : clau, clou (s. ébenda); das Suffix
-avu-"''°^- (z. B. Pictavum, etc.) : '*-avio- : *-aw : ou {Peitou, etc, s. a. a. 0. S. 398).
4) ^ _f_ w : IO. Vgl. *legwi, ^legwisti, etc : *lew[i], Heioisti : Un, lewis, etc. Desgleiclien
traugu-^°^- : Hraugw- : Hrqio : trou (s. Zs. Vili, S. 388); fagu-^"^- : *fagw- : *faw : fau ,
fon, etc (s. Zs. Vili, S. 390); '^sclagu-^"^- : *esclagio- : *esdaw : cgclau-, csdo (s. ebenda);
g^Qvok. . «g^,y . *g,,y . gjj ^g_ ebenda , S. 392).
5) c-+-w:w. Y ^. placwi , placwisti ^ etc. :*j)law[i\^*i]lawisti^ eie : pimi , plaiois , eie;
tacici, tacwisti, etc. : *<a(('[*] , *taivisti, etc. : tot, taiois, etc; "jecwi, *jacioisti, etc. : *jew[i] ,
*jewisti, etc. :jiu.,jewis, etc; liciuit : *fò«[i]< : liut; nocioi, nocwisti, etc. : *notoi, ^nmoisti, etc.
■.mi, nuis. Desgleichen focu-'^°^-, locu-^°^-, jocu-^°^-, cocu-^°^- : *fociu, *loctv, *jocw,
*cocio : */'o(o, How, *joio, *cow :fou, lou,jou, cou (a. Zs. Vili, S. 386 &)\ paucu-^°^- ,
baucu-^"^- : *pauao , *bauciv : *pauw, *hauw : pou, bou, etc. (s. ebenda S. 388 flp.) ;
graecu-"^"^- , caecu-''°^- : *graecw, *caecio : * greto , *cew : greu, ceu, etc. (s. ebenda S. 394).
In der Entwickeliingsgeschicbte der Gruppen g -{- io tind c-+- w ist noch ganz
besonders der Umstand zu beachten, dass die Gutturalis in dem Assimilationspro-
cess vòLLiG iintergebi, walirend in der allerdings keineswegs gleich gearteteu, aber
dodi verwandten Gruppe cv (qu) von der Gutturalis eine Spur in einem parasitischen
i zuriickbleibt : vgl. z. B. aiwe aus aqua, sivve (= *siei«re) aus *sequere, ive aus equa
u. s. w. Der vollstandige Untergang von e und g in den Gruppen cto und gw batte
wohl seinen Grund in dem Umstande, dass w seiner eigenen Articulation geniàss
eine grossere Assimilirungskraft besass als das in seiner Articulation von w unter-
schiedene v von qu.
6) cZ -f- ?y : io. Vgl. ^credici, *credwisti, etc. : *c»'e?«[i], ^creivisti, etc. : criu, creiois, etc.
Desgleichen vado^°^- : *vadio : *vaw : *vau : vo[is] (S. Zs. Vili, S. 395). Hierber gekò-
ren aucb die frz. Reflexe von lat. viduns, vidua. Vidua wurde durch vidwa, vedwa,
veiowe, vewe bindurcb zu altfr. ve^oe, veuve (dialectisch auch veve cf. Pbil. Mousket
2760). Nach dem Accent ergibt w (bezw. wio) hier uv, dessen u mit dem be-
tonten Stammvokal verschmilzt, ' wàhrend vor dem Accent, wie wir salieu, io als
solcbes (ir) beharrte {awis, etc). Gegen diesen Wandel von w nach dem Accent zu
uv spricht durchaus nicht das io der bekannten pikardischen Femininformen von lat.
Adjektiven omì ivus : ententiwe, hastiwe , tardiwe, etc. (S. ìiber dieselben das Nàhere
bei Suchier, Zs. II, S. 298 und meine Ausfuhruugeu ebenda Vili, 397). Dies w ist
' Vgl. damit den gmfr. Wandel von *aifi (walii'scheinlich dnrch Gin a"wi hindurch) : ^'Oivi : ol, *claiv {:*cla"ic)
^cìow.clou etc, worùber ich Zs. Vili, s. 371 u. sonst geljandelt liabe.
— 170 —
ganz anderer Provenienz als das tcv von veuve und zndem, wie ich glaube, auch
welter niclits, als eiu Zeicheii f'iir uv. Lat. Inteiitioa, tardiva, hastiva ergaben zvinàclist
franz. eìdentìve, tardive, hastive; aiif diese Formen wurde alsdann das iio der Mascu-
linformen ententiu, tardiri,, hastiu, dereu. Entstehungsgeschichte von mir a. a. 0.
dargelegt ist, aualogisch llbertragen , und so entstanden die Formen ententiuve
(geschrieben ententiwe), tarditcve (g. tardiwe), hastiuve (g. hastitoé) n. s. w. Das d der
z. B. in den Quatre Livres des Kois (ed. Le Roux de Lincy) S. 197, Zeile 11, Ges.
Wilhelms des Eroberers 9, Thom. le mart. 120 stehenden Form vedve darf wolil
als bloss etymologisierende Schreibung angesehen werden, an der ersten der ange-
fiìhrten SteUen besonders noch durch ein in der lat. Vorlage steliendes vidtdtate ver-
aulasst. Solite dagegen das d wirklich gesproclien worden sein, was positiv zu
entsckeiden nns die Hilfsmittel fehleu , so kann vedve im Hiublick anf die sonst in
Erbwòrtern beobachtete Eeduction von Muta {d)-i-w : io nicht Erbwort sein, sondern
muss als fremdwortliclie Gestaltung von lat. vidua betracbtet werden. Vgl. dazu die
atich in andern romanischen Spracben eigenartige Beliandlung grade dieses Wortes:
prov. vezoa, ital. vedova u. s. w. Unregelmàssig und daher einer Erklaruug bediirftig
ist aneli die Form des Masculinums mit/; ^'Ci(/(bezw. vef) = vidmmi. Wie z. B. po<!«
AvLvah polivi *poioi , *])ow\i] hindurcli zupow wird (s. Zs. Vili, s. 379), so solite viduum
durch vidwum, *vedwum, *veivum, *veto[mn] (um fiillt unter derWirkung der Auslauts-
gesetze) zn '"veu sicli gestalten, viduus anf demselben Wege zu veus. Das/ von veuf
beruht auf analogischer Neubildung: wie man zu rive etc. ein masculines vif batte,
so schuf man zu veuve ein veuf. — Dass vuit , vuide, vuidier nicht hierher gehoren und
mit viduum, vidua, viduare nichts gemein haben, bedarf wohl hier nicht der Eròrte-
rung (vgl. Thomsen, Rom. , IV, 257).
7) t-}-w.io. Vgl. potivi, potwisti, etc: *pow\i], '''powisti, etc: pou, pois,^ etc;
*stetwi, *stetwisti, etc : *sfeM'[«J, *stewisti, etc. : estiu, estewis, etc
' Diese Form pois (ebenso natiu-licli po'imcs pdisUs, ferner dei" Conj. 2>oisse etc.) bietet nocla eine bislier un-
geloste Schwierigkeit. Erwarten soUte man als altere lautgesetzliche Entwickelnngsform ein *pou'ìS etc. (—crciris,
estetcia, awis etc.) Suchier ist entscbiedon im Uni'echt, wenn er als die altre Form, aus welcber jjoì's entstanden
sei, eiu ^jyodis ansetzt: so gut (nacli Svichier) xyotwl sein t verliert in don woitern Entwickelungstiifen
^pow[i\ ipouj musste auch in potwtsti etc. t untergehen nnd '-^powisii '^^powis entstebn. Was die einzige belegte
Form mit d {pollisi des Jonasfragmentes) anlangt, auf die S. sìoli stiitzt, so mochte ich dodi Freund, iiber die
Verhalfle.\ion der iilteston franz. Sprachdeukmiiler, Reclifc geben, der diese Form S. 22 mit dem aus den Strass-
burger Eidcn hor bckannten Infinitiv podir in Vcrbinduug bi'ingt, womit aber durcbaus nicht gesagt sein soli,
dass dio naohhcrigon Formen pois cto. poissc otc. obonfalls zum Inlinitiv poir gehoren: dies goht nicht an aus
Qrunden, welche Suchier a. a. O. S. 270 Aum. 3 (Sohluss) angibt. Oder aber: podist des Jouasfragm. kann sogar
als jilngere Gestaltung aus Xìoist hervorgogangen sein , indem auf letzteres von Formon mit damals noch erhalte-
ncm d (() wie poduns podra etc. d analogisch iibertragen wurde. Wie cntsteht nun aus altem *poivis etc.
*i)0ì«i«se etc. jiingeres iJOis età., po'isse i^tc, mit andern Worton, wie erldart sich hier der Schwund von w?
Das ist mciner Moinung nach die Frage, wcloho zur Bcantwortung steht. Ich glaube, dass w hier gefallen ist
"wegen des vorausgehondcn o, ganz "wio in mn'is, iiu'is, coinìis (s. o.) w wogeu des vorangehcnden u iìol, wahrend
w nach a e von Bòstand war (awis, dcwis cto.) Diesor Auflassung steht nicht entgogen, dass in poti poni ponrent
{die Formen pot i>orent siud Zs. Vili, 374 besprochen) das w als u im Gegensatz zu i)oì> otc. ekbalten erscheint ,
wiihrond io in den ontsproohendcn Formen imi miUmiirent, nu nul nunnt, conu comit conunnt, phd glcichfalls
und nEBEREiNSTiMMEND mit «iKi» kkìs cOBMi's GEFALt.E.-j ist: in poii poiit pourcnt ist w als u geblieben, weil das letztre
hier cine der franzos. Spraohe geliiufige Dipbthougvorbiudung (oh) cingolm konnto, wahrend das ungowohnliehe
iiu von *mau *nUu etc. (s. Zs. Vili, S. 378) nicht als Diphthong von Bostaud war, sondern zum Monophthong ver-
— 171 —
Das Proveuzalische stimmi — was Iiier uebenbei bemerkt sein mòge — mit cler
durck die vorstelieuden Thatsaclien fiir das Frauzòsische erwieseuen Behandlung vou
Muta + IO bis aiif eineu Fall uberein. Vgl. fili' h -+■ w Perfectformen wie oc aguist, '
bec begidst, dee deguist, fiiv v -+-w ])ac ]](iguist, crec creguist, moc mogidst, conoc cono-
guiiit, fiir e -f- lu plac plaguist,' jac jaguist, noe noguist, lec, desgleichen *facó^°^- : *facw :
*J'aw : fau (Zs. Vili , S. 391) , anncu-"'°^- : *amicw- : ^arniw : amm (ebenda S. 394) , fiir
(j 4- w fagu-''°^- : *fagiu : *faw : fau (s. o.), ebenso esclaio (s. o.), fiir d-h w sec, vado'"'^- :
*vadw : *vaw : vau (s. o.), ebenso gradu-"'°^- : grau^ nidu-""^- : niu (Zs. Vili, S. 396),
fiir t -(- IO poc^ 2)ognist, etc. — Eine noch nicht erkliirte Ausnalimestellung nimmt im
Provenzalischen die Gruppe p> + w ein : wàhrend im Franzosischen sich aus ^j + w
ebeufalls wie in den andern Filllen mit Untergang der lab. Tennis w entwickelt,
widersteht im Provenzalischen das p der Assimilatiou an iv , dergesfcalt, dass sapm
ein saup, saptcisti ein saubist u. s. w. ergibt.
II. Lange Consonanz (Muta + Muta, Liquida + Muta, Muta + Liquida etc.) +w.
In diesen Gruppen widersteht die Muta vor w der Assimilation und das w geht
unter. Vgl. batlwo, *bdttwere, ^ battwalia : bat^ battre, bataille; quattwor : quatre; conswo,
*cónswere : coms, cousdre; sangiois : sane; lingiva : leng(ti)e, exstingivere, etc. : esteindre;
ungiuere, etc. : oiadre; febrwarius -.febrarius (App. des Probus) ■.fevrier; vgl. auch mortus
fiir mortwus schon bei Cicero u. s. w.
IIL Liquida + w. Hier sind zwei Falle zu unterscheiden :
1) Wenn Iw und nw (diese zwei kommen nur in Betracht) in franzosischer
Lautentwickelung mit einem folgeuden deitten Consonanten zusammenstossen , so
schwindet in dieser dreifachen Consouanz der mittlere, das w;'* so werden Iwt mot
schmolz. Vgl. als eìne dem Schwund von iutervokalem w nach ;/. , o verwandte Ersclieìnuug den Ausfall von iu-
tervokalem v (6 pf) vor and uach labiaben Vokalen : Inette, oeille, paon, paor u. s. w. S. Thvirueysen a. a. O. S. 30 f.
Zs. VUI, S. 382 f.
' ìiahwisti: ^awisti: agulst mit Wandel des io : gii, ebenso placioiaii : *pìawìsti : plaguìst, pottvisti : *pQwisti:
poguisl u. s. w. S. Zs. Vili, S. 372 Anmerk. aacb Sucbier Zs. II S. 268.
' Dass e, gii hier niolit Eeflexe d6.s stammhaften e sind, bedarf wohl kaum der Erwabmuig: s. Z.s. VIII,
S. 372 Amn. und S. 391 f.
\ ' Oeber dio Aoeeutversotznng s. Zs. VIII, S. 408 Aum.; iiber battre, cousdre vgl. auch Grober im Archiv f. lat.
Lexikographie I, 249 und 553.
' Auch sonst beobachtet mandieRegel, dass in dreifacher Consonanzder mittlere Bestandtheil fallt, wenn
derselbe eine Laiiialis und der erste Consonant keine Muta ist. Mit der Kediiction von lim' : Ir (Idr) lasst sich direct
vergleichen dar Wandel von lor : Ir ^Idr) : z. B. solvere : solre (pik. saure), soldre; pulv'rem : polve, poldre; vgl. fer-
ner die; Uebergange Ibn zu ht : galb'nus znjalne, Jaunisse; Ips zìi Is : colps zu cols; mps zu ms : tcmps zu tems,
camps zu cams, redempsi zu raems etc; mpt zu ìit : comp[u]tiis zu conte; mbs zu vis : amb's zu ams; mbt zu nd :
bomb[i]tare zu bandir, amb\i]tus + anus zu and-ain (vielleicht auch in afr. oude = amb{i]tiis vgl. Zs. f. rom. Phil. II,
S. 313 ; dagegen Rom. VII S. 630) ; rvc zu rg : verv\e]caTius zu bergier; rvs zu ra : serv's zu sers, cerv's zu cers; rfc, zu
r<ì:forf\i\cem zu. force; rps zu rsicorp's zu cors; [rbl zu ri; parabolare z\i parler ;] rmt zu ri : dorm[i\toriuìn zu dortoir,
firm[i]tatem zu ferie frete Eich. 1. b. 1042, 1062, (fermete und fermte sind Premdworter), coiìfirm\e.]t zu conferì; rms
zu rs : infirm's zu enfers, verm[i]s zu vers (s. Suohier, norm. Reimpredigt S. XXXVIII); spc zu se : susp[i]care zu
soschier (cf. suscherent = suspioati sunt Q. Livi-es des Kois, ed. Le Eoux de Lincy S. 338, Z. 18; sospicier ist Fremd-
wort, ebenso wohl sospe<;on, wenn man nicht vorzieht, dasselbe mit Horning Zs. VI, S. 435 t. = suspectionem zu
setzen); apt zu 3t : hospli]talem zu Jiostol; spd zu sd : hisp[iìdus zu hisde, hisp[ildosus zu liisdos; spi zu si : mesp[ì]li(m
zu ìnesle (O. de Serres 656 : XVI. Jh. ; neu-norm. mele , pik. mesle merle, bcrr. mèle ; mesjile, meple, mespe sind Fremd-
worter); sbt zu st : presb[y]ter zu prestre; sfm zu sm : blasfie]mare zu blasmer.~In der eineu Gruppe rmu liei der
dritte Consonant n : terìn[i]niim zu afr. terme {termine ist fremdwortlich). — Erhalten ersoheint interoonsonantische
— 172 —
Iwr nwr zu It ni Ir (bzw. Idr) w (bzw. ndr) : volw[i]t : volt, tenw[i]t: tint, "venw[i]t:viiit,
*vólw[e]ruiit : volreut voldrent, *téiiw[e]runt : tinrent tindrent, *vénw[e\runt : vinrent vindrent.
Ebenso werden Iwj und nwj zu Ij (weiterHn l l) und nj (weiterhin n n). Beispiele :
*volwj *tenwj *vemoj (z^ volwi^°^- tenwi''°^- *venwl''°'^-) ' : *voIj *tenj *venj : voti Un vin,
deren l und n dann nach Analogìe von volt tint vint (s. o.) zu l n ùbergehn: voil
tin vin.
2) Wenn auf inlaut. ho mo ein Vokal folgt, so bleibt w als v erhalten. Beispie-
le: tenuem : tenwem : tenve; januarius : jemoarius : genvier; annualis : amoalis : anvel.
Danach soUten wir aus Genua nicht das bekannte fr. Gènes sondern ein Genve entwic-
kelt erwarten. AUein dieser Ausnahmefall dilrfte kaum im Stande sein die Allgemein-
giiltigkeit der obigen Lautregel in Frage zu sfcellen: Eigennamen participiren, wie
zahllose Beispiele beweisen, nicht immer an deujenigen Lautgesetzen , nach denen
sich sonst die lautliolien Wandlungen des volksthumlichen Wortscliatzes regeln , und
unterliegen oft der Wirkung von ansserhalb der Laufcgesetze stehenden und z.
Th. nicht mehr erkennbaren Faktoren (Volksetymologie u. dgl.) , zumai wenn es sich
lina Namen aus einei' fremden Sprache handelt. Fur den vorliegenden Fall beachte
man wohl, dass im Dialekte der Genuesen der Name ihrer Stadt ZeNa lautet.
Gewichtigere Bedenken kòunten jedoch gegen unser Gesetz von Seiten gewisser
franz. Verbalformen erstehn. Nach der aufgestellten Lautregel sollteu aus einem
lat. tenwisti *vemuisti volwisti natiirlicherweise als altfranz. lautgesetzliche Formen
*teniois *venwis *voliois und weiterhin *tenvis, *venvis, *volv{s (ebenso *tenvimes,
*tenvistes, *tenvisse, etc, *venvimes , *venvistes, *venvisse, etc, *volvimes, *volvistes,
Labialìs nxix wenn sie uingeben ist von r~r {vgl. arbre marbré purpre etc), oder s-r {vcsjrre), oder ?»-?* (vgl. rompre
pampre), oder ii-Jt w-' (vgl. embler^^ involare, ambler^= ambulare, nomhles simple). Man beachte, dass, wie zwischen
m-r und m-l die Labialis sich erhiilt, ebenso andrerseits die Gruppen vir mi fr. ein b als UeborgangslaiTt annehmen
nnd zu mbr, mbl werden (mit Ausnahme bekanntlicb des pik. Dialektes): vgl. nombre, cocotnbre, membrer, chambre,
raembre etc. (in giendre =■ gcm[e]re, priendre=::prcm\e\re, crnindre = trem[e]re ist nicht etwa mr ausnahmsweise zu
7j(Zr geworden , sondern es ging das -m- des Infinitivs nach Analogie von Voriaen-wìe gieiis giait, prieìis prient,
crìens crìent, in denen m sich an das dent. s, t assimilìrte undjautgesetzlicli zu n wurde, ebenfalls zu n iiber, und
in der so entstandenen Gruppe n-r stellt sich naturgemiiss d als Uebergangslaut ein; so stellt sich neben gkKT,
prienT, crieNT ein ///cndre, ^jr/eNOKE, creìsDRE, wie man zu prewv ein prcNoRE, plaiUT ein iJiaiNORE etc. batte) , ferner
sembler, combler, humble, trembler etc.
' S. Zs. Vili, S. 2S9. Wie fiir tin vin wegen des Uinlauts von stammliaftem e zu i von einem *(fi??.[!«];'«ok. *t)enr«iy«nk.
auszugehn ist, so muss erst recht voil wegen seines parasitischen i vor l als Verallgemeinerung der Entwickelung
von «otojvok- angesehn werden. Nui' das sich in dieser Stellung einstellende *voliiiì, *volJ (Hiat-i : j) mit der Gruppe
Ij kann parasitisches i vor l entwiekeln, wahrcnd sich aus einem v -Zw^ons. mit stets vokalischem und dann unter
der Wirkung dea Auslautsgesetz abfallenden ausi, i nie cine Gestaltung mit parasitischem i vor l ergeben konnte.
— Aehnlich ist — was hier zu Zs. Vili S. 26:i ff. uachgetragcn sein niag — das mouillirte l [III) in prov. jì«/A noben ttul,
belìi neben bel etc. zu orkliiren. Auszugehn ist von dor Form des Noni. Plur. nulli, belli. Die beiden mussten bei vo-
kalischem Anlant dea folgenden Wortea zu nnHj'^"'^ beHj'"^ werden, woraus dann ganz regelrecht mit dem
bekannten Uebergang von Ij :1 (Ih) nulli, nnd belìi entstanden, wiihrend nulli '''""■ belli <-'»"=•, da in dieser Stellung
ausi, i stets vokalisch blieb und dann fiel, ein nul bel entwiekeln. Von jenen nulìi und belìi aus wurde Ih dann aiich
auf andere Forraen derselbon Worter (z. B. Ca». obi. Sgl. nulli belli neben dem laxitgesetzlich nur moglichon nul
bel) analogisch ttbertragen, gleiohwio nach Analogie von ilìi cilìi (= illi 'ok ) auch andorc Formen dieses Prono-
mens (z. B. Gas. .obi. Sgl. celli) das III annahmen (S. a. a. O. S. '264). Die Annahme, wonach in Formen wie belìi nulli II
im Gogensatz zu der sonst bolegten Lautregel statt zu l ausnahmsweise auch einmal zu III entwickelt sei, steht,
solange man aicb nicht hemùht die Griinde dieser Doppolgestaltunp; kines und dessolben Lautes klarzulcgen,
mit den Principien der Spraohgesohiohte im Widerspruch.
— 173 —
*volvisse, etc.) entstandeu sein. Diese Formen sind jfidoeli, wie bekannt, niclit
belegt, sondern wir treffen dafiir von Anfang an nur t.e>m, venis , volis, u. s. w. rnit
Scliwund des consonantischen u{w). Allein wenn auf der einen Seite bloss Formen
von Verben stehn , welche oft imd leicht allerlei Systemzwang und Aualogiewirkung
unterworfen sind, auf dee andern Seite dagegen Wòrter wie tenve, etc, die
ziemlich isoliert im Worfcschatz dastehn und daher keiuerlei Systemzwang ausge-
setzt sind, so kann man stets sicher gehn, dass die isolierten Worter das
regelmasslge, gesetzmassige repriisentieren und im vorliegeuden Falle das Gesetz
des Wandels von Iw, nw : lo, nv garantieleisten, dergestalfc, dass jene Falle tenis ,
venis, volis nicht lautgesetzlich sein konnen, sondern ilire Erklàrung ausserhalb
des Gesetzes finden milssen. Wir haben es in der That in diesem Schwund des
w(y) mit einem analogischen Vorgang zu thun: nach dem Muster von voil, volt,
voldrent ; tin , tint , tindrent ; vin, vint, vindrent, in denen das w der Grtippen ho, nw,
wie wir unter ITE, 1 sahn, lautgesetzlich fiel, ist auch in den Formen *temvis,
*vemv{s, *volwis, etc, friih Iw (Iv), nw (nv) zu l, n reduziert worden, so dass tenis ,
venis,' volis, entstehn. Durch. die Annahme, dass nur in voil, volt, tin, tint, vin,
vini, etc LAUTGESETZLiCHEE ScHWTJNB des mittleren Consonanten tv einer Dreiconsonanz,
in tenis, venis, volis aber analogischer Schwund vorligt, stehe ich in Gregensatz zu
Suchier's. Zs. II, s. 270, Anm. 1 ausgesprochener Ansicht, wonach Iw, nw durch Assi-
milation zu II l, nn n geworden sein kònnte: ich glaube, dass Suchier fùr tenis,
venis, volis die richtigere Erklàrung oben auf derselben Seite 270 getroifen batte. —
Wenn aber auch alti, von Anfang an in den Literaturdenkmàlern nur tenis, venis,
volis, etc. angetroffen werden, so haben wir doch (wie ich schon Zs. Vili, 406 Anm.
angedeutet habe) sichere Anzeichen dafiir, dass jene lautgesetzlich en Formen *volvis,
"tenvis, *venvis, etc. einmal — wenn auch vielleicht nur kurze Zeit — in der leben-
digen franzòs. Sprache existiert haben miissen. Die von Suchier a. a. 0. S. 263,
besprochenen dialektischen Formen tinvet, vinvet fur tint, vint, die man bislang ent-
weder garnicht erklarte oder doch nur in sehr gezwungener und den sonst erkann-
ten Lautgesetzen widersprechender Weise zu deuten vermochte, finden, wie ich
glaube, ihre ungezwungene Erklàrung in der Annahme, dass sie zur Zeit, als jene
*tenvis *venvis, etc. nodi existierten, durch Analogiewirkuug dieser Formen ihr nv
fiir n erhielten, wie umgekehrt nach dem oben eròrterten *tenvis *venvis, etc. nach
Analogie von tint vint etc. ihr v (w) verloren und zu tenis venis wurden. Vgl. fiir diesen
in zwiefacher und dazu grade entgegengesetzer Richtung eingetretenen analogischen
Ausgleich bei denselben Formen u. a. afr. pri-proions, wofiir einerseits pri-prions
mit analogischer Verallgemeinerung des Vokals der stammbetonten Formen , ander-
seits proi-proions mit analog. Verallgemeinerung des Vokals der endungsbetonten
Formen eintrat. (vgl. Behrens, Franz. Stud. Ili, 6 S. 35 ff.) Was endlich die
* Das frz. venis direct auf das lat. venisti zuruckzufiibreu. "widerriith. wie Suchier Zs. II, 270 richtig bemerkt,
das entsiirechende provenz. vcnguisl, woi-in das gu dem tv (von *ccuioisfi) eiitspricht.
— 174 —
Aunalime einer Analogiebildung nach iii;r erschlosseueu Formeu anlangt, so stelin
derselbeu keiuerlei Bedenken entgegen. Deiin wie die pik. Neubildung mi[e]ue in
bisher nie angezweifelter Weise die eiumalige Existeuz eiues afr. nicht belegten *mieus
bestàtigfc, so legen die Neubiklungen tlnvet vinvet von der friiheren Existenz der
nicht belegbaren, aber auf Grund sonsfc erkannter Lautgesetze erschliessbaren For-
men *tenvis *venvis, etc. ein, wie ich meine, gleich unwiderlegliclies Zeugniss ab.
Fritz Nedmann.
UN TESTO DRAMMATICO SPAGNUOLO DEL XY SECOLO
PUBBLICATO PER LA PRIMA VOLTA
I3.A. .A-LFOlSrSO lSj!LI01^ A..
Il testo che vien pubblicato qui appresso si trova nel primo dei due volumi cartacei in 8"
d' una raccolta manoscritta di poesie e prose, latine o italiane quasi tutte, appartenuta al
marchese De Sterlich, e venduta dai costui eredi nel 1871 alla Biblioteca Nazionale di
Napoli, dove ora si conserva. Questo volume, segnato XIII. CI. 42, contiene in primo luogo,
come si legge nell'indice di mano moderna, che gli sta innanzi:
Elegia Paridis Stratae.... in laudem Colantonii Calai-di.
Tragedia del Giudizio Universale di Colantonio Galardo. (1584)
Canzonetta Spagnuola in decima runa con sua prefazione, d' incerto autore.
Con quest'ultimo titolo sono indicate talune decime contenute in un quaderno di 8 carte,
scritto, come pare, alla fine del XV secolo. Esse son precedute da una lettera dedicatoria
senza sottoscrizione, che comincia:
« Muy alta y L.'"" ex." »
« Los que mcresgieron en las tales causas escrevir de qualro virtudes deuen ser guarne-
cidos.... »
Seguono le strofe, le quali sono in lode della Duchessa di Ferrara e delle sue damigelle:
la prima comincia :
« Soys duquena tan Real
en f erara tan querida
qu el bueno i el comunal
de todos en general
soys amada soys temida.... »
Dopo di esse ho rinvenuto l'anonimo testo che do alla luce, sfuggito al compilatore del-
l'indice, o da lui confuso col precedente.
Molti altri scritti vengono in seguito, e primi fra essi una
Egloga di Nicola Bonifacio.
Il Fedro, ovvero il Dialogo detto Carrafe.sco composto dal N.'' Ovidio Dava di Miner-
vino (1576), etc. etc.
La maggior parte son cose del XVI secolo, ed ajipartengono ad autori pugliesi, in par-
ticolare di Bitouto e di Minervino, o hanno alti-imente rapporto con quei luoghi. Ma la
— 176 —
coesistenza dei due manoscritti spagniioli e delle dette scritture nello stesso volume io la
credo puramente fortuita. Forse non rimonta più in là della fine del secolo XVIII, quando
questa miscellanea fu rilegata e furonvi aggiunti il frontespizio, l'indice e nuovi numeri
alle carte.
Il nostro testo è racchiuso in un quaderno di 10 carte, che portano i numeri 132-141
della nuova numerazione. Il carattere in cui è scritto mi pare della prima metà del XVI se-
colo: appartiene a quel genere che gli Spagnuoli chiamano bastardo o italico. '^ Manca, forse
per lo smarrimento di una o più carte, sì il titolo del componimento e il nome dell'autore,
che qualunque altra indicazione di età o di provenienza.
A me occorreva sapere, ritrovato che ebbi questo testo e vistane l'importanza, se fosse
edito o noto almeno, prima di accingermi a darlo fuori. Senza aver jiotuto rintracciare, per
quanto mi fossi dato da fare , ' notizia alcuna di esso , non tardai ad accorgermi che nel fondo
questo piccolo dramma aveva molto di comune col celebrato Diàlogo entre el Amai- y un Viejo,
composto da Rodi-igo Cota alla fine del XV secolo. Il quale dialogo, pubblicato la prima
volta nel Cancionero general di Hernando del Castillo ^ {impreso en Valencia por Cristohal
Hoffman, aiio de 1511) fu ristampato in Medina del Campo l'anno 1569 col titolo: Dialogo
hecho por el famoso autor Rodrigo de Cota, el Tio,'' nattiral de Toledo, el cuoi compuso la
ègloga de Mingo Revulgo, etc. Da quest'ultima indicazione, ora non più ritenuta per vera, ■
il Moratin , nelle sue Origenes del Teatro Espaiiol, " dice che si può inferire esser vissuto
Rodrigo Cota sotto i re Giovanni II ed Enrico IV, essendo l'Egloga cosi detta di Mingo
Revulgo una satira contro il re Enrico, fatta da un contemporaneo. Il De la Barrerà può
affermare con sicurezza ciò che suppone il Moratin; ma fondato sopra un fatto diverso e
certissimo, cioè l'essere stato il Cota contemporaneo del poeta Anton de Monterò, che visse
realmente a tempo di quei sovrani, e scrisse contro di lui taluni versi.
Il detto dialogo di Rodrigo Cota è stato ristampato pure altre volte, cioè insieme alle
Coplas di Jorge Manrique in varie antiche edizioni; " separatamente in una edizione senza
data né luogo di stampa, citata da B. J. Gallardo; ' ma che apparisce fatta da J. A. de Pa-
dilla al principio del XVIII secolo; ed in fine delle due edizioni della Celestina, (1822-1835)
per cura di Leon Amarita. * Io intanto non ho potuto aver presente che il testo mancante di
circa una terza parte, quale si legge nella collezione di drammi anteriori a Lope de Vega,
che aggiunse il Moratin alla citata sua opera. Quindi m' è impedito di fare un' esposizione
parallela dei due testi, cioè del Cota e del mio Anonimo, per stabilirne i rapporti. Non mi
credo però dispensato dal dirne alcuna cosa, e comincio per mettere innanzi la quistione:
quale è il più antico dei due componimenti? Parrebbe, a piuma vista, il Dialogo; poiché figu-
' Veggasi il saggio a, facsimile , olie ne do in fine.
' Fra le opere che in primo luogo ho consultate citerò il Cafalocfo hiblloijrnjico /j hioffrafico del teatro nntigito
espaTtol (lesile sus ori(jenea haata mediado del siglo XVIII por D. Cayetano Alberto de la Barrerà y Leirado. Madrid
(Rivadencyra) 1860, in-4.
" De la Barrerà, op. oit. pag. 106. Il suddetto Canzoniere si è ristampato ultimamente a cura de' Bibliójìlos
EspaTioles.
' È detto eltio, ossia il vecchio, il seniore, per distinguerlo forse da un suo parente più giovano che portò
lo stesso nome. Il De la Barrerà lo chiama Rodrigo Cola, de Uagnaque, e dice che fu di razza israelita.
' Biblioteca de Autores EspaTioles, edita dal Rivadeiieyra, Tom. II, pag. 179.
" De la Barrerà, 1. e.
' Ensayo de una Biblioteca EapaHola de libros raros y curiosos, Madrid (Bivadeneyra) 1856. Tom. II, col. 016.
' Do la Barrerà , 1. e.
— 177 —
rando in esso solamente due personaggi, dovrebbe così avvicinarsi di più al Contrasto, che
apparisce nelle nostre letterature come la forma primitiva donde poi è derivato il dramma.
Come in tutte le letterature neolatine, abbondano nella spagnuola i Dialoghi e i Contrasti,
di cui parecchi, scritti nel XV secolo, e che precedono quindi di poco l'apparizione del
dramma, son citati dall' Amador de los Rios nella sua Historia Critica de la Literatuva
Espaùola. ' In alcuni di essi vediamo aggiunti ai due primi interlocutori altri personaggi, e
ciò veramente accade anche in tempi anteriori a quello, in cui fu scritto il Diàlogo entre el
Amor y un Viejo; sicché 1' esserci nel nostro dramma un terzo personaggio non sarebbe ima
ragione sufficiente onde accordare la precedenza al Diàlogo.
Ci sono altre ragioni invece , le quali farebbero supporre che dall' anonimo dramma sia
piuttosto derivato il Diàlogo. Di fatti in esso, quantunque non manchi l'azione, e tutto ciò
che costituisce un vero dramma fatto per essere rappresentato ; ^ quel che maggiormente pre-
domina è il Contrasto, eontienda, come l'Amore chiama due volte il lungo ragionamento fra
lui e il Vecchio : il che manifesterebbe una più immediata attinenza con le antiche forme. Ma
d'altra parte qui il Contrasto non ha nulla dell'aridità primitiva. I personaggi, mentre qui-
stionano sottilmente, spiegano un carattere tutto proprio ed hanno una particolare fisonomia
che li distingue; e ciò è indizio di un'arte già abbastanza provetta, della quale è pur segno
un certo che di compiuto che si avverte in tutto: nell'orditura e nello svolgimento della
favola, nella squisita venustà dei concetti e delle frasi, nell'espressione dei sentimenti la più
vivace e naturale , senza che vi s' incontri pur una bassezza.
Queste doti, o altre simiglianti, hanno attribuite i critici anche a quei primi saggi del
genio drammatico spagnuolo, che aprirono la via al vero dramma; e fra tutti è specialmente
ammirato e lodato il Diàlogo di Rodrigo Cota. Il Moratin ' dice che quel dialogo è una vera
rappresentazione drammatica, con azione, intreccio e svolgimento. Il Ticknor aggiunge che
esso senza dubbio preparò la via al dramma, cominciato più tardi col genere pastorale; e
nota la somiglianza d' un' Egloga di Juan del Encina col detto dialogo. L' Amador de los
Rios afferma ° che basterebbero solo i due dialoghi di Mingo Revulgo e dell' Amore e un
Vecchio , per scovrirci entro l' impronta caratteristica dell' ingegno spagnuolo nella rappre-
sentazione viva degli affetti e dei costumi, che trovano nell'arte drammatica il loro centro.
Eppure, di fronte al nostro ignorato testo quanto non risulta inferiore il Diàlogo del
Cota! Le accennate qualità, per quanto mi è dato giudicarne dalla mutila edizione del Moratin ,
si fanno in esso intravedere senza esplicarsi pienamente. L'azione è più rapida, vi è meno
disputa; ma lo scioglimento arriva non preparato; i caratteri non sono abbastanza determi-
nati; tutto divien vago e scolorito in quel dialogo quando si ponga a confronto con questa
vera e perfetta poesia drammatica che ci sta innanzi.
Tornando ora alla quistione circa la priorità dell' un testo o dell' altro : si può dopo ciò
che ho detto, risolverla? A me è sembrato di vedere, e l'ho manifestato, ragioni a favore
' Tom. VII. Madrid, 1865, pag. 481.
' I seguenti luoghi, e qualche altro, fan presupporre necessariamente gli spettatori:
« .... corno aveys visto aqui todos »
« .... pues delante vuestros ojos. »
(V. a pag. 188, col. 1 , str. 2 e col. 2 , str. 2. — V. ancora a pag. 182, col. 2, str. 2 e 3.)
" Op. e 1. cit.
' Hiatoire de la littératiire espagnole , traduite par .J.-G. Magnabal , avec les notes et additions de P. De Gayangos
et H. De Vedia 1«' Periodo. Paris (Durand) 1864, a pag. 241.
' Op. e voi. cit. pag. 482.
— 178 —
di entrambi: ritengo, per altro, senza saperlo precisamente dimostrare, che debba essere
più antico, ma non di molto, il Dialogo. Non di molto, perchè se esso fu scritto verso il 1470,
anche il nostro Anonimo dovette scrivere j^rima del 1500.
Il nostro manoscritto, che è una copia, come ho detto innanzi-, della prima metà del
XVI secolo, fu tratto certamente da un più antico esemplare, di cui il copista si studia se-
guii'e la grafia, che non è più quella del suo tempo. Una volta comincia a scrivere hom....
e poi cancella quelle lettere , e scrive onhres per essere fedele al suo originale. '
Per parte mia ho anch' io fedelmente esemplato il manoscritto eh' ho avuto presente ;
tranne l'aver separate le parole fra loro imite e avvicinate le sillabe divise, introdotto la
punteggiatura e gli accenti, reso costante l'uso degli altri segni ortografici. Di più mi son
permesso di emendare taluni luoghi del testo, che ho trovato errati, ed in tal caso ho se-
gnato in nota la lezione del manoscritto. Il copista corregge pur egli qualcuno degli sbagli
che commette per distrazione o fretta; ma altre volte mi pare ch'egli cada in errore anche
per imperizia neU' intendere i caratteri che trascrive. ^
Alfonso Miola.
' Questa data, ohe vien fissata dalMoratin. non può essere che approssimativa.
- V. a pag. 121, col. 1, ultimo verso.
" Per essere sicuro, prima di darlo alle stampe, che questo testo fosse veramente inedito, ne diedi notizia
all' illustre prof. D. Marcolino Menendez y Pelayo , della cui amicizia assai m' onoro ; chiedendogli se nulla no sa-
pesse. La risposta, teste arrivatami, è una conferma, e la più autorevole che ci possa essere, del risultato negativo
delle mie ricerche. 77e nicorrido, mi scrive il Menendez , nuestros niitiijuos Caiicioneros y imestras antigiins piezas dra-
mdticas sin encontrar rostro ni vestigio de la comitosicion que Vd. ha desmbierto.... Mis amitjos tampoco conocen el dialo-
go, y esto aumenta la importancia del desciibrimienlo de Vd....
/Oi-
l^fi-
'Tr.v.rl.cu^u., S^-^ ^t <x»...-MuUrcppfU-p
oT^mci^
'fa
(o Q f^oT n^iias ora y<7<z5
'bttffis
qu<zi lo <Sx)ntde.i a^^(<:S
fo alio': //^lias cIcK^i
' ■ *' tJi 7110S tna(<i5
IO (V <i atiqarìas
ìtmn-vio
y <xmac(ò
ll}i<i.n Q ^'^^ ^^itXfJii.-moS
Z oìnan fajjiiQrc/c /ordii ci
h Q.J cTlatiQ-no. ìiteir /^:t<
<z^ ari nuacfo tkyiTiléla.
<zr Ipv jjQjiofo rtiyeracio
(/<ZfijO cO!fisf>Q7<ie{o
y QnU-izkrìtsL J/hito-jiKz^ci
^oìamas ffoj^ coi? /fan fa
'\}n -momcTì/o ao.TiArìofo
J/fl-ryoT czjfo /^ ftQriTtS.
aindrr Jq hi pkzti /^ c^tfix.
at/a al-frn 711 Uy 7)7ns fx'ofo
clahi^ jpToiTTc/èfS hi^^»A%
iUnos ci* TZ Iterai y crrrtHS
nryvciy
— 179 —
INTERLOCUTORES SENEX ET AMOR MULIERQUE PULCRA FORMA.
S. \0 muudo, dime quién eros,
qué es lo que puedes, qué vales,
con qué nos lleuas, dò quieres,
siendo el fin de tus plazeres
principio de nuestros males!
^Qué es el 99110 con que enganas
nuestra mudablo aficion?
que con engaùosas maùas,
al tiempo que tu te ensanas
dexas preso el coracon.
l Con qué nos buelues y tratas ,
abaxas y fauoreces ?
l Con qué nos sueltas y atas ?
(^ Con qué nos sanas y matas ,
nos alegras y eutristeces ?
^ Qué.es el secreto ascondido,
tras quien todos nos perdemos ?
^Quiei-es, ' mtindo entristecido,
que haga ser cono9Ìdo '
el bien que de ti atendemos?
Es Tua esperan9a vana,
do jamas falta querella;
que quien la pierde la gana ,
y él que la tiene mas sana
està en miedo de perdella:
es vn penoso cuydado,
vna rrauia lastimei'a,
Ms. queres.
■ Ms. concido.
desco desesperado
en los huesos sepultado
y en la frente escrito fuera.
Do jamas no se consiente
"VTi momento de reposo;
y si por caso se siente
quien de tti bien se contente,
queda al fin muy mas quexoso;
que lo que mas alcau9amos
de tus promesas liuianas,
es que quando nos guardamos
sin pensarlo nos hallamos
llenos de rrugas y canas.
Estos son tus benefi9Ìos,
tus mas crecidas mercedes,
con que pagas los seruicios
de los que a olor de tus VÌ9Ì0S
van a caer en tus rredes:
y despues que con tus galas
has preso los que eran sueltos ,
con ligero batir de alas
comò anguilla te resualas,
y ellos se quedan rebueltos.
Yo hablo comò quien sabe
todas tus faltas y sobras:
he visto lo que en ti cabe;
y si quieres que te alabe,
muda condÌ9Ìon y obras,
— 180
que del bien tan prosperado
de que me heziste contento,
tus mudancas me an dexado
solamente està cayado,
con que mi vejez susteuto.
A. ^Quiéu sta en casa? S. ^,Quiéu llama?
A. Abre. S. ^Qmén eres? A. Amor.
S. i Qué qiiieres ? A. A tu vida y fama.
S. Va con dios que ya tu llama
no me causa mas dolor.
^No sabes que ha muchos anos
que de ti me hallo lexo?
por que tus dulces engaùos
me han fecho no meno danos
que el mundo de quien me quexo.
A. Desplazeme tu porfia,
no consiento tal oluido;
que no cabe en cortesia
desazer la compania,
despues que es el pan comido.
Y pues eres bien criado
no sigas villanos modos :
abreme, y despues a entrado
quexa el mal que te e causado ,
que jusiiicia ay para todos.
S. Conozco tu condicion,
sonme claras tus cautelas,
sé que centra tu pasion
la justicia y la rrazon
muchas vezes calan velas:
no me engaiìa el sobreescrito ,
110 tu ciencia, no tu arte;
avnque, comò los de Egito,
halagas el apetito
por Imrtar por otra parte.
A. Sin rrazon vsas comigo,
tratasme corno adversai'io;
y sabes bien que yo contigo
siempre vsé cosas de amigo,
sieudo en mi mano el contrario.
'Ya tu llamaste a mi piierta
quando estimauas mi gloria :
fuéte sin tardar abierta;
bien lo sabes, si no es muerta
con los anos la memoria.
jNo seas desgradecido, '
pon a tu sana algun freno!
y si estàs endurecido ,
mira que de onbre sabido
es seguir cousejo ajeno.
S. Quiero querer lo que quieres ,
por que des fin a tus quexos;
mas despues que dentro fueres,
por que conozco quien eres ,
saludame desde lexos.
Que corno, tocando, Mida
conuertia ' en oro luego ,
asi tu mano enyendida
quanto toca en està \T.da
haze conbertir en fuego.
Pues si a mi no as de llegar,
entra si entrar te plaze,
y sey breue en el hablar,
por que el mucho dilatar
es cosa que me desplaze.
A. Saluete Dios, buen senor,
biuas de Aestor los aùos
sin saber que sea dolor.
Publiquese tu loor
entre los pueblos straùos:
los daùos de senetud
y su cansacio te huya:
tórnete la jouentud
con mas perfeta virtud,
que quando mas era tuya.
' Ms. desffradecio.
'- Ms conuertida.
181
S. Falsa cara de alacrau,
cierto daùo que atormenta ,
ya sé bien corno se dan
las zarazas eii el pau,
por que el gusto no las sienta.
Estas bendi ciones tantas
no las quiero ^,claro babloy
por que con ellas encantas,
corno quien con cosas santas
quiere inuocar al diablo.
No te cale roncearme,
que soy viejo aoncliillado:
que tvi querrias remocarme,
para tornar a mancarme,
el camino traes errado;
por que es ' la pasion tan fiera
que causas, que quiero mas
beuir en està manera,
que debaxo tu bandera
la mejor vida que das.
A. Pues que me diste licencia
para entrar donde te veo,
con algo mas de pacientia
te plaga prestarme audientia;
por que sepas mi deseo.
Soy venido a consolarte
por mostrarte mi afficion,
no con gana de enojarte,
ma por que senti quexarte
del mundo no sin rrazon.
Y agora, segun pare9e,
sin justa causa mouido
tu furor se ensoberue9e
centra quien no lo merece,
poniendo el mundo en oluido :
quiero estar contigo a cuenta
si te plazera escucharme.
' Ms. por que la....
S. Desde alla haz que te sienta,
que tu allento me escalieuta
tanto que temo abrusarme.
A. Soy contento , pues te plaze :
quiero en todo obedecerte;
pero, si no te desplaze,
dime ^qué causa te haze
vltrajarme de tal suerte?
S. ^ Quieres que claro lo diga ?
A. Dilo sin ningun recelo.
S. No me muestres enemiga
por ningun mal que te sigua,
mostrando tu desconsuelo.
A. Stando quedas las manos,
poco temo de la lengua.
S. jO carcel de los hiimanos,
ya muestras por dichos llanos
no stimar honrra ni mengua!
Tii te abaxas, tu te enxalcas,
tu te alteras y te mudas,
tu con presunciones altas
pieusas encobrir tus faltas,
y dexaslas mas desnudas.
Eres vn fuego ascondido,
que las entranas abrasa:
eres tan entremetido,
que, sin ser mas conocido,
te azes seiìor de casa :
eres sabroso venino,"
àmago dulce y suaue,
fiebre, frio de contino,
piloto que sin mas tino
Ueua do quiere la naiie.
Es tu pena tanto fuerte,
que qualquier otra se oliaida:
atormentas de tal suerte.
— 182
que, siendo qiiieai es la muerte,
la hazes tornar por vida:
es tu Reyno vna galea,
do biue tan tristemente
quien mas seruir te desea,
que no ay onbre que lo crea,
sino el triste que lo siente.
Alli son los coracones,
galeotes de por fuerca,
rreman con las afficiones,
liiereslos con las pasiones
por poco que el rremo tuerta:
lo que deseclian los ojos
es lo que la boca gusta ;
cuytas, mudancas, antojos,
sospiros, 9elos y enojos
son la xar9Ìa desta fusta.
No bablo corno enemigo,
no con cautelas y artes:
de todo quanto aqui digo
tu presencia es buen testigo:
si se notan bien tus partes,
siendo moco, pobre y 9Ìego
^ qué es lo que de ti se espera ?
El bolar es tu sosiego,
llamas son de biuo fuego
lo que està en tu liujauera.
De los tuyos mas de dos,
por colorar tu locura,
te pusieron nonbre dios;
mas lo cierto es que entre nos
eres mortai desuentura:
que si fuesses quien te llamas,
dexarias de ser quien eres:
la lena para tus llamas
no serian vidas ni famas,
de quien sigue tus plazeres.
Asi que es la conclusion
que dire, avnque te enojes,
que, pues mata tu pasion,
ó mtides la condicion,
ó del nonbre te despojes.
A. (_ Y tan presto as acabado?
S. No ay acabo en tu tormento.
A. i Pues ? S. Dexolo de causado.
A. jDespues qiie me as desonrrado,
te falta, viejo, el allento!
No pienses con tus furores
quitarme desta contienda:
mas lo que me da dolores,
que entre tantos amadores
no ay vn ' que me defienda,
no ay quien responda ^ A quien digo?
Todos abaxays las cejas:
solo Dios me sea testigo
que a quien fuere mas mi amigo
cerare mas las orejas.
Con lagrimas y gemidos
en vuestras necessidades
suplicays ser socorridos;
mas cierranse los oydos
para mis aduersidades.
S. ^Quién a de tornar por ti,
siendo tirano tan diiroV
A. lA. quién! Quantos estan aqui.
S. i Y en esos pones a mi V
A. El primero. S. Yo lo dudo.
A. No dudaràs" quando vieres
los bienes que en mi se encierrau.
S. \ Ha ha ha! A. Oye, si quieres,
y veràs que mis plazeres
vuestros pesares destieran.
«S'. Gata, que a mucho te obligas.
A. ^ Qué diràs, si lo ago cierto?
S. Que, por mucho que me digas,
' Ms. vno.
' Ms. duras.
183
son tus obras enemigas
de plazer y de concierto.
A. Aora escuclia, por que veas
comò biues engaùado.
S. (^ Engaùado ! No lo creas.
A. No me turbes, si deseas
ser dello certificado.
Comienca del alto polo
basta el pentro del iufierno,
y veràs comò yo solo
a Jovie, Pluto y Apolo
mando, gonierno y rebueluo.
Destos particnlarmente
es mi enemiga contarte:
bàstete que el mas potente
he fecho ser mas obediente,
mas por fuerca que por arte.
Las aues libres del cielo
a mi mando son sujetas:
los peces andan en celo,
y sienten debaxo el yelo
las Uamas de mis saetas.
A los animales torno
fieros, que con mi centella
de mansedumbre los orno:
es testigo el vnicornio,
qual se vmilla a la donzella.
Las plantas inanimadas
tanpoco se me defìenden:
con tal fuerca estàn liguadas,
que sino estàn aparejadas '
ay algunas " que no prenden.
De los onbres y muieres;
pues eres tu deste cuento,
si coufesarlo quisieres,
bien diràs que mis plazeres
' /Sic = apai'eacla6.
' Ms. alguna.
sigue quien a sentimiento:
y tanbien por esperiencia
deues tener conocido,
que si alguno à mi potencia
quiere azer resistencia
aquel queda mas vencido.
Los que estan en religion,
y los que nel miindo biuen
de qualquiera condicion,
con deseo y aficion
en mi esperan y a mi siruen;
asi que bien me conviene
este nonbre dios de amor;
pues si el mundo plazer tiene
yo lo causo y de mi ■viene,
y sin mi todo es dolor.
Si no, dime sin pasiones,
ya acabo : ' no te alborotés :
,; quién haze las inuintiones,
las musioas y canciones,
los donayres y los motes,
las demandas y respuestas,
y las sontuosas salas?
^ las personas bien dispuestas ,
las justas y rricas fiestas ,
las bordaduras y galas V
^_ Quién los suaues olores,
los perfum.es, los azeytes,
y quién los dulces sabores,
las agradables colores,
los deKcados afeytes ?
l Quién las fìnas alconzillas , '
y las aguas estiladas ?
,; Quién las mudas y cerillas ?
^ Quién encubre las manziUas
en los gestos asentadas ?
Ms. acalo.
Ms. alconzilla.
184 —
Las fuercas de mis efetos
los defetos naturales
tornan en actos perfetos:
liazen de torpes discretos,
y de aiiaros liberales:
los couardes esforcados,
los soberuios miiy vmanos,
los glotones temperados, '
los inetos prouechados
y plazibles los tirauos.
En los viejos encogidos
resu9Ìto la virtud:
tornan linpios y polidos,
y en plazeres detenidos
les conseruo la salud:
causa proueclios sin cimento
que dezirlos seria afrenta.
S. Verdad es ; ^ mas el tormento ,
que traspasa el sentimiento,
no se escriue en està cuenta ?
Creo que auias oluidado "
que hablas con quien te entiende.
,; No sabes que yo e prouado
que es aziuar coufitado
lo que en tu tienda se vende?
0 no alcanca mi saber,
ó tu alabas gloria ajena;
pues en la tuya, a mi ver,
no ay momento de plazer
qua no cueste mas de pena.
A. Nunca muclio costò poco,
ni jamas lo bueno es caro:
mira bien lo que te toco;
que es sentencia , y no de loco ,
ser prepiado lo que es rraro:
todas las cosas criadas
tienen està condicion.
' Ms. temperarle.
que facilmente alcaucadas,
facilmente son dexadas
sin mirar' mas lo que son.
De la cosa mas compuesta
si el precio quieres saber,
veràs conforme respuesta:
tanto vale quanto onesta,
sea qualquiera sa valer;
pues siendo qual es mi gloria,
por que no venga en oluido,
no es justo que aya memoria
el que consiguie viteria
del mal por ella cofrido.
^, Has visto los que coubaten ?
Si veen ganaucia al ojo,
no temen que los maltraten,
y coren donde les maten
por codÌ9Ìa del despojo:
daquesta misma manera
es quien sigue mi querer;
por que el &i que en mi se espera
es tan dulce, que quienquiera
a el trabajo por plazer.
S. Puede ser que en tantos dias
ayas mudado costunbre;
mas quando tu me regias,
yo sé bien que ser solias
vna amarga seruidunbre.
A. Hallaràs gran difFeren9Ìa
de lo de eston9es agora,
y veràs por esperiencia
de gratitud y clementia
mi condicion se decora.
S. Pues si, comò dizes, eres
y tus obras son tan fieles,
ese arco con que hieres,
dime: ^para quo lo quieres?
A. Solo para los rebeles.
— 185 —
S. rt Y a los que leales fueroii ,
qné galardones les dan ?
A. Queridos comò qiierran
seràn, y mientra binieren
no sabràn qné sea pesar.
S. En el prometei" sin rrienda
he visto siempre tu lengua.
A. (_ Quieres desto alguna prenda"?
S. i Que al partir de la azienda
no recibas daiìo y mengua!
A. Yo sé bien lo que prometo,
y sé que podré gardarlo.
S. ; Mira que ande el juego neto!
A. Si quieres ser mi sujeto
comencaràs a prouarlo.
S. Temo de tu sujecion;
por que fuy en vn tiempo tuyo , '
y sé quàn contra rrazon
va la ley de tu pasion:
•mas ni por eso la buyo,
que avnque tu ley enemiga
de sosiego y de alegria,
es tan naturai y antigua ,
que es por fuerca que se sigua
si por as sino por tria.
A. i Luego ya quieres seguirme?
S. No sé si diga de si.
A. i Qué temes ? S. Que no eres firme.
A. i Con qué quieres que confirme
la promesa que te di?
S. Con la obra. A. So contento: '
dexame poner la mano
do tengo hazer asiento;
y veràste en vn momento
derecho, fresco, locano.
S. Dime primero en qué parte.'
' Ms, por que yafuy.,..
' Ms. memento^
A. Aqui sobre el cora9on.
S. He miedo no andes ' con arte,
por que siempre oy loarte
por vn famoso ladron :
y avn dire , sino te ensanas ,
que te comparan al rrayo;
por que con sotiles manas
nos arrancas las entranas
sin liora darnos eusayo.'
Pues, si me quieres tocar
para sin vida dexarme,
so color de me sanar,
mas me quiero enfermo star '
que no acabar de matarme.
A. Demasiadas porfias
vsas en està contienda:
proprio es de onbre de tus dias;
y pues de mi no te fias,
busca quien menos te ofenda.
S. ^ Como ! Y jiizgas a locura,
si el que espera acometer
sus bienes a la ventura ,
con diligen9Ìa procura
lo que puede suceder?
A. i No mas di ! No es escusado ,
y avn sellai de onbre ingrato:
siendo ya ^ertificado
del bien que està aparejado,
busca cince piés al gato.
S. Ya te entiendo , bien te ueo :
mi dolencia es tu salud:
satisfaz a tu^ desco ,
que azer cunple, segun creo,
de ne9esidat virtud:
pon ' la mano do dexiste:
toma posesion entera
' Ms. 0 andas.
'- Ms. el sano.
^ Ms, por.
186
desta casa que elegiste.
A. Dime: ^, agora quo sentiste ?
S. Vna llaga clulce y fiera,
Pena cierta incorregida,
vn sabor que al gusto plaze,
con que salud se oluida;
vn morir que ha nonbre vida,
deseo que me desplaze:
el plazer que agora siento
veesle aqui luego de mano.
A. iBiue alegre, està contento!
que si el principio es tormento,
medio y fin te sera llano.
S. Ya te he hecho sacrificio
de mi antigua libertad;
mi deseo es tu seruitio;
quanto al dar del beneficio
cunplase tu voluntad.
A. Endreca tu persona ,
coupon tu Gabello y gesto,
tus vestiduras adorna;
que, avnque jouentud no torna,
plaze el viejo bien dispuesto. '
S. Ya que estoy atauiado,
dime: ^ qué quieres hazer?
A. Quiero te azer namorado,
y el mas bien auenturado
que jamas pensaste ser.
*S'. Querria que me mirases
todo todo en deredor,
y si ay mal que le emendases.
A. Si 9Ìnquenta aùos dexases
no podrias estar mejor.
Mas tal es mi propiedad,
que do quiera que yo llego
no ay respeto a autoridad,
' Ms. riaze el bien el vicjo disjmes.
a linaje, ni a edad:
por eso me pintau ciego.
S. Hora pues ^ quando querràs
meterme en està conquista?
A. Buelue el ojo aqui de tras,
qtie soy cierto que veràs
cosa jamas por ti vista.
Mas no te mudes, ni alter es,
que es cosa de onbre indiscreto:
di pues por seruir la miijeres,
quando con ella fueres,
que te acete por sujeto.
*Si. (, Y tu no estaràs eomigo ?
A. No. S. iPor que? ^1. Por ' que yo quiero
que tengas solo contigo
el secreto, buen testigo
del amor que es verdadero :
Mas aqui, tras està pnerta,
estaré donde te sienta
con oreja bien dispuesta:
tu, despues de echa tu of'erta,
con ser suyo te contenta.
jOye, oye! antes que vayas:
por evitar ' desconcierto,
cata que, por mal que ayas,
nunca muestres que desmayas
de ser suyo bino y muerto.
S. \0 diuinal hermosura,
ante quien el mundo es feo ,
ymagen, cuya pintura
pintó Dios a su figura,
yo te veo , y no lo creo !
Tales dos contrarios siento
en contenplar tu e9elen9Ìa;
que entre plazer y tormento
detenido el sentimiento
no conozco tu presen9Ìa.
' Ms. j^fo.
' Ms. avitar.
— 187 —
; Descanso de mi memoria,
de mi cuydado Consuelo,
de mis plazeres istoria,
causa de toda mi gloria,
sefiora de mi, en el suelo
suplicote! pues mi suerte,
por hazer mi pena cierta,
piiso en ti mi vida y muerte ,
que tu virtud desconcierte '
lo que en mi mas se congierta.
i Cousieuta tu merecer ,
no por rruego ' conpeUda,
mas por solo tu valer,
que te sima mi querer
mientra durare està vida!
y si me culpas, por que
en pedir merced excedo,
rrazon tienes, bien lo sé;
mas tu virtud y mi fé
me ponen nueuo deuuedo.
j 0 aiìos mal enpleados,
o vejez ' mal conocida,
o pensamientos danados,
o deseos mal hallados,
o verguen9a bien perdida!
M. Uiue en seso, viejo, en dias
que te espera el cementerio:
dexate destas pórfias;
pues con mas razon debrias
meterte en \Ta mouesterio.
jMira, mira tu cabeca
que es ' vn recuesto ueiiado!
Mirate pieca por pieca;
y si el juzgar no eutropieca ,
hallaràste '' enbalsamado.
' Ms. desconcierta.
- Ms. rrugo.
" Ms. vezes.
' Ms. pues.
° Ms. hallarteas.
(, No vees la freute arugada,
y los ojos a la sonbra?
^ La mexilla descarnada,
la nariz luenga afilada,
y la boca que me asonbra ?
l, Y esos dientes carcomidos '
que ya no puedes mouerlos,
con los labrios bien fronzidos
y los onbros tan saUdos,
a quién no espanta en verlos ?
Y en te , caduco cimiento ,
do fuerca ninguna mora,
^, no te trae al pensamiento
que deuieras ser contento
con tener de vida vn ora?
i 0 viejo descon9ertado !
^no ves que es cosa escusada,
presumir de enamorado;
pues quando estàs mas penado
te viena el dolor de hijada ?
Torna, torna en tu sentido,
que can9as ya de viejo;
y este mal sobreveuido
podràs poner en oluido,
siguiendo mejor consejo.
S. Pues que tu beldad me daùa,
tu piedat , senora , inuoco :
i eese contra mi tu sana,
no te muestres tau estraiìa!
M. ; Tirate alla , viejo loco !
S. ;A! ^nno sabes qUe soy tuyo?
M. Mio no, mas de la tierra.
S. Tuyo, digo, y no te huyo.
M. Presto veràs que eres suyo,
si mi juyzio no yerra.
i No toques, viejo, mis paiìos!
Ms. caramìdos.
Dexame, que estoy nojada;
que si estouieses mil anos
quexando siempre tus danos,
annca me verias mudada.
S. Yo tengo mi merecido,
y es en mi bien enpleado ;
pues, estando ya guarido,
quise tornar al rruydo ,
do me aviau de escalabrado.
Este es pago verdàdero,
que suelen aver los tristes
sometidos ' a quel fiero,
crudo, falso, lisonjero,
ciego y pobre que aqui vistes:
aquel que, por enganarme,
vsó tan diversos" modos,
que sin " poder remediarme
fué forcado sojuzgarme ,
comò aveys visto aqui todos.
Cuyas promesas juradas,
causa de mi perdimiento,
muy mas presto son mudadas
que las hojas meneadas,
quando corre rezio viento. '
Bien estaua en mi sentir
quando no queria abrir,
aunque " viejo porfiado :
mas ^quién puede resistir
al furor de aquel malnado,
Que conpuesto en falso afeyte
no entra sin enbaraco?
Y asi cunde su deleyte,
que comò mancha de azeyte
no sale sin el pedaco:
' Ms. sometido.
' Ms. diuefso.
' Ma. ai.
' Ms. rezo vieniento.
' Ms. auque.
y pues vedes comò abrasa,
huid desa compaùia;
que , vna vez entrada ' en casa ,
no se amortigua su brasa
basta dexalla vazia.
Huid de sus ciertos enojos,
apartaos de sus desdenes; '
pues delante vuestros ojos
aveys visto los abrojos,
que se cojen con sus bienes
castiga en cabeca ajena;
pues mi tormento os amuestra
a salir desta cadeua:
y sin OS dude mi pena
esperad ^ y vereys la vuestra.
VXLLANgiCO.
Quien de amor mas se confia
menos tenga de esperanca;
pues su fé toda es mudanca.
No deuen ser estimadas
sus promessas infinitas,
que en el agua son escritas
y con el viento selladas:
facilmente son tratadas
y el biuir queda en balan9a.
Es su gloria mas entera
engaiìar nuestro apetito,
y so falso sobrescrito
poner pena verdadera;
por que necessario muera
quien de su fé mas alcanca.
Su enganosa condi^ion
en ausen9Ìa da denuedo,
' Ms. entra.
■ Ms. deade'nes.
' Ms. esperà.
189
y en presensia pone miedo,
por que cresca la pasiou :
su mas cierto galardon
es perder la confianca.
Muy mayor es el cnydado
que el plazer que da su gloria,
pues descausa la memoria
qiiando piensa en el pasado;
comò quien de mar turbado
se siente puesto en balan^a.
Pues vemos ' corno ofende
su gloria quando es mas llena,
liuyamos desta serena,
que con el canto nos prende:
cuyo engano si se en9Ìende
poco a poco ha tal pujanca,
que nos trae en mal andanca;
Pues su fé toda es mudauca.
EINIGE DICHTUNGEN LIONAEDO GIUSTINIANI'S.
Geme bin ioli der Einladung dar Freunde und Collegen des verstorbenen
Prof. N. Caix gefolgt, fiir den Band, der dem Gedàchtniss des Dahingeschiedenen
gewidmet werden soli, einen Beitrag zu lieferii. Herr Prof. Caix ist mir wàhrend
meines Aufeiithaltes in Florenz im Sommer 1881 ein treuer Berather meiner Studien
gewesen. Auf seine Anregnng habe ich eine Ausgabe des Tesoretto nnd FavoleUo
unternommen, er hat mieli auf die Bearbeitung der Lieder Giustiniani's hingewie-
sen. Die Nachrichfc von seinem Tode, welche mieli imerwartet traf, riihrte mich
seKr; sein Andeiiken wird bei mir ein bleibendes sein.
Diese kleine Arbeit bringt einige weitere Notizen ilber die Gedichte Lionardo
Giustiniani's und am Scliluss einige Texte aus dem cod. mare. CV. ci. IX it.
sec. XV. (M). '
Kurz naclidem meine Ausgabe der im cod. pai. E. 5. 7. 47. entlialteuen Lieder
erschienen war, ' kam in der Biblioteca di Letteratura Popolare Italiana im 2. Bd.
duroli S. Morpiirgo ein venez. msc. mit « Canzonette e Strambotti » zum Abdruck.
Morpurgo hat mit Eeclit ftìr dieselben die Autorschaft Giustiniani's geltend
gemacht. Die Canzonetten finden sicli sammtlicli in dem cod. pai. wieder ; Morpurgo
konnte dies nur von 12 nacliweisen , weil er nur die Anfànge der im cod. pai. voU-
standia; erbalteuen Lieder kanute. '
' Urspriinglich liatto icli noch die in der Neuzeifc imedierten Lieder aus den Druoken mit Bemerbungen hin-
zugefiigt; da die Arbeit aber zu lang war, liess ich dieselben weg und werde sie gelegentlioh an andi'er SteUe
veroffentlichen.
■ Als Dispensa CXCTII der 8cdta Di Curiosità Letterarie Inedite oRare Dal Secolo XIII Al XVII, Bologna, Ro-
magnoli. 1883.
" Die Inhaltsangaben des cod. pai., des Druckes und des ood. ricc, welohe, von Herrn Vittorio Fiorini
verfertigt, in einem Anhaug zu Morpui'go's Einleitung (pag. 10 ff.) stehen, sind sehr ungenau. Der cod. pai. entliàlt
jetzt noch 81 (nach Fiorini's Rechnung 82) , nicht 79 G-edichte. Das von mir unter VI piiblicierte Gediclit zerlegt
F. in zwei Gedichte. Es isfc das ganze ein Contrast zwischen amante und madonna, wie es deren so viele giebt.
AUerdings beginnt die Rode des Amante mit eiuer neuen Ripresa, sodass wir formell zwei Balladen haben. Vom
Schreiber ist nicht die mindeste Liicke oder ein Raum fiir eine Majuskel gelassen, welclio letztere F. vermisst.
Sonst steht im cod. stets am Anfang jedes ganz erhaltenen Gedichtes eine Majuskel und an seinem Schluss:
— 192 —
Ich stelle die ZifFeru zusammeu, unter denen sicli das gleiche Gedicht in den
beiden Ausgaben (S. und W.) befindet.
S. I = W. IV S. X = W. XLIX
S. II = W. LIX S. XI = W. XVII
s. ni = w. Lvm s. xiii^w. xxxi
S. IV = W. XV S. XIV = W. XLII
S. V = W. LVII S. XV = W. XIV
S. VI = W. LIV S. XVn = "W. XLV
s. VII (XVI) = w. I s. xvm = w. Lxxvn
S. vili = W. XLIII S. XX = W. VII
S. IX = W. XXIII S. XXI = W. XVIII
S. V liefert den Schluss zu \V. LVII, der im cod. pai. feklt, und S. VI den
Anfang zu "W. LIV; S. VI endet jedoch schon mit W. v. 88, làsst es also
iinvollendet.
Als Beweis der Volksthumliclikeit der Lieder Giustiniani's ftìhrt Morpurgo
an, dass einige von ihnen in Lauden parodierfc und nacli der Melodie anderer
Lauden gesungen wurden. Auf letztere Tatsache kabe icli gleiclifalls liingedeutet
und gebe hier noch einige Nachweise.
Das Lied W. XVIII (S. XXI): « Piango^ meschino, l' asjiem mia fortuita, » ist
\àelleiclit parodiert in der Lauda, die sick im Druck Venedig 1474 als die 48te
findet und beginnt:
Piango misp.hino 1' aspra passione
de yesu xpo figliol de maria.
und ebenso W. LXIX:
O Qoueneta bella
piena de zentilezza.
in der Lauda im Druck Venedig 148.3 :
" Verzeneta bella
Piena de oaritade.
lek habe mir nur die je zwei ersten Verse der Lauden notiert, und kann meine
Vermutkung daher nicbt welter verfolgen. Das Ged. W. LIX ist in den Lauden-
Finis, iind ist vor Begìnn jedes neuen Gedichtes ein Spatium gelassen; dies Lied wiirde die einzige Ausnalime
machen. Kach 15 seiiier Zahlung iibersielit F. das Fehien des Fol. 41 und damit die von mir unter XV publicierte
Ballata. So kommen vvir in der Ztihlung wieder iiberein bis 67. Hinter 67 ist das Fehien des Fol. 172 nicht bemerkt
nnd das von mir unter LXVIII edierte Fragment als Scliluss von 67 angesehen. Endlicli ist nach LXXV (Fiorini 74)
das Fehien des Fol. 192 iibersehen und daher das boi mir unter LXXVI herausgegebene Fragment unbemerkt
geblieben. Im ood. rico. 1001 steht das von Fiorini unter 7 erwiihnte Gedicht (es ist nur ein Fragment von 15 vv.)
anonym (of. meine Anmerkung zu LXXV pag. iillO). Es folgt im ood. dem unter 6 (W XIV) auCgefiihrten Gedicht
mit Spatium fùr eine Ubersohrift. Kndiicli enthiilt der Druck 30 (nicht bloss 29) Gediohte. Das von Fiorini unter 28
citierto Lied enthalt nur 9 vv; am Schluss fehlt allerdings das • Finis, > dooh mit dem Vers: Rosa mia gintile >
(nach V. 9) beginnt das W. XXVII publicierte Gedicht. Ganz abgesehen davon , dass die voraufgegangenen 9 Verse
im Vorsmass gar nicht zu dem Folgenden passeu, zoigt schon das Fehien der Majuskel (O) in dem Druck, dass
hier ein neues Lied beginnt.
— 193 —
sammlungen von 1480, 1485 und 1512 erwàhnt. Das Gedicht W. XLV ist im cod.
corsili. Col. 43. C. 33, der ^us dem 15. Jhd. ist und Lauden enthàlt, erwàh.nt. Es
steht daselbst: « Echantasi ahnodo chinò a prounto amore. » In dem Druck und in dem
von Morpurgo edierten cod. (S. XVII) beginnt di© Canzonette mit zwei Stroplien,
die im cod. pai. fehlen. Die Erwahnung in dem cod. corsin. scheint den Beweis zu
liefeni, dass diese zwei Stroplien erst spater hinzugefiigt sind und vielleiokt
urspriinglich zu einem anderen Gediclite geliorten. Im cod. cors. sind von den in
meiner Ausgabe bereits als in Laudensammlungen vorkommend nachgewiesenen
Anfàngen folgende gleiclifalls erwahut: W.' n, TV, XV, XXVII, XLIII, LVIII,
LXXV.
Ich habe bei dieser Ausgabe iusoferu ein anderes Verfahren als bei der des
cod. pai. eingeschlagen, als ich die Verse auf das riclitige Mass gebracht habe.
Der erwahnte cod. mare, ist zuerst in dem Aufsatz D' Ancona s im Giornale di
fi. rom. Il 179 ff. erwàhnt. Es enthtìlt die reichhaltige Gedichtsammlung dieses
cod. 5 Gedichte mit der Ùberschrift. D. L. I. = Di Lionardo Justiniani. Es sind
dies die unter I und II publicierten Gedichte; ferner das Gedicht W. LVIII '
{Io aedo ben eh' amore è traditore) , welches auch E, und die Drucke unter Giustiniani's
Namen haben (cf. auch Morpurgo pag. 5 oben).
M hat nach v. 181 acht Verse, die nicht in P stehen, dieselbeu, welche die
Drucke haben mit Ausnahme des ersten Verses (cf. in meiner Ausgabe pag. 303).
Ferner in M mit der tjberschrift D. L. I. das Gedicht W. LXI {Ay me meschino, ay
me, che dizo fare?) fur welches nodi kein Beweis fiir die Autorschaft Giustiniani's
beigebracht war. Nach W. LXI 120 schiebt M folgende vier Verse ein:
Meglio seria per me certo , di' io more ,
ma per non far più grani i suo' lamenti,
meglio è, eh' io uiua e stenti
e siecho pianga il suo nouelo affano.
Die Stroplie 157-160 ist in P dem Metrum nach verdorbeu; in M lautet sie
richtig :
Hio uoglio , per mio amor, che '1 cor tu piegi
a tuor dal tuo dolor rimedio e pace;
uedi, oh' el si disface
la tua tenera uita in ste tristece.
V. 160 fehlt in M natiirlich. Endlich W. LXVIII, fur welches wir also die Autor-
schaft Giustiniani's und den Anfang des Liedes erfahren; diesen publiciere ich
unter III. Der Schluss stimmt mit P, abgesehen von Lesartvarianten.
' In meiner Ausgabe ist unter XV, XXXI, XLIX, LVIII, LXXV in den Anmerlcungen die .Tahreszahl 1512
stati 1510 zu lesen und XXXI einmal 1512 statt 1501.
' Ich selle davon ab, die Varianten zwisolien P \md il/ mitznteilen , docb bedeutendere Abweichungen fuhre
ich auf und gebe die Vervollstandigungen , welche die Ausgabe von P durcb M erfahren kann.
— 194 —
Auonym stelit iu M: W. LXXI. Statt v. 54-5G hat M folgende Verse, welche
aneli vollig lùneinpassen :
qual porti belo hornato di chostumi,
quei chiari e uiui lumi
anoi due stelle o un sol, che si riluce.
Tu sei mia dea, mia ninpha e sola luce
a st' alma e al tristo chor, che amando sjiera;
la tua legiadra ciera
mi tie sugieto a amor sempre sperando.
Am Schhiss hat M (nach v. 68) deu Vers: « Posache di me solla regina sei, » der
vielleiclifc dahin gehort. Ferner anonyxa in M: W. LXXII, welches Lied, abgeseheu
von Lesartvarianten , in der Anordnnng und Verszahl mit dem in P stimmt.
Endlich W. LXXIV, mit dem es sich genau so verhàlt. Das Gedich.t W. LXVII ist
in M ilberschrieben. « D. Jacohus sanguinacius. » Es ist in P Fragment, wir erfahren
also den Scliluss; doch die Fassung in M ist wesentlich von der in P abweicheud;
ich. gebe daher das Gediclit unter IV gauz nach M. In den Stùcken lòst die
Cursivschrift die Abre-\daturen des cod. auf.
Rostock vM. Aìif/iist J883.
Berthold Wiese.
I. — (Cod. M. Fol. 29 V.)
D. L. I.
V_^He debio più sperar al mio languire?
amor, che uer me regni ogni dureza,
doue è tua zentileza,
poiché chonsenti di farmi morire?
Omè fatiche , aimè fidel seruire ,
o uan pensier, chi spera in tua mercede!
ahi ohi chon le tue rede
tu allacci, eh' el non pò giamai fugire!
Amanti, che uedete el mio languire,
fugite amor, che si pò dir amaro ,
e fate hogni riparo
a sue perchosse tanto accerbe e dure.
Fateui intorno al cor le forte mure
e non credete a sue luxingo blande,
sichome di fuor spande
I. V. 7 hi chi.
nel proprio guardo, che par tanto humile.
Che , se prouate sue mortai fauile ,
mai non sperate auer alchun chonforto ,
dapoi che a tanto torto
mi sforzai sempre amar honestamente.
O mixer me, ho specchio a tuta gicnte,
in chui ueder si pò ciò che pò amore !
e ciaschun gientil chore
pianga chon mecho il mio tempo perduto ,
E quel che per amor ho sostenuto ,
uedendomi a tal modo meritato ,
dolente e suenturato ,
che per mia pace sempre ebi tormento.
Ciascun mirate il mio grane lamento,
prima che tal desio u' entri nel chore,
che mai da nesun' ore
ebbi piacer per mia fiera fortuna.
O cieli, o terra, o stele, o sol, ho luna,
chome assentite a tante crudeltade,
eh' ol non uenga pietade
a chui del uiuer mio è gran chaxone ?
Aimo crudel , ho false openionc ,
o miseri mortai, in che sperate,
che chussl chonsumate
— 195 —
nostre speranze, non chogliendo il fruoto ?
Et hio , ohe innanci non ho chonosuto
pcj" tropo fede il mio misero fino,
mille pongiente spine
mi passa il pecto , e sempre grido , omei !
Pietà uenga a ciasohun di suspir mei,
poich' i' o pfrduta ogni dolce faticha,
che mia giouenil spicha
ho chonsumata in accerbo doloro.
E non posso ritrarmi de sto ardore ,
onde me stesso strinsi chetai nodo,
che mai per alchun modo
altri che morte soluer noi potria.
Ma pur per ben seruir si doueria
uolzer i sasi e uolzer oiaschun monte,
uedendo tanta fonte
di lacrime , eh' io spargo e giusti priegi.
E tu, non so per qual chagion deniegi
la gratia tua a chui chotanto t' ama ,
che in sì ardente fiama
lasi fenir suo ulta, aimè, crudele!
Non sa' tu ben, s' io ti son sta fìdele?
non sa' tu quanto hio t' ò anchor riuerita,
et se sempre scorpita
nel clior m' e stata tua zcntil figui-aV
O mondo ciecho , o mia disauentura ,
ho destinato giorno quando nacqui,
dapo' eh' io sempre spiacqui
a chui per ben seruir noi pur eh' io mora.
Almen mi fosti stata una sol hora
chon tuo guardo gientil un poche pia,
acciò che in ulta mia
da te auesse auuto qualche gratia.
Ma uedo ben che ancor tu non sei satia
di creser penne a me iìdel semente
et non ti churi niente
de mei amari e lacrimoxi uersi.
Ho , foss' io morto quando gli oclii apersi
per risguardar le tue tante ballece
e polite factece ,
che, quanto penso più, mi creso pejma.
Certo hio non ò polso, neruo ne uena,
per ogni modo eh' io non abi onfexo ;
ben so, eh' io son inteso,
siche per me oiaschun fuza tal uarclio.
Non ui sottometeti a tanto charcho
per uoler adimpir nostro dixio ,
mirate il dolor mio
e la mia grane doglia e grani affani.
Vedete chome ho perso i giorni e gli anni
sul nobel fior dela mia uerde etade,
e la mia libertado
ho data a chui di me giamai non chura.
O morte, perchè sei chotanto dura
chontra chui del bon chor chotanto t' ama?
e chui il uiuer brama,
tu gli uà' seguitando in hogni lato ?
V. 81 Per certo hio.
V. 90 fiore.
De, uiejnii ornai, per dio, fami boato,
po' oh' io dexio il tuo pongiente strale,
eh' assai mi fia raen male
morir oh' esser al mondo sconsolato.
FINIS.
II. — (Cod. M. Fol. 51 r.)
D. L. I.
o
Misera mia uita , ho cor mio afflicto ,
ho alma sconsolata in .tanti guai ,
aimè, non criti mai
esser topin d' amor ehusi tradito.
O traditor amor, sia maledite
el giorno , che porgiesti agli echi mei
la domna , eh' io uorei
non auer uista mai per più mia pace !
El cor si strugie e 1' alma si disface ,
non trouo alchun rimedio al mio penare;
ognor chon lacrimare
non biastomando amor e rea fortuna.
Biastemo el ciel, le stele, el sol, la luna,
biastemo ogni pianeto e '1 mondo tuto ;
biastemo afflicto e struto
il tempo perso e '1 mio uanno soruire.
Aimè, por biastemar né maledire
non trouo alchun chonforto al tristo pecto ;
perduto ho il mio dilecto ,
perduta ho la mia dea e '1 mio sol bene!
E tu , rezina mia, di sto mie penne
se' la chagion, colandomi il bel uixo;
tu sei mio paradiso,
per dio, non mi fuzir , non far oh' io mora !
Tu m' ai bandito , tu m' ai posto fora
dil tuo perfeoto amor dolce e suaue,
questa è la doglia graue ,
che mi chonsuma e strugie in graui affanni.
A ! mei dolci pensier uedo esser uanni ,
le mie dolce fatiche alfin perdute ,
et le sperance tute
manchate, meschinel, chon gran dolore!
Vedomi amor nemicho e traditore,
uedome il ciel chontrario et ogni stela,
e tu se' solla quela
che stata sei chagion di tanto errore.
Hio moro e me disfazo per tuo amore ,
Tu non ti chure e lasime morire ;
aimè non chonsentire ,
V. 100 che uiuer.
II. V. 5 maledeto.
196 —
porgi qualche souegno al tuo fìdele !
Pensa quel che ti gioua esser crudele
uer me , che t' amo in doloroxe stente !
non so , chome chonsente
1' abisso, che non s' apre a far uendeta!
Aimè , chome esser pò , che una augioleta
ahi sì duro il chor, sì accerbo e fiero!
aimè, eh' io mi dispiero,
e mille uolte il dì chiedo la morte !
Credo, che '1 ciel ti fece per mia sorte
legiadra, pelegrina, onesta e bela,
umile in tua fauela
e negli efecti poi superba e fiera.
Tu par suaue e dolce in tua maniera ,
benigna nel bel guardo, humil e piano,
e questo fu 1' ingano ,
che mi chonduse al' amoroxo lazo.
E poiché per tuo amor m' ardo e disfazo ,
per dio, succhori a st' alma topinela;
tu non serai men bela,
né men d' ouor seràti esser chortese.
Quanto hio t' amo , pur tul sai palese ;
uo' tu, che tanto amor mio sia perduto?
uo' tu, eh' io mora al tuto?
uoglio morir per te pur s' el ti piace.
O tu mi cecidi , o tu dij qualche pace ;
chonforti il tristo chor di doglia pieno ;
fami sta gratia almenno ,
poscia che '1 mio sperar uedo falare !
FINIS.
III. — (W. LXVIII)
i>'XOro d' amore, aimè laso, eh' io moro!
duo begli ochi gentil sì me disface ;
altro più non mi piace ,
se non el mio dolce et charo tesoro.
Altro non amo , altro più non adoro ,
ogn' altra dona amor m' à posto in bando ;
hio me nutricho ardando ,
struzom' e godo uiuo in dolce fiaxmia.
Duo begli ochi gentU 1' alma me 'nfiamma,
anci due stele chiare più che '1 giorno,
et un bel uis' adorno
che di bellece auanza ogn' altro uolto.
O belece gientil, che '1 cor m' à tolto,
o solla dona senija alchun diffecto ,
V. 40 suegno.
V. 60 me.
III. V. 14 senca.
o seno , o intelecto ,
parole dolce e modi acchorti e beli!
Non nidi d' oro mai più bei chapeli ;
o fronte, o naso, o bocha, o lapri rossi,
credo ben , che uuj fosi
facti SI adorni per farmi languire ! i
Aier benigno più eh' io non so dire,
achorto guardo , angielicha maniera ,
donesoha e lieta ciera
da far sentir d' amor le pietre e i sasi !
Or sapi ben, or sapi, che tu pasi i
quante done legiadre eii soto il solle;
uiue rose e uioUe ,
bianchi e uermigli son li tuo cholori.
Eiso suaue, uolto jnen di fiori,
chandida gola , o pecto , oue i-iposa '•
quel' una e 1" altra rosa,
le qual porti nel tuo bel senno ascose.
Spale legiadre, o membra si formose,
o brace , o man gientU, che mi disfanno ,
sia benedeto 1' anno
e '1 mese e '1 giorno eh' io m' inamorai!
Adorne ueste più non nidi mai
tanto pulite al suo legiadro dosso;
aimè, che dir non posso
de mille parte una di quel eh' io credo.
e 1' altre tuo belece , eh' io non uedo,
che son choperte chon la bela uesta;
ho dio, chon quanta festa (W. LXVIII v. 1.)
di quele penso, beuch' io non le ueda!
JN. — (W. Jaxni)
D. .Tacobns sanguinaeius.
Ui
' Euuta è 1' ora e '1 dispietato ponto
che partir mi chonuien chontra mia uoglia,
chon tanta amara doglia,
che di mia ulta ormai più non fo chonto.
Ma poiché la fortuna m' à chongionto
a tal partito uenenoso assai,
che poss' io far ormai,
se non riohomandarmi al signor mio ?
O mondo senza fede, falso e rio, (TF. v. 15.)
chome esser pò eh' io degia dipartirmi
da chui sentia nutrirmi
chon un sol guardo e chon un dolce riso ?
Come esser pò che da quel chiaro uiso
hio degia lontanarmi, ai meschinelo?
V. 29 suaue ohol.
V. 41 L' altre bolece tuo.
IV. V. 6 a si duro.
— 197 —
questo piacer si bello 15
chome esser pò eh' io degia abandonarlo?
Aimè, che in uanno mi lamento e parlo,
che quel che uol fortuna esser chonuienne ;
falita è la mia spenne ,
chussl hor faliscon tuti i pensior mei. 20
Priegoti adonque per li sacri dei ,
tu, che sei mia regina e mio signore,
che sempre nel tuo chore
ti stia il mio nome et la mia pura fede.
Piangiendo i' me ne uon cliomo si uede , 25
e r alma mia riman nelle tue force.
de, fa, che non si asmorce
per tua chagion la nostra dolce fiama!
Vedi , eh' altra cha te mio chor non chiama;
te solla piangie e d' altra non fa chura ; 30
tu sei quela figura ,
che sempre alberga in mezo del mio pecto.
De, fa, madona, che '1 tuo bon sugieto
non sia per altri amanti abandonato ,
acciò che disperato 35
non ardi sempre nel focho eternalle !
Et se pur far uolesti tanto malie,
priega Neptuno e gli chontrarij uenti ,
che chon mortai tormenti
guide mia naue a più teribil scoglio. 40
Ohe questo mi seria menor chordoglio
cha s' io uedesse d' auerti perduta;
però che anchor pentuta
seresti auer chomisso tanto fallo.
Ma se tu pensi quanto buon uassallo 45
hio ti son stato e serò sempre mai,
certo tu non uorai
priuarmi sì aspramente di sta ulta.
E benché da te i'fazi tal partita,
V. 32 nel.
V. 42 allerti.
tu sai quel che mi sforza e mi chondajina. 50
ma so '1 ciel non m' ingajina,
tu solla sei che mi poi far tornare.
Ond' io ti uoglio, cliar signor, pregare,
che chon tuo dolce e angieliche parole
tu priegi r alto solle , 55
che gir mi faci e '1 mio tornar sichuro.
Dapoi per la tua luce ti scongiuro ,
che '1 mio chore , che tieni in tua balia,
ricomandato sia
ad la tua excelsa et alta gientileza. 60
Hio ti scongiuro per tua gran belleza
che di me ti richordi qualche uolta,
però che mai distolta
non fia da me la so«tma tua uirtute.
Dio sa che mai non sporo chon salute 65
posser tornar dalla tua legiadria,
ma sempre oue mi sia
arò in bocha il tuo gratioxo nome. {W. v. 60)
I tuo begli ochi e le adornate chionìme
mi staran sempre fiti nella mente , 70
e chome bon seruente
mi sforcerò di farti sempre honore.
A dio ti lasso donque, char signore ,
che tiecho più non posso far dimora ;
questo partir m' aohora , 75
ma chussl uà, chui uiue jn seruitute.
Aimè , che le mie rime ormai son mute ,
ne dir pon altro se non slatti a dio !
lassoui il spirto mio ,
e uomene , piangiendo il partir mio. 80
FINIS.
V. 53 charo (e/, char v. 73).
V. 61 la tua gran belleza.
V, 69 hornate; die urspriingliche Lesart wird, wie
P hot, deaurate seiv.
ETIMOLOGIE SAUDE."
« AssKLENAKE V. n. log. mitigare, diminuire. Lat. Serenus, cangiato r in l. »
Nulla di più comune ohe r mutato in l; ciò non di meno dubito assai di questa eti-
mologia, e non ne dubito tanto per la modificazione del significato, che non
avrebbe nulla di troppo forte, quanto perchè il latino somministra un aggettivo
più acconcio al senso àìasselenare; e questo è lenis. Insieme con asselenare lo Spano re-
gistra pure un equivalente assulenare. Ora egli è chiaro che questi due verbi non pos-
sono etimologicamente separarsi; e siccome il sardo conosce anche un aggettivo std-
lemi, lento, temperato, così egli è pur chiaro che da questo fecesi suUenare, indi per via
del prefisso ad *assuUenare, assulenare, asselenare. Sullenu non può venire d'altronde
che da ^suòleiiis, '^sullenis, specie di diminutivo che varrebbe aliquantulum lenis, fog-
giato alla maniera di suhalhus, suhdulcis, subdurus, suhgravis, ecc. Un verbo del tutto
analogo a questo in quanto ai due prefissi lo trovo pur nel sardo assuabbare, inu-
midire, bagnare, che risponderebbe ad un organico ad-sub-aquare (cf. sardo abba =
aqua) e del quale lo Spano non cerca punto l'origine. Quanto al trovarsi la doppia
l in sullenu e non nel verbo derivato, noterò come il primo appartenga alla varietà
meridionale, mentre il verbo è della logudorese. D'altra parte lo scempiamente
della consonante è sempre più naturale, com'è noto, ne' vocaboli di forma più am-
pliata , secondo che appunto viene qui ad essere il verbo. Aggiugnerò ancora come
contro cotesta etimologia da sereno faccia pure lo stesso verbo asserenare, vivo nel
logudorese col suo proprio significato di rasserenare e rasserenarsi; e come finalmente
il passaggio di asselenare in assulenare presenterebbe nell' e trasformato in u x\n fe-
nomeno qui poco verosimile, mentre assulenare (da ad-sub-lenare) presenta nell'jt atono
mutato in e un fenomeno d'assimilazione vocalica dovuta all' e seguente, assai comune
nel sardo. Si noti in ultimo che dallo stesso ^sidlenis viene l'it. sollenare, allenire,
degli antichi nostri scrittori.
' Sono ben circa vent' anni che mi vennero scritte alcune decine" di note o postille intorno ad etimologie
elle dava lo Spano nel suo Vocabolario sardo-italiaii'^. Mirando la più parte di tali postille a rettiiicare quelli clie
a me parvero errori etimologici, m'astenni dal pubblicarle per riguardi meritamente dovuti al canonico Spano,
tanto benemerito degli studj sardeschi d'ogni maniera; e solo alcuni anni dopo io dava fuori, con qiialclie più
— 200 —
« Attataee (aftattai-e) , ^ saziare, ecc. voc. arab. » Donde si derivi questo verbo
non è detto, ma esso è dato per vocabolo d'origine araba. Ora io nego questa origine
e affermo senza più che attatare viene, insieme con attattare, e lattare significanti lo
stesso, dal lat. satiare; e la fonologia lo dimostra con evidenza, matematica. Queste
varie forme d'uno stesso verbo appartengono al logudorese. Ora è da sapere che
questo dialetto cambia non di rado la sibilante iniziale in t, onde per esempio da
siliqua fa tiliba, dall'arabo sokkar, lat. saccarum, fa tuccaru, dall'arabo zdfardn fa taf-
faranu, tanfaranu; per zoppo, zoppicare (dal ted. schupfen) il log. ha toppa, toppigare;
inoltre il tj (ti, te) interno è dal logudorese assai spesso converso in tt, onde tittone
da titione, tizzone, jiiatta às. platia, pilatea, mattolu da matiolu {mateolo; cf. lat. nia-
teola, it. mazzuola) , ^jaifo da patior; quindi agli ocelli della critica glottologica tattare
= satiare e col pref. ad attattare ^ ad-satiare , it. saziare, ant. assaziare.
« Battìa, s. f. log. sett., vedova. Voc. ar. òaddha (sola, separata). » Anche qui la
fonologia, come assai spesso, basta per giugner subito alla vera etimologia di questo
vocabolo, senza che punto accada di abbandonare il campo neolatino per trovarla.
Già vedemmo come nel sardo il b iniziale nasca spesso da g (e) ; ' fenomeno più o meno
comune a tutti i dialetti italiani è il dileguo di v tra vocali, onde verbigrazia, per
tenermi solo nel logudorese, istiu — estivo, olia-= oliva, ecc. e perciò battia — gattiva,
cattiva, captiva. Chi ne potesse ancora aver qualche dubbio non ha che da ricorrere
al siciliano e troverà che anche in questo dialetto la vedova dicesi cattiva; e come
battia la vedova , cosi pur battiu (sic. cattivu) il vedovo. Qui il nome cattivo significante
vedovo, vedova è manifestamente nome di compassione e vale quindi misero, lasso,
meschino, come appunto negli antichi nostri scrittori cattivo e cattivello; e come
anche il prov. caitiu, l'ant. fr. caitifs, caitive, e l'odierno fr. clietif, chetive.
« Bénnebe, log. venire, ecc.... Dal greco [Batvto, eo o dal lat. venio. » Quando in
logudorese il passaggio di v iniziale in Z» è fenomeno regolare; quando verbi della
quarta passano indubitatamente nella terza, come p. e. apperrere, aperire, e gli stessi
verbi convenire, prevenire, suonano nel log. ciimbènnere, prevénnere, come potrebbe
rimaner dubbio che bennere non venga dal lat. venire, non avendo punto a che fare
col gr. fjaivw, se già non fosse in quanto il verbo greco e il latino procedono noto-
riamente entrambi dallo stesso fonte indoeuropeo?
« Chedda, f. log. quantità, stormo, gran fatta. Maudigare lina bona cliedda, man-
larghezza, che originariamente non avesse, una mia postilla Dell' origine della voce sarda Nueaohe, contrari» al-
l' etimo che (li tale voce dava lo Spano (Atti della H. Accademia delle Scienze di Torino; voi. VII, 869-881). Pubbli-
cando ora qui alcune di quelle postille senza punto farvi mutazioni, non posso dissimularmi ohe dopo vcnt'anni di
studj e lavori fattisi nel campo delle lingue neolatine, scritte oggidi esso dovrebbero talvolta riuscii-e alquanto
diverse d'economia e di forma, la qual cosa avvertiranno di certo i compagni di studio. Le poche giuuterelle che
v'ho fatto di poi sono tra pjvrentesi quadre.
' Lo Spano registra nel voc. sardo-it. attatare e tattare, non attattare; ma questa forma adopera poi nel Voc.
it.-sardo sotto 'saziare *, e nell' Ori. sarda, I, 183; e s'incontra anche p. e. nelle Vanz. pop. App. p. 162; sicché pare
la si debba aver© per la più corrotta e genuina.
• [Qui lo scritto si riferisco ad etimologie precedenti, dove si trattava di questo fenomeno. Meglio ora riman-
dare ad Ascoi,!, Corsi di glott. § 27].
— 201 —
giare una quantità di cose. V. fen. Ghad, cumulus. A cheddas , a mucchi. » La parola
cìiedda lo»'. <xdda mer. foneticamente verrebbero ad essere nel sardo una risultanza
regolare del lat. cella, dispensa, guardaroba, conserva. Dice Cicerone (Verr. IV, 2)
che Catone aveva chiamata la Sicilia celiavi jjenariam., una dispensa di vettovaglie.
Quantunque qui non si possa ancor dire che la parola cella sia adoperata in senso
figurato, pure si sente che ben vi s'accosta; e che cella può significarvi una gran
provvisione o gran quantità in genere. Ora io non dubito che la parola cella, in
quanto significò dispensa, non sia venuta ad aver nel sardo questo significato tra-
slato e generale di quantità, mucchio e quindi anche di stormo, branco d'animali.
L' esempio stesso che lo Spano arreca di mandigare una bona cìiedda raccosta ancora
d'assai la parola cella al primo suo significato di dispensa. Per trapassi analoghi di
significato cf. il sardo Meda p. 207 seg.
« Chiiìeu, m. log. sett. crivello, vaglio. V. gr. xtXiCco (sic). » Impossibile etimo-
logia. Chiliru viene dall' equivalente lat. cribrimi. Nacquero primamente ckiribrio, cìii-
riru; poi per dissimilazione chiliru. Tutti i fenomeni occorsi in questa trasformazione
hanno riscontri vari che li confermano. Quanto a crt-diventato cMri-sì confrontino
Ghirigoro per Grigorio, schiribi per scribi {Tao. rot. I, 465) ecc. In calabrone da crabro-
nem, oltre ad un'epentesi perfettamente analoga nell'a inserto in cr, abbiamo il pas-
saggio del primo ?-, pur per dissimilazione, in l, fenomeno che s'incontra ancora in
più altri vocaboli come p. e. io. pellegrino da peregrinus, celabro da cerebrum, pilatro
da pyrethrum, veltro da vertragus, jìalafreno da paraveredus , ecc. Quanto al b fogna-
tosi immediatamente dinanzi a r, oltre al log. lara da labra, log. e setti, colora da
colubro, ne abbiamo anche riscontro in lira da libra e nell'antico senese Uro, allirare
per libro, allibrare. L'eqiùvalente merid. ciliru, ciidiru, che ha la medesima origine,
viene dal Porru derivato dal gr. y.uXiCoJ, donde probabilmente la citata forma di
y.iXtCw recata dallo Spano.
« Ello avv. log., ellu mer. dunque, certamente: elio gasi, dunque così. Dal gr.
sXXw (sic), affirmo. » Io non dubito punto che qui non ci sia il pron. ille, preso nella
forma dell' abl., secondo che lo proverebbe Vo finale della forma logudorese; e quale
si ha pur nel latino pel pron. is, nella seconda parte del composto id-eo. Cf. perciò,
però (per hoc) , ecc. Anche qui cotesto gr. £/.).to era già stato messo avanti dal Porru.
« Endiosaee, AD0, V. n. log. invaghirsi, elettrizzarsi, divinizzarsi. Dal gr. enthei
(sic) che vale immedesimarsi con Dio, da cui la voce italiana entusiasmo. » Qui il
greco non ha punto che fare. Endiosare è d'origine spagnuola; e Vendiosar spagnuolo,
significante deificare, indiare e al riflessivo inorgoglirsi, andar in estasi, viene mani-
festamente da dios che , com' è noto , è la forma spagnuola improntatasi dal nomina-
tivo latino deus. Come Dante da dio fece indiare, indiarsi, cosi gli spagnuoli da dios
derivarono endiosar, endiosarse. L'it. entusiasmo ^^oi è, come la corrispondente voce di
tutte le odierne lingue europee, il gr. =vì>0DO'.7.aij,ói; (lat. enthusiasmus) connesso col verbo
svtì-o'joiàCa) , essere ispirato, invaso da divino furore, il quale verbo si derivò assai
verisimilmente da sv&gd? (svasso?) , ispirato , mimine afflatus. Un' altra forma sarda , pur
logudorese, dello stesso verbo è endeosare collo stesso significato e coUa stessa ori-
— 202 —
gine. Cf. ven. inanzolao o inaazolà = viaii(jelato, p. e. siestu laanzolao, che tu sia be-
nedetto.
« Faddija, f. log. focolare. Cenere accesa e viva. Lat. fax viva o da favilla. »
Non da, fax viva, che foneticamente sarebbe impossibile, ma piuttosto da favilla,
per mezzo della forma ^favillicula che sincopata in faviUicla, perdendo v e con-
traendo, dà regolarmente faddija (cf. p. e. log. caddu = caballo , orija = arida, ecc.).
«Fitta, fr. log. fetta, pezzo, ecc. toc. fen. phat, pliet, frustulum. » Fitta sardo
ha comune coli' it. fetta, come il significato, così anche l'origine. Non saremmo però
per ammettere come verisimile un'origine fenicia p)er questa voce così viva e, sto
per dire, italiana. Il Diez vorrebbe dare a questa voce una provenienza germanica,
connettendola coll'ant. alto tedesco ^za, nastro, filo, nuovo alto ted. /efee;i, straccio;
dichiarando men verisimile l'origine che alcim.i gli vollero dare dal lat. vitta, e ciò
per la rarità della mtitazione di v iniziale in / e perchè da vitta V it. ha vetta, e lo
sp. e il prov. hanno veta. Senza volere assolutamente escludere una tale derivazione
non saremmo neppur disposti a rigettare l'etimologia di vitta; perocché il v iniziale,
mutato in /, non è poi tanto raro da toglier verisimiglianza a questa origine. Il
sic. vitta viene a significare a un di presso quello che l' it. fetta; ed ha per fettuccia
il diim.. fittidda. Il nap. /«&, fetta, mostra nascere da una forma sincopata del dim.
fittula {vittida, cf. spalla =sijatula. Il significato proprio del latino vitta si manterrebbe
più vivamente sensibile nel dim. fettuccia, sardo fittichedda {*fetticella).
« Masone, m. log. Olii sett., branco, gregge, armento di grosse bestie. Voce fen.
viason (alimentum, pastus). » Anche qui credo s'abbia a ricorrere non al fenicio,
ma sì al latino, non potendo essere altro cotesto masone se non il lat. mansione, it.
magione; non ostante il genere mascolino che venne qiii a prendere questo nome in
sardo. Quantunque il latino mansione non abbia lasciato nei volgari odierni della
Sardegna, quanto a questa sua forma positiva, altra testimonianza che questa di
masone, in senso di gregge, ecc., pure è indubitato che questo nome era in quel-
r isola molto usitato ne' secoli di mezzo; e basta volgere un' occhiata agli antichi do-
cumenti sardi, così latini come volgari, per restarne capaci. Fra i molti esempj
ch'io potrei citare e dal latino e dal volgare di que' tempi, mi ristringerò a due
soli. L'uno, parte in latino e parte in volgare, in cui leggesi ripetutamente, per
la parte latina, mansionem e per la parte volgare musoni, a quanto pare, in senso
di casa, è l'atto di donazione fatto alla chiesa pisana da Torgotore o Torgo to-
rio, giudice di Cagliari, intomo all'anno 1070, pubblicato dal Muratori (Antiqu.
Medii ^vi, II, fol. 1053-55); l'altro, pure un atto di donazione, tutto in volgare,
fatto alla chiesa di S. Maria di Lozzorai dal giudice Salusio di Lacon, del sec. XII,
pubblicato dallo stesso Spano {Ort. sarda, 11, 89), dove leggesi et dau illoL... duas ma-
sonis de cabras et una masoni de jporcus, cioè : e dogli.... due branchi o greggi di capre e
un branco o gregge di porci; esempio notevolissimo in quanto qui masoni ha già preso
il valore di branco o gregge, ma viene ancora adoperato come femminino quale è il
corrispondente latino mansione. Dovrò io ancora aggiugnere che la forma del voca-
bolo è per l' appunto quale la richiede la grammatica storica del dialetto sardo , cioè
— 203 —
che come v. gr. prensione (da preliensionè) ha dato al sardo presone (log.) presoni (me-
rid. e sett.), pressioni (gali.), ìt. jprigione, cosi pure da mansione sono rispettivamente
venuti masone, viasoni, masgioni, magione.
Tre notevoli nomi di forma derivata, etimologicamente connessi col lat. man-
sione, ha ancora il sardo in masnatingu, masonada e masonza.
La glossa masnatingu, che lo Spano registra nel suo Voc. col significato di
«masnadiere» senza cercar punto d'accennarne l'origine, si trova nello Statuto
sassarese del sec. XIX (V. Tola, Codice degli Statuti della RepuhUica di Sassari, I, 7)
dove è detto: sergentes over masnatingos che risponde a, servientes aut armigeros del testo
latino. Questo vocabolo accenna manifesto alla forma fondamentale di *mansionatingo,
come l'it. (tose.) masnadiero a quella di mansionatario e vengono entrambi da *mahsio-
nata (masnada) ohe è come l'astratto di mansione o piuttosto il collettivo di cose at-
tinenti a mansione. Una forma rispondente come il sardo masnatingu ad un organico
^mansionatingo, ma più profondamente alterata, secondo esigeva la fonetica regionale,
si trova nella glossa pedemontana masnengo , servitore , famiglio , che s' incontra in
più documenti medievali e che al femminile registrata nel Ducange (Gloss. m. lat.,
s. masnengo) viene erroneamente interpretata per familia, in liiogo di serva , famula. '
Questa forma in ingo (engo) che nell'ambiente pedemontano è al tutto ovvia e natu-
rale, nel dialetto sardo riesce piuttosto singolare, perocché il suffisso ingo (engo),
d'origine germanica ed essenzialmente proprio dell' Italia superiore, è comparativa-
mente rado nella Toscana e quindi nella lingua comune , e si può dir quasi ignoto
all' Italia meridionale e quindi alle sue isole. "
L'altra forma- sarda derivata da mansione, come s'è detto, è masonada, viva nel
sardo logudorese e nel settentrionale, col significato di famiglia, figliolanza, quantità,
o, come si esprime lo Spano con modo tolto dal Malmantile, gerla di ragazzi. Questa
voce, rispondente al già toccato latino mansionata, è notevole non solo in quanto si
connette etimologicamente e formalmente aU'it. masnada, che si trova ancora usato
dagli antichi nel significato suo proprio di famiglia, ma a molte voci più o meno
analoghe di forma e significato, proprie dei dialetti italiani e francesi. Comincierò
dal notare l' ant. genovese »irts«àa delle Rime storiche d' anonimo, scritti d'intorno al 1.300
(1270-1320) dov'è detto: tal maire e tal masnaa, tal madre e tal famiglia {Ardi. Stor.
It. App., n. 18, p. 1^),^ fiioi aveva tai e tanti, masnà de servi e de fanti, figliuoli aveva
' Nel Ducange, ed. di Didot, si legge; « Masnenga, ut maìsnada, familia. Statuta astens. coli. 4, cap. 1" p. 16....
ncc raasnengas alicuius vel aliunde ortas quam de civitati astensi. Hinc masnengonus, vel masnengus, etc. >> È
troppo chiaro che qui si parla di servo anche non nate in Asti, E già s'intende che masnenijus non può venire,
come qui si direbbe, da masnenga che non può essere altro che il suo femminile. Quanto al masnengonus, citato dagli
Statuti vere, lib. V, fol. 122, V, credo si debba avere pei- errata lezione, trovandosi preceduta di tre linee da masnengo
e seguita di due da masnengiim, tutti e tre d'un perfettamente identico significato. D'altronde sarebbe forma mor-
fologicamente inverisimile.
■ La sola parola ch'io sappia di qiiesta forma in Sicilia è il nome locale di Sperlinga, che sola nel famoso
vespro non volle insorgere contro i Francesi. Sarebbe curioso il vedere se questa forma sia dovuta alla stessa
causa moi-fologica (che in parte s'avrebbe a dire etnica), a cui sono da recarsi i tanti nomi locali in-engo dell' Ita-
lia superiore.
' [Le antiche rime genovesi, donde son cavati quaesti esempi, furono poi pubblicate interamente dal Lago-
maggiore nelVArch. glott. it, II, 16Ì-312 e sono annotate dallo scrivente. Vili, IX,]
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tali e tanti , masnada (famiglia) di servi e di fanti (o. e. p. 20) , dove si vede masnàa
adoperato primamente in senso di figliolanza, poi in un senso non più tanto dome-
stico, ma tra quello di famiglia e quello che ebbe dipoi l' it. masnada. L'antico pro-
venzale conosce anch'esso la parola mamada, maynada (oggi meinà, fanciullo, meinado,
famiglia) in senso di famiglia, séguito di famigli, ecc., onde p. es. los paures son
maynada j^etita de Dieu, i poveri sono la piccola famiglia di Dio (Rayn., Lex.
rom. IV, 149); tal selinor, tal maynada, quale il padrone e tali i servitori; e l'antico
francese ha questo vocabolo sotto le varie forme di maignyè, maigniè maignée , mai-
snée, ìuesgnée, ecc. pure in senso di famiglia, onde per es. Voyant trop grievement
cliargée, Sa maison de trop de maignée, Mist sa jìlle en religion (Remi Belleac, t. II,
p. 154). L'odierno maisonnée, che metterebbe capo ad uno stesso tipo morfologico,
è una forma comparativamente recente, e sta alle antiche, quale sarebbe per es.
un it. *magionata dirimpetto a masnada. Anche lo spagnuolo ha masnada, mesnada
nel senso più comune dell' it. masnada. Il piemontese conserva vivissima la parola
masnà (var. dial. maina, magna, meinà); ma di nome collettivo ne fece uno di
significato personale; sicché masnà al singolare significa bambino, ragazzo e bisogna
il plurale per avere il senso di bambini, figliolanza. Questo significato individuale fu
verisimilmente causa, che questa voce, massime in quanto applicata a bambino ma-
schio, si facesse anche di genere maschile onde masnà venne poi ad usarsi promis-
scuamente ne' due generi senza riguardo al sesso. Il Diz. ven. del Boerio ha masnada
0 masenada in senso dell' it. masnada, brigata e reca masnada de fioi per molta figliolanza.
Viene in ultimo la citata parola masonza che vale p)orchetti colla scrofa (Spano,
Voc. sardo, s. v.) cioè propriamente branco (masone) di porcellini insieme colla madre e
mette capo a *masonia (= mansionea), presentando nella desinenza il fenomeno fo-
netico p. e. di vinza da vinea, ranzolu da araneolo [Cf. Ascoli, Ardi, gioii, it., II, 140].
Morfologicamente, in quanto s'appunterebbe in '^mansionea, da, mansione, il sardo ma-
sonza cade nella categoria in cui gl'italiani gramigna = graminea da gramen, stamigna
= staminea da stamen, carogna =■ caronea da caron- (gen. carnis da *carinis), ecc.
E poiché già tanto mi sono esteso a toccar della storia di mansione e de' suoi
derivati, giovi, per più compimento d'un inventario, dirò cosi, genealogico della
discendenza di tal vocabolo, dire ancora di qualche sua derivazione, quantunque il
sardo di per sé non ne porga occasione. Notevolissimo é tra i nomi di questa fami-
glia il fr. menage (antico maisnage meisnage, ecc.), rispondente ad un basso latino man-
sionaticìim; la qual parola significando propriamente il complesso delle cose relative
alla casa {mansione), il governo della famiglia, ecc., in qualche dialetto francese, con
trapasso anche più ardito che non nel piem. masnd, venne pure a significar bam-
bino, figliuolo; onde un poeta limosino dice: Se; so fenno, soù trei meinagei-Toà bravo
gen e toù bien sagei-Que de irei jour n'óvian minja-Semblòvan chi rat eicurja; vale a dire:
lui, sua moglie, suoi tre figliuoli, tutti brava gente e tutti molto saggi, che da tre
giorni non avean mangiato, sembravano cinque topi scorticati. (Faucadd, Poésies en
patois limousin, Paris, 1866, pag. 13). Il piemontese ha anch'esso cotesto nome nella
varia forma di mainagi, meinagi, menagi, prossimi di forma al prov. mainagi, dal
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quale forse è venuta la parola piemontese; dico forse; giaccliè non è improbabile che
sia di fondo proprio come si potrebbe anche congetturare dal meynatium degli sta-
tuti di Torino {Mon. liist. patr., voi. I , p. 706).
Notisi ancora come il napolitano abbia il verbo ammasonarese in senso di riti-
rarsi in casa, andare a dormire, coricarsi, ajjpollajarsi, accovacciarsi, rintanarsi;
ed ammasonaturo , pollaio , al qual proposito è da notare come ne' dialetti lombardi
m«son valga appunto poUajo, onde ancld a mason, andare a poUajo, appollajarsi. Il
siciliano aveva pixre anticamente ammasunu, pollajo, e insieme con masunata, fa-
miglia, ha ancora Aìnmascinni, nome d'un antica chiesa di Palermo (v. Pasqu. Voc.
sic, s. V.). Magione, Moscioni, Musone, Masona, Mason, Masuni mannu (sardo, già ma-
schile) e le forme derivate Masonaje, Masonazza, Masonera sono parte della toponi-
mia italiana (cf. Diz. geogr. postale, s. w.).
« Upuale, m. log. secchia, lat. aquale. » Questa etimologia si rende problematica
non solo dal lato fonetico inquanto, venendo da acqua (log. alba), dovrebb' essere ah-
hale e non upuale, ma anche e specialmente per l'esistenza d'una parola log. upu,
significante attignitojo, e che sarebbe impossibile derivare da aqua, anche pel signi-
ficato, e da cui non si può etimologicamente staccare upuale. Se poi upu e upuale
abbiano qualche connessione d'origine con umpire log., tmipriri mer., umpì, sett., at-
tingere, empiere, e umpiolu, log., secchia, non oserei né affermare, né negare. Osser-
verò solo come nel verbo s'abbia manifestamente un'alterazione del lat. implere, che
anche nel catalano è venuto a sonare umpUr; e come per conseguente, quando upu,
upuale vi si connettessero etimologicamente, il proprio loro senso sarebbe come dir
riempitojo che ben si confonde con quello di secchia, attignitojo. Il log. umpiolu ac-
cenna abbastanza chiaro ad una base *impleolo; ma l'assenza della nasale e la singo-
larità morfologica à!upu e upuale renderebbero pur sempre incerta la connessione di
questi vocaboli con implere. E incerta pur tornerebbe la connessione etimologica
à' upuale con un jjMfeafe, poiché jjwfeo sonando j^ufu nel logudorese, puteale dovrebbe
d.sxYÌ putale. Né credo valgano a tor l'incertezza, dal lato fonologico, \\ pou^=puteo
e la frequente vocale prostetica del meridionale, né dal lato logico e morfologico lo
spagnuolo posai, vas puteale, e il piem. putzaj {puteale), secchia, proprio d'al-
cuni dialetti monregalesi.
« Meda, aw. log. mer. molto, assai; agg. molto, molta, meda forza, molta forza.
In plur. di genere comune: medas homines, medas feminas, molti uomini, molte donne.
Meda meda, assaissimo. Voce ebr. meod (nimis). » Il sardo, così tenace dell'elemento
latino, non ha serbato la tradizione del nome multus, né dell' aw. viultum, e adoj)era
in loro vece la parola meda, che vale come avverbio, e come aggettivo fa per ambo
i generi al sing. meda, al plur. medas. Ma è da avvertire che il dialetto meridionale
adopera meda eziandio con significato di gran copia, il qual senso, non recato nel vo-
cabolario dello Spano, viene però registrato in quello del Porru; é importa assai
che si noti al nostro proposito. Cotesta voce e per la si;a singolarità etimologica e
per l'importanza che ha nel dialetto sardo, ben merita di essere chiarita, per
quanto é possibile, nella sua origine.
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Lo Spano, per quella sua troppa tendenza alle origini semitiche delle voci
sarde d'etimo alquanto oscuro, identifica il sardo meda coli' ebraico nieod, nimis. Ora
noi vedremo come la critica glottologica possa senza il minimo sforzo rivendicar
questa voce alla giurisdizione latina.
Meda, nell'ambiente sardo, accenna a primo aspetto ad un organico meta, verso
cui esso sta come per es. fedu (it. feto) a fetiis, seda a seta, ecc. Del resto è principio
elementare di grammatica storica il digradarsi della tenue in media, che principal-
mente fra due vocali ha luogo in volgari della famiglia italica, anzi neolatina, e se-
gnatamente nel sardo, dove noi abbiamo verbigrazia roda = rota, vida = vita, code
:^cote, nebode =z nepote , ecc. Adunque la relazione formale o materiale che dir vo-
gliamo tra meda sardo e meta latino sarebbe quale appunto s'aspetterebbe di trovar-
vela chiunque abbia anche solo una conoscenza elementare o superficiale delle leggi
di trasformazione della parola latina presso la gente sarda. Ma v'ha di più. L'ori-
ginaria forma latina si mantiene ancora intatta negli antichi documenti della lin-
gua sarda ; e io non citerò se non l' esempio d' afti-ros meta te.stes (altri molti testimonj)
che leggesi ben due volte in una carta del 1173, pubblicata dallo stesso Spano
{Ort. sarda, II, 89), dove la dentale tenue, come in moltissime altre forme dell'epoca
stessa, non è per anche surrogata dalla media.
Vediamo ora se come meda sardo s'identifica materialmente con meta latino,
cosi le due voci anche logicamente si possano connettere fra di loro.
Presso i Latini la parola meta dinotava principalmente, come ognun sa, quelle
tre pietre o colonne di forma conica o piramidale, rizzate ai confini del circo, in-
torno a cui giravano i carri. Ma un altro uffizio assai frequente di questo vocabolo
fu poi quello di significare un oggetto qualunque che, poggiato sopra più o men
larga base circolare, s'alzasse gradatamente restringendosi a foggia di cono. Quindi
è che troviamo i Latini aver detto ìneta ligìiorum, m. /ceni, vi. lactis, m. sacchari, ecc.
cioè meta ossia ammasso di legna, di fieno, di latte (rappigliato . ben s'intende), di
zucchei'o, ecc. per dinotare cotesti oggetti rispettivamente ammucchiati, accatastati,
foggiati a guisa di cono. E questo è appunto il significato che può dirsi essersi man-
tentito più o men vivo nel romano volgare, trasmesso senza interruzione a buon
numero degli odierni dialetti della famiglia neolatina.
E cosi nel nap. s' incontra la parola ìueta significante pagliajo, legnaja, bica, barca,
cioè quello che presso i latini era meta foeni, ecc. in quanto che non solo i Napolitani,
ma in genere i popoli dell' Italia media e meridionale rizzano i loro pagliaj a foggia
di cono o cupola intorno ad uno stile od antenna che i Toscani dicono anima del
pagliajo e con nome speciale stollo, barcile, metnle o mitule. ' Pei Romagnoli meda im-
' Quasi superfluo notare ohe l'aretino metiiU o mitiiU viene da meta,pvir proprio dei Toscani in senso di pa-
gliajo (Cfr. GrireRAKoisi , Siippl. ai Voc. it. s. v.). Trovo la prima di queste forme in un vocabolario lat.-volg. ms. di
Domenico d'Arezzo che fa venir questa voce da non so quale meditulum ! la seconda nel Voc. ar. pur ms. del Redi,
dicliiarata per ' lungo legno od antenna che si mette noi mezzo del pagliaio. ' Sono derivazioni morfologicamente
a.na.logìie a pedule, gam'iide, grembiule ecc., e di questa forma in iile è come deviazione o varietali meliillo perugino.
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porta catasta, quindi «iVZè (*rnedér, *mefcare), accatastare, abbarcare, abbicare. Nei
dialetti lombardi ed emiliani la parola meda (ferr. miccia) viene usata a significar
catasta di legni, di fascine, mucckio di letame, barca di fieno, paglia e presso i Pia-
centini massa di lino ammucchiata, perchè soggiaccia alla fermentazione, e anche nel
retoromanzo la voce meida (cfr. seida = seta) importa gran massa di fieno fittamente
ammontato. Nel trentino mea^meta, vale muccMo, e i derivati medi ^ *metatto (cf.
scout ^ scopatto , granatino) muccMo di fieno, smeaz^*smetaccio, lo stesso; e da meat
meattar = *metattare, ammuccliiare.
Meta, in quanto è venuto a significare mucchio di paglia o di fieno , ha pure i
suoi riflessi così nella lingua come in qualche dialetto di Francia. La voce meule di-
notante lo strumento delmuguajo e dell'arrotino risponde alla mola del latino e del-
l' italiano, ma in quanto dice mucchio di fieno o di paglia, etimologicamente non
ha più che fare né con mala né, come alcuni vorrebbero, con moles, ma sibbene col-
l'equivalente latino meta, di cui rende però la forma diminutiva, metida, venuta qui
a rappresentare il positivo, secondo che ciò si trova avere avuto luogo assai spesso
nella formazione delle lingue neolatine. Circa l'attinenza formale tra meule e metida
si possono confrontare p. e. l'ant. fr. seide con seculum, reide con regida, onde l'ingl.
rìde. Il primitivo meta è rappresentato dall' ant. fr. moie, ancor vivo oggidì in qualche
dialetto come p. e. nel piccardo e nel vallone (cf. Diez, Et w. 686, s. meule). Anche
lo spagnuolo e il portoghese hanno meda in senso di mucchio, castata, covone, e il
primo ne deriva il verbo medar, accatastare, ammucchiare, come pur medano o medano,
per miicchio d'arena nel mare, e il portoghese medào, per gran mucchio. Da questo
raffronto risulta, parmi, assai chiaro come il latino meta nel senso di cumulo coni-
forme dovesse essere assai vivo ed esteso nel romano volgare e come vi si sia gene-
ralmente conservato sì col senso originario e sì con quello più generale di muc-
chio, quantità, quale ho già notato essere nel meda del sardo meridionale, preso nel
valore di un sostantivo importante gran quantità {grandu cantidadi, Poebu, Diz. s.
meda); appunto quale suona anche per estensione in alcuni altri dialetti che l'ado-
perano più particolarmente nei sensi sovra indicati, verbigrazia nel milanese che
usa meda anche come semplice equivalente di mucc, monton (v. Banfi, Voc. mil. s. meda).
Ammesso dunque il nome meta significante mucchio, quantità, come ne' volgari
continentali, così pure in quello della Sardegna, non sapremmo vedere il pei'chò da
tale significato esso non abbia potuto prendervi il valore di molto , tanto come av-
verbio, quanto come aggettivo. E qui pure un raffronto di qualche voce di signifi-
cato originariamente analogo, passata a nuova significazione analoga, gioverà a ren-
dere anche più verisimile la fortuna a cui soggiacque la parola meta presso i sardi.
E sia la prima di queste voci massa che significando originariamente pasta, poi
pezzo di cacio , di metallo , di vetro , di marmo , venne finalmente a significar princi-
n berg. e frinì, medil é analogo al sinonimo harcile da barca. Con meta in senso di pagliajo si connettono più nomi
locali: Meta, Mutola, Meda, Meida, Medola, Medile, Metila ecc., fr. Meule. Una trentina di nomi locali abbiamo da Pa-
gliaja, Pagliara, Pagliero ecc.; e circa novanta da Fenile, Feniletto, ecc.
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palmente una quantità di qualsiasi materia riunita, e formante per cosi dire un corpo
solo. Or bene, la parola massa venne appunto ad avere un' analoga applicazione in
senso particolarmente di avverbio significante molto , troppo , cosi nel provenzale e
nel catalano, come in alcuni dialetti italiani e segnatamente nel veneto, nel friulano
e nel trentino. Abbiamo quindi nel provenzale: ricxrhom que massa voi U-aire, ricco
uomo che troppo vuole accumulare: massa parlatz., parlate troppo; ab massa d'aiitres
encombriers , con molti altri impacci (v. Ratnouabd, Lex. Bom. s. v.). Ne' dialetti ve-
neti, nel friulano e nel trentino, massa (friul. masse) ha valore d'avverbio e significa
molto, troppo, fuor di misura. Questa voce, in cotal senso, era già stata notata nel
dialetto veronese da Fazio degli liberti il quale nel Dittamondo (1. Yl, e. 13, t. 31)
diceva: Similmente Eliseo ancor trajjassa — Giordan col suo mantello che attor era, — Al
modo veronese, grosso massa. Al modo veronese, cioè per dirla come farebbero i Vero-
nesi. ' Adunque grosso massa, massa grosso (che oggi i Mantovani direbbero con tra-
sposizione d'accento massa gross), è un'espressione perfettamente analoga al meda
grussìi o russu dei Sardi. Ho già notato l'esempio di atteros vieta testes (altri molti te-
stimonj), dove, oltre la conservazione deUa dentale forte, è ancora da avvertire l'in-
declinabilità di meta, equivalente all'aggettivo plurale molti; che oggi direbbesi
medas testes. Cotesto antico costrutto viene ad essere del tutto analogo a quello,
ancor vivo oggidì nel francese, del sost. force, adoprato nel senso di molti e di molte,
onde non solo force gens, force monde, ma anche force sots, force moutons, force témoins
(meta testes); il quale /orce viene poi anche usato come avverbio col valore di molto,
come per es. in /orce bien, molto bene, valde bene.
G. Flechia.
' n Nannncci pone massa, in quanto viene adoperato da Fazio dei!li Dberti col significato di molto , tra le
voci e locuzioni ìlaliane. derivate dalla lingua provenzale, ecc.s.v., osservando clie, sebbene egli (Fazio) dicaesservoce
de' Veronesi , tuttavia fu prima de'Provenzali ; quasiché per andar da Eoma a Verona s' abbia da passar prima in
Provenza. E il Boerio nel Diz. veti, [e poi il Pirona nel l'oc, friul] mostra credere ohe massa [mosse], " troppo ', possa
venire dallo sp. mas che non ha punto a che tare con massa , ne pel significato né per l' etimologia, volendo dire
' pili ', ' mai ' ' ma ' e venendo insieme colle due ultime voci italiane dal lat. magis.
UNE FORME DE L'ARTICLE EOUMAIN
QUI SE MET DEVANT LES SUBSTANTIFS ET LES ADJECTIFS.
\ (DiALECTE DU DaNDBE).
L'article a, dans la langue roiimaiue, trois formes:
P''<^ forme. Artide qui est mis à la fin des substantifs et des adjectifs: lii,
l, le, pluriel i, pour le genre masculin; a, pluriel le pour le féminiii.
Il'- forme. Artide qui est mis devant les pronoms possessifs: al, pluriel ai
pour le genre masculin; a pluriel alle pour le féminin.
HI" forme. Artide qui est mis devant les substantifs et les adjectifs: al, plu-
riel ài, pour le genre masculin; a, pluriel alle pour le féminin.
On connaìt généralement les deux premières formes; mais on connaìt bien peu
la troisième, surtout à l'étranger. Celle-ci ne se trouve pas dans la langue ócrite,
mais seulement dans la langue parlée des villages.
Les éléments ethniques étrangers (Bulgares, Grecs, Albanais) ont tellement
abondé dans les villes, que certaines formes de langage, l'article mis avant les
substantifs, par exemple, ont presque disparu du parler des gens de la ville.
Nous devons ajouter toutefois que, méme dans les villes et dans la langue
écrite, l'article de la première forme est placò devant les substantifs, mais seule-
ment qtiand il s'agit du génitif et du datif des noms propres masculins. Ex.: casa
luì lon, la maison de Jean, disseì lui Petre, je dis à Pierre.
Les formes que nous allons signaler sont usitées par la population des villages
situés entre Bucarest et le Danube, dans le triangle forme par Bucarest, Giurgévo
et Oltenita.
Disons d'abord quelques mots de l'article que l'on emploie devant les pronoms
possessifs {IP forme). C'est-à-dii-e : al, pluriel ai, pour le genre masculin; a, pluriel
alle pour le féminin.
Al meù, le mien; al tei, les tiens; a nòstra, la nòtre; alle vòstre, les vòtres.
Cet article apparaìt dans le langage parie, comme dans les li\'res, dans les cam-
pagnes comme dans les villes.
— 210 —
Le langage écrit se sert aussi du datif de cet article: si disse allor sei. et il dit
aux siens. Mais ce cas est peu usité , méme dans les livres.
Voici le tableau de la IIP forme d' article précédemment signalée:
( singrd-ier «/, génitif et datif àV.ui,
Mascimu . , . , . .„ n ,.„ „„
' pmriel «ì, genitii et datii allor,
. . ( singulier «, génitif et datif allei ou àllii,
' pluriel alle, génitif et datif àllor.
Cette troisième forme est placée: a) devant les substantifs, et to) devant les
adjectifs.
L'article place devant les adjectifs est usité dans les villes et dans les campa-
gnes, mais non pas dans les livres.
L'article place devant les substantifs n'est guère usité que dans les campagnes ,
comme nous l'avons déjà dit.
a) L'aeticle place devant les substantifs.
Exemples: et vede tu candii te o i^'inde al vier, tu verras [ce qui t'arriverà]
lorsque t'attrapera le vigneron; — muiere, dà 'mi a sapà, femme, donne-moi la pio-
che, — ce s'a fàcut Marini — Sa dus in ài munti mari, qu'est devenu Marin? — Il
s'est en aUé dans les grandes montagnes; — unde 'ti sùnt cai? — Mi 'i a mdncat ài
lupi, où sont tes chevaux? • — Les loups me les ont mangés; — OrU mai lucra si alle
fete, les fìUes travailleront aussi (ou: on fera travaiUer les fìlles aussi).
n est à remarquer que l'on contraete les preposi tions cu, in, de, avec l'article
de la III® forme. A in si , de cu et al, il resulto cu-àl, et si la prononciatiou est ra-
pide, on entend col; de hi et ài il résulte 'nài; ' de de et ài il resulto d'ai; de cu et ài
il résulte cu-ài, et si l'on parie rapidement, on entend col.
Ces diverses contractious rappellent les col, nel, coi, nei, dal, dai de la langue
itaUenne.
Exemples: am f osta cu ài militar (prononcé rapidement col militar), j'ai été avec
le militaire; — fugi 'n ài munti mari (prononcé rapidement 'nài munfi) , il s'est enfui
dans les grandes montagnes; — vorbimù d'ai -macellar, nous parlons du boucher; —
se dusse cu ài berbeci (prononcé rapidement coi berbed) , il s'est en alle avec les mou-
tons; — cu alle oi (prononcé rapidement còlle ci), avec les brebis.
Hàtons-nous de dire que àl^ ài, a, alle jouent aussi le ròle de démonstratif
et correspondent à l'italien quel, quei, quella, quelle. Il en est de méme de l'allemand
der, die, das et du languedocien lou. Aìnsi ce dernier idiome dit: lou pastre, le
berger; — lou qu'es vengut. celui qui est venu; — lous d'Erepio, ceux d'Hérépian, etc.
' Ceci serait plutót une alliauce de deux inots avec oliute de la voyelle initiale da premier, qii'nne
contractioD.
— 211 —
H n'en saurait étre autrement, car l'article roumain qui se met à la fin des
substantifs (P''^ forme) tó, l, le, i, a, le, derive, ou, si l'on aime mieux, correspond
au démonstratif latin ille, illa, illud, ce qiù est reconnu mème pour l'article itali eu
il, lo, i, la, le et pour l'article provencal, fran9ais, etc.
_I1 n'en est pas moins vrai que dans les exemples cités plus haut.... candii te o
prinde ed vier.... dà 'mi a sapà, etc, al, a, ai, alle sont des articles, et non des dé-
monstratifs, comme l'imaginent certaines personnes qui n'ont entendu que le lan-
gage des villes.
Ce ne sont pas des démonstratifs, par cette raisou que, dans les exemples don-
nés plus haut, les substantifs précédés de l'article, les personnes et les objets dont
on parie, ne sont pas montrés, indiqués, ne sont ni présents ni visibles.
Ainsi, dans l'exemple: muiere, dà 'rm a sapà, l'homme qui demandala pioche à
sa femme, ne mentre l'instrument ni de près ni de loiu; il demanda simplement
« la pioche, » la piocha qu'il a, et que sa femme connaìt.
Lorsque l'homme raconte que ses chevaux ont été mangés par les loups , il ne
montre les loups ni de près ni de loin; il n'indiqua pas quels sont les loups qui ont
mango les chevaux.
Dans le langage des campagnards de la ragion dont nous nous occupons, cette
troisième forme d'article a absolument la méme valeur que l'article francais le, la,
les, que l'article italien il, lo, la, i, le, etc.
Dans les phrases roumaines citées plus haut, l'intantion de l'interlocuteur est
bien de se servir de l'article. S'il s'agit d'employer les démonstratifs, on dit : am fostfi
cu militaru alla, j'ai été avec ce militaire-là, avec le militaire que vous savez; —
fugì in munti àia mari, il s'est enfui dans ces grandes montagnes de là-bas ; — vorbi-
mù de viàcellaru alla, nous parlons de ce boucher-là, de ce boucher que vous savez;
— mi''i a mdncat lupi àia care a venit ast' nópte, ces loups qui sont venus cette uuit me
les ont mangés; — dà 'mi sapa aia de colo, donne-moi cette pioche qui est là; — dà
'mi sapa aia care sa rupté ien, donne-moi cette pioche qui s'est cassée hier; — Care
vierf — ài care s'a ìnsurat acnm, quel vigneron? — Celui qui s'est marie maintenant.
Nous devons dire aussi , que , dans le langage des gens de la campagne , l'emploi
de l'article devant les substantifs, donne beaucoup d'energie au discours; et c'est
surtout en cas de dispute, de contestation et de querelle que l'on a recours à cette
troisième forme d'article. En conséquence, il est moins usité dans le récit que dans
l'action et la couversation animéa.
b) L'article place devant les adjectifs.
Dans la langue parlée, ou dit: al Imi, la bon; — a rea, la mauvaise, laméchante;
— ài vecM, les vieux; — alle verdi, les vertes; — àlluì mie, au petit; — allei grasse, à la
grasse; — aliar ràpedì, aux rapides; — cu al negru (prononcé rapidement col negru),
avec le noir; — Il versa 'n al rosiu, il le verse dans le rouge; — se approprie d'àl calde,
il s'approche du chaud; — cu a rtdósà, avec la galeuse, la rogneuse; — pune-uà 'n a
— 212 —
fece, mets-là dans la froide; — a venit cu ài neyri (prouoncé rapidement coi negri), il
est venu avec les noirs; — a tnceput cu alle albe (pronoucé rapidement còlle albe), il
a commerce avec les blanches; — - intrd 'n alle noni, il entra dans les nouvelles.
Nous le répétons , c'est cette forme d'article qu'ou met devant les adjectifs qua-
lificatifs , dans la langue parlée de la Vallachie.
Dans la langue écrite, on emploie au contraire, une forme usitée dans quel-
ques districts de la Moldavie, mais qui en Vallachie, semble quelque peu factice; on
se sert de l'article cel, cea, cel, celle, qui correspond à l'italien quel, quello, quella,
et au languedocien aquel (provencal aqueu).
On écrit dono: cel mare, le grand; — cea grossa, la grosse; — cel albi, le blancs ;
— celle frumóse, les belles ; — cu cel naltù, avec le baut; — in cea déssà, dans
l'épaisse ; etc.
Voici le tableau de cette forme d'article:
( singuUer cel, génitif et datif cellui,
\ pluriel ed, génitif et datif celiar,
i singulier cea, génitif et datif celici cu ccllil,
{ pluriel celle, génitif et datif celiar.
Au parlement, au tbéàtre, devant les tribunaux, quand on fait des phrases
déclamatoires , on emploie cette forme d'article devant les adjectifs; mais on
sent bien que c'est empesé, guindé, serre dans le corset, génant.
Et comme dans les écoles on n'admet pas l'empiei de l'article ài, ai, a, alle de-
vant les substantifs et les adjectifs, un professeur de grammaire de Bucarest diete
aux élèves des phrases comme celles-ci; Stefan cel mare; Etienne le grand.... — cu cel
neqru, avec le noir.... — cea antica, l'ancienne.... etc.
Mais suivons le méme professeur chez lui. Sa femme lui demando : « Avec quel
paletot sortiras-tu demain? » Et le mari répond: cu al vecliiù (prononcé rapidement
colvechiù), avec le vieux.
Il ne dit pas: « cu cel vecìnù, », car sa femme le regarderait avec étonnement. Et
s'ils continuent leur conversation familière, nous leur entendrons dire : « A venit fe-
cioru popi. — Careì — al mare. Le fils du prétre est venu — Lequel? — le grand,
(l'aìné). »
Ainsi, le professeur dira comme tout le monde: al mare, a negra, ài verdi, alle
rosii, et non pas cel mare, cea negra, cel verdi, celle rosil, le grand, la noire, les verts,
les rouges, etc.
Il en est de méme pour l'adjectif alta, autre.
Dans le langage parie, on dit:
( singulier àl-lalt&, génitif et datif àlìm-lalta,
{ pluriel ài-lai fi, génitif et datif àllor-laM,
.' singulier a-laltà ou al-laltà, génitif et àa,tìf àUel-lalte ou àllii-lalie,
^ ' pluriel alle-lalte, génitif et datif àllor-lalte.
— 213 —
Et dans les livres, on écrit:
cel-laìtu, gónitif et datif cellm-lalta,,
pluriel cel-laìtì, génitif et datif cellor-lalti,
féininiu singulier cea-laltà, gónitif et datif celleì-lalte ,
fémiuin pluriel celle-lalte^ génitif et datif cellor-lalte.
Est-il plus euphonique d'employer devant les adjectifs l'article du langage parie
de la Vallachie al, ài, a, alle, ou bien l'article adopté dans la langue écrite: cel, ceì,
cea, celle?...
Nous allons apporter encore un élément au débat.
On a vu plus haut, que al, dì, a, alle ont aussi le ròle de pronom demonstratif.
Dans le langage écrit, nous trouvons naturellement cel, cei, etc.
Pour rendre la phrase « celui qui est veuu hier, » on dit en langage parie: ài
care a venit ieri, et dans le langage écrit: cel ce a venit ieri.
On avouera qu'il n'y a rien d'euphonique dans cette rópétition de la syl-
labe CE.
On rencontre dans les livres, des phrases corame les suivantes, où la syllabe ce
est encore plus fréquemment répétée: cel ce a fàcut cervi si pàmìntid, celui qui a fait
le ciel et la terre; — cel ce cercetédà, celui qui reclierche, qtù esamine; — cel ce pen-
tru Urrà mi scie se mòra (Bolintineanu) , celui qui ne sait pas mourir pour le pays.
Dans le langage parie, on dirait: al care a fàcut centi si pàniìnUd, ài care cercetédà,
cine ijentru tèrra nu scie se mòra.
On avouera que le demonstratif et l'article de la langue parlée sont plus eupho-
niques que le demonstratif et l'article adoptés jusqu'à ce jour dans les livres.
Encore une fois, l'étranger qui étudie la langue roumaine dans les livres, ne
rencontre que cel, ceì, cea, celle devant les adjectifs; il ne peut donc faire la connais-
sance de l'article ài, ài, a, alle.
Nous avons voulu lui servir de cicerone et l'aider dans cette excursion philo-
logique.
On sait que les verbes ont en roumain deus formes d'infinitifs, l'une terminée
en re, et l'autre sans re; aiusi, laudare et lenidà, louer; vedere et vede, voir; simtire et
simù, sentir, etc.
On sait encore qu'en italien on trouve lodare, vedere, sentire, etc, et que le dia-
lecte moderne du Latium (lingua romanesca) nous mentre les iufinitifs vede, sentì,
magna, etc.
Dans les temps des verbes qui, en roumain, sont composés d'un ausiliaire et de
l'infinitif, ■ on trouve tantòt une forme de l'infinitif, tantót l'autre. Esemples: 7ndn-
car 'ai foc! puisses-tu manger du feu! candii Si manca, quand tu mangeras.
En roumain, les infinitifs sont très-fréquemmeut pris comme substantifs ; en pa-
reli cas, le substantif est féminin, et non pas masculin, comme en fran9ais et en
itaUen.
— 214 —
Aùisi, on dit en roumain: cu venirea mea, avec mon arrivée, à l'occasion de mon
arrivée (littéralement avec mon venir); — la f acerea cassi, lors de la construction de la
maison {littéralement au faire de la maison); — jjunerea pietre-lor. la pose des pierres
(littéralement le poser des pierres).
'K la fin de ces infinitifs pris coinme substautifs, ou a ajouté l'article féminin de
la première forme a.
On peut se demandar maintenant si l'article féminin a est place quelquefois
devant l'iufinitif, au méme titre qua devant les substantifs proprement dits, les
adjectifs qualificatifs et les pronoms possessifs.
Nous avons entendn, — -très-rarement, il est vi'ai, — des phrases comma celle-ci:
Apol cu a venire a Dumitalle écà ce ai fàcut! Mais avec votre arrivée {littéralement avec
le venir de ta seigneurie), voilà ce que vous avez fait!
Demandons-nous encore: « Devant l'antre forme de l'infinitif, ne met-on pas
l'article «A.. Ne dit-on jamais a veni, a vede, a dice, venir, voir, dire?... »
On trouve, en effet, en roumain le verbe à l'infinitif dépourvu de la finale re,
et précède d'un a; ainsi, on dit: pentru a vede, pour voir; — pentru a ])uté dice, pour
pouvoir dire; et l'on considère cet a comme une préposition.
Mais examinons un peu la phrase a cumperà un cai nu e lucru greii, acheter un
cheval n'est pas ciiose diificile; (en italien, il comprar un cavallo non è cosa difficile).
Il semblerait que « est l'article féminin mis devant l'infinitif; a tieudrait ici la
place de l'italien il qui précède le verbe: Il comprar tm cavallo....
Nous troiivons cet emploi de l'article devant l'infinitif italien dès le XIII^ sie-
de. Ainsi nous lisons : « Più utile è l'acquistare degli amici che reame. » ( Volgarizzamenti
del libro di Catone, Milano 1829, pag. 96).
« Che 'l nominarsi V uomo savio è vizio di grande arroganza. » (Brunetto Latini, Ma-
nuale del Nannucci, 2'' ediz., t. II, p. 301-2).
« L'avere nelle miserie comjjagni suole essere grande alleviamento di quelle [miserie], »
(Boccaccio, Lettere).
Comme on le voit, il est permis de se demander si, en roumain, on ne pourrait
pas considerar Va comme étant l'article féminin de la troisième forme mis devant
l'infinitif.
Lors que l'infinitif a sa terminaison en re, il est facile de le compléter au
moyen de l'article final; vinderea unùì cai, la vente d'un cheval.
Mais lorsque cet infinitif a perdu sa finale re, l'oreille ne lui permet plus de
prendre l'article à la fin; on ne pourrait pas dire cumpèràa un ccd, acheter un che-
vai; on éprouve donc le besoin de piacer l'article devant l'infinitif, et de dire a
cumperà un cai.
L'article a joue, dans ce cas, en roumain, le méme róle que l'article italien il.
— A cumperà un ccd... en italien, il comprar un cavedio...
Le premier article peut ótre suivi d'un second article; ce dernier mis à l'ac-
cusatif. Dans ce cas, en italien, le second article est mis à la suite de l'infinitif;
et en roumain, il est mis après le premier article. Ainsi, on dit: Il comprarlo, non
— 215 —
sarehhe difficile, » et en roumain, <^ A'I cunvpérà, nu ar fi greti, » — « L'acheter ne
serait pas difficile, » ou « il ne serait pas difficile de l'acheter. »
Nous avons dit plus haut que cu al contraete et prononcé rapidemeut de-
vient col.
Dans d'autres circonstances aussi, w suivi d'a produit, en roumain, le son o, sur-
tout si les deux lettres sont prononcées rapidement. Omu alla, cet homme-là, se
prononcé en réalité om olla; — locu alla, ce lieu-là, se prononcé he olla; — Itiàmù,
nous prenons (le verloe est luare, derive de levare), se prononcé rapidement lomii.
Dans una, une, Vn ayant disparu, il est reste M, que l'on fait encore sonner en o.
Obédénabe
Membre correspondant de l'Académie roumaìne,
Membre de la Société pour Tétnde des Laugues Romanes
de Montpellier.
RECHERCHES SUR LiV CONJUGAISON ESPAGNOLE
AU XII^' ET XIV'^ SIECLE.
Le futur et le conditionnel.
La cliute de la voyelle protonique clans ces cleux teiiips est régulière en ancien
espagnol , tandis qua de nos jours l'infinitif n'apparaìt mutile qua dans liabre
liabria, cabré ca'bria, haré haria, podré podria, pondré pondria,
qiierré querria, sabre sabria, tendré tendria, valdré valdria, dire di-
ria, saldré saldria etvendré vendria.
Conjugaison en -er.
aver aber : avré abré, avrie abrie.
arder : ardrà Signos 21.
beber : bevràs Alex. 862; bevràn Alex. 2202; bebrien S. Millan 245; bevrien
Alex. 1986.
e aber : cabré cabrie.
cader : cadré Milagros 764; cadrà Alex. 1B12, 2195; cadràn Cid 3622; cadria S.
Oria 121; cadrias S. Dom. 429; cadriamos Loores 217; cadrian Loores 83;
carria Alex. 81.
coger : codremos S. Laur. 69.
corner : combré Cid 1021; combràs JR. 1137, 1138; corabredes S. Dom. 376, 459, JR.
751; combràn Ditelo 53; combrie «Si. Dom. 355, Apol. 66, JR. 89; combrian
JR. 755.
conte e er : contezria Loores 27.
contender : contendra Alex. 2195; contendremos »S'. Dom. 288; contendredes Mi-
lagros 716.
crecer : cre9rà Cid 1905, cre9renios Cid 688, 1883, 2198.
defender : defendrà Alex. 628.
dever : debria Milagros 760; devries S. Laur. 66; devrias Alex. 467; debria Loo-
res 73; devria Apol. 536, Alex. 210; devrie Apol. 293, Alex. 617, FG.hM;
devryemos FG. 204 ; debrien JR. 104.
28
— 218 —
entender : eutendrà Milagros 180, Alex. 2344; enteudremos Loores 142, Milagros
498; entendredes Milagros 431, 432, Apol. 182, 372; entendràu Sacrlf. 58,
Signos 66, Alex. 69; entendries S. Doni. 431, J.j>oL 497; entendrie Milagros
420, ^poZ. 146.
esconder : escondrie S. Millan 240.
fer : fere ferie dam le P. <ln Cid (fare 108, 819, 2227, 3479); dans les autres textes
toujoiirs fare farla '.
merecer : merezria S. Oria 200.
in e ter : metré 3fE. p. 311 a, Alex. 369, 924, 926; JR. 1064; metrà Sacrif. 206,
Milagros 765 ; metràn Signos 42 ; metrie S. Dom. 200 , Milagros 467 , Apol.
19; metria Apol. 28; metrien S. Millan 413.
moler : moldrie S. Boni. 659.
mover : movrà Ajwl. 100.
parecer : parezré Loores 176; pare9rà Cid 1126.
pender : despendràs ME. p. 312 a, espendremos S. Dom. 487.
perder : perdràs Ajwl. 583; perdredes Sacrif. 297, S. Oria 74; perdrias S. Oria
158; perdria Sacrif. 210; perdrie Milagros 14; perdrian Loores 15.
plazer : plazrà Milagros 215, ^Ze*. 56; ^jlazrie S. Dom. 680.
poder : podré podrie.
pener : pondi'àn Cid. 1666; porre Milagros 658; porràs *S'. Millan 87; comporrian
Duelo 171 ; porne xlZea;. 2283, JR. 552 ; poma S. Dom. 722, xlfe. 739; por-
nemos Alex. 189; pornàn Alex. 2173; pornie Alex. 1089.
prender : iDrendré Duelo 106, Cid 503, J.^o/. 12, 388, ME. p. 318 b; aprendx-é Alex.
4A; prendràs Milagros 479, 609, Alex. 50, 547; preudrà Cid 386, Apol. 319,
390; aprendrà aS. Millan 2, .4Zea;. 3, prendremos Milagros 54; prendràn ^.
-Dowt. 501, Loores 64, Signos 43, Milagros 794, ^?ea;. 69; prendrie & i>om.
582, Milagros 89; prendria il£B. p. .SCS» a.
querer : querré querria.
rremaner : rremandràn Cid 2223.
rrender : rrendré Cid 2582 ; rendriedes ^S'. Millan 402.
responder : respondrà Loores 186; respondremos S. Laur. 35.
roer : rodré JR. 1405.
saber : sabre sabrie.
seer : sere serie,
tanner : tandrà Cid 318.
tener: tenrrie S. Laur. 105; terre Milagros 46; terràs S. Dom. 237, S. Laur. 72,
S. Oria 135; terrà S. Millan 117; terredes Milagros 1; terrie ,S'. Dom. 676;
terria /S. Dom. 17(5, 205, /S". Zaier. 13, 41, Alex. 42; terriedes S. Dom. 510;
terne ;S. Dom. 146, 760, CwZ 450, 3049, Apol. 357, ^Zea-. 5, 205, 377, JR 552,
' Ce futnret 06 oonditionnel ne sont pas des comiiosós do fazer, mais de far=dar et ostar. Fer a in-
fliiencé deràn (UE. p. 3t'i a), qui n'est pas nccessairoment une forme coriompue.
— 219 —
M. des rois mages 19 '; terna Signos 15; ternedes Alex. 725; tcrnàn Signos 59,
Alex. 649, 1290, 18()5; temie S. Doni. 661, ApoL 526, Alex. 248, 864;
tevnia. S. Dom. 742, Signos 34, J/e.«. 133, 2091, FG. 594, .//^. 717; ter-
nian FG. 202.
toller : tolrey Alex. 791; tolrrie Alex. 1714; toldria 4^jo/. 526; toldrie Alex. 1073.
treverse : me trevi'ia Milagros 45.
valer : valdré valdiie; valrria Alex. 62.
veer : vere verie.
ven9er : vencremos Cid 2330; venzrien S. Millan 412.
yazer : yazràs S. Oria 128; yazrà S. Dom. 723; yazremos Loores 185; iazredes Cid
2635; yazràn Loores 183; iazrie S. Dom. 318, 622, Milagros 366; iazria Mila-
gros 815, 827; iazdrie Milagros 203; yaria .4?ea3. 2094.
Les exceptious suivantes s'expliquent par l'eupliouie qui a voulu éviter l'accu-
mulation des r:
acorrerà Alex. 689 "; correràn Signos 22 ; acorreryas FG. 544.
cresceràn S. Dom. 755 '; descreceràn Loores 183.
creerà ifi/a^j-os 534; creeremos Milagros 'Òli; creeràu Sacrif. 53; creeria Milagros
643, Alex. 629; creyeria A^ol. 221.
morreredes Alex. 492 et morrerieu Alex. 910 sont des formes introduites par l'un
des copistes du poeme.
perdere Cid 1022, JB. 165, 166, 566; perderàs Cid 632, 633, JR. 1227; perderà
Cid 1389, Apol. 466, JR. 663 ; perder edes Cid 1530, i^6*. 443; perderàu Alex.
1182, 1290, FG. 242, Ji?. p. 226 6; perderle Cid 27; perderla i^G. 539, JR.
662, 734; perderiemos Cid 45 '.
prenderas ifi?. p. 312 a, Alex. 735; prenderedes FG. (330; apreudei-ia 4?ea;. 18,
mais pent-étre que l'origiual portait: elli mas aprendria.
romper ien Alex. 930, 2176.
estorcerien Alex. 1854-
traeré JR. 692, 905; traeràs S. Millan 268; trayeràs ME. p. 316 b; traerà i^<7. 407.
tremerà Signos 15; tremeràn Signos 63, ME. p. 314 a.
[me] treveria Milagros 787.
volveràs JR. 1138 et volverie xlfex'. 901, s'expliquent également par une raison
d'euphonie.
' Gite d'après la réimpression de K. A. Martin Hartmann . Ueber das altapanische Drtik'ónigsapiel , Bautzen 1879.
- Le vers est corroinpu. Au lieu de Enton(;;es nos acorijerà, 1. Entonz acorrerà.
^ E crescerai! cutiano.
* Aussi est-ìl peut-étre permis de lire perderemos au lieu de perdremos, .S'. Lanr. 68, quoique Berceo ait
ailleui'S les formes abrégées. Mais il vaut mieux lire : |E] nos non lo[sJ perdremos.
— 220 —
Il ne reste cl'exceptions réelles qua les suivantes qui prouvent qne qnelqnes
luies des formes modernes remontent déjà au treizième siècle:
averà liois mnges 101; averliiau Alex. 2255'.
aborreceràn JR. p. 226 b.
asconderian FG. 668.
caeràs Milagros 261; cayeràs Apol. 409; caeredes Alex. 768; caevia S. Mìllan 419.
descogerà JR. p. 226 h; escogera JR. 574.
fales9erias FG. 398.
gradesceria FG. 285.
mere e era ME. p. 307 h.
ofreceremos Roh magcs 70. Le vers exige cefcfce forme: Oro, mira i acenso a el
ofrec[e]remos.
pertenecerà Rois mages 74.
planyeré A^wl. 444.
quet[e]rà Rois mages 71. Le vers exige cette forme.
sab[e]remos Rois mages G9 , mais sabre 10, 29.
temerà S. Dom. 161.
venceràs FG. 404, JR. 492: ven(;eremos Alex. 800, 1283, 2111; venceredes Alex.
1917, daus des hémistiches corrects.
Les copistes cut souvent remplaeé les formes syneopées par celles qui leiir
étaient plus familières, de manière qu'un grand nombre de passages doivent étre
corrigés:
Alli lo eiitenderemos (/. entendremos) que tiene mala manna, <S'. Ihm. 96.
Guaresceré (l. guarezré) por el ruego de los tns paladares, 8. Dom. 776.
Cansariemos en medio, perderiemos [l. perdriemos) la soldada, Sacrif. 136.
Estonce conosceriamos (Z. conozriamos) eom(mo) somos engannados, Loores 188.
En el segundo dia parescerà (/. parezrà) affondado, Signos 7.
Averau (/. avràn) fambre e frio, temblor e callentura, Signos 88.
Entre sus corazones averàn (l. avràn) niuy granfe ardura, Signos 38.
Contecerà (l. contecrà) eso mismo a los malos merinos, Signos 45.
El cuerpo y el alma yaceràn (/. yazràn) en refrigerio, Signos 53.
Aberàn (/. abràn) vida sin termino , nnnca an de morir , Signos 54.
Paresceràn (/. parezràn) las paredes que fueron mal tapiadas, Signos 71.
Los dias son non grandes, anoche^erà (l. anoehezrà) privado, S. Oria 10.
Pei'deràs (Z. perdràs) està tristicia e està crueldat, Aj)ol. Ali.
Que. XXIII, lobos comerian (combrian?) un moton, Alex. 100.
' Ij» vers exige octte formo qui sans doutu peiit. étre corrompilo. Gomme averi
jecrois. perpiis de lire averàn au lìeu de avrtln. AU.r. 165B.
— 221 —
Perderà (Z. perdrà) toda braveza quand(o) yo en al soviere, Alex. 102.
Non me venzeria {l. venzria?) por armas nin por cavalleria, Alex. 642.
Mientre ombres ovier, non caerà {l. carrà, cf. 81) en olvido, Alex. 674.
Quando esfco viessen, perderien {l. perdrien) seso e tiento, Alex. 698.
Quienquier los connoscerie (l. connozrie) qite eran companneros, Alex. 808.
Verien quales a quales conuoeerien (l. connozrien) meioria, Alex. 887.
Ant(e) perderien (l. perdrien) las cabecas que non los coracones, Alex. 930.
Et se a otre la diesse que parecerie (/. parecrie) mal, Alex. 108B.
Et ques perderien [l. perdrien) los suyos que eran por llegar, Alex. 1275.
A duro entenderie {l. entendrie) la lengua de Yconia, Alex. 1355.
Que por nengmia guisa de muert non estorcerien (/. estorcrien), Alex. 1425.
(Ne) nacioron ne naceràn {l. uazràn), cuydo dezir verdat, Alex. 1858.
Que non entenderie (l. entendrie) omne do furan aiuntados, Alex. 1962.
Quienquier lo entendei-ia (l. enteudria) que lo avien a veras, Alex. 2025.
A mi faredes proe, vos non perderedes (/. perdredes) nada, Alex. 2509.
Sy querian yr a ellos o sy los atendeiian (Z. atendrian), FG. 202.
Venzeremos (/. venzremos) los poderes del rrey Almocorre, FG. 223.
Que venceremos (l. vencremos syn duda el moro AlmoQorre, FG. 225.
Venceràs {l. vencràs) todo el poder del moro Almocorre, FG. 238.
Conosceredes (l. conocredes) a donde diestes (el) vuestro ospedado, FG. 247.
De tus buenas conpanuas muclias ay perderàs (l. jjerdràs), FG. 404.
(Los) Moros quando nos veyeren, perderàn (/. perdràn) el coracon, FG. 407.
Venceremos sy esto tii faces {l. vencremos si lo faces) a est(e) bravo leon, FG. 414.
Antes averàn {l. avràn) de mi los moros mal mercado, FG. 546.
Meteredes (l. metredes) grandes duelos en vuestras ve9Ìndades, J^G*. 555.
*Sy yo fuese rey commo tu, ya vengado lo averya (l. avria), FG. 578.
"Fablarian e prometeryan lo que por bien toviesen, FG. 581.
Porend(e) non nos perderemos {l. perdremos) amos en el coudado, FG. 644.
Los cuerdos con buen seso entenderàn {l. entendràn) la cordura, .JF. 57.
Et non perdere (/. perdré) a Dios nin n su paraiso, JR. 163.
Diziendole de mis coj^tas, entenderà (l. entendrà) [la] mi rencura, JF. 626:
Usando oyr mi pena, entenderedes (l. entendredes) mi quexura, JR. 649.
Yo entenderé {l. entendré) de vos algo, (et) oyredes las mis razoues, JR. 651.
Que qual es el buen amigo por las obras parescerà (l. parezrà), JR. 657.
Mas est(e) vos defenderà {l. defendrà) de toda està conti enda, JR. 729.
Vos cantad en voz alta, responderàn (l, respondràn) los cantores, JR. 745.
Ofreceremos (l. ofrecremos) cabritos los mas e los meiores, JR. 745.
Casamiento que vos venga por esto non lo perderedes (/. perdredes), JR. 853.
Ca tu entenderàs (/. entendràs) uno, e el liblo dice al, JR. 960.
Beberia (/. bebria) en pocos dias cabdal de buhon rico, JR. 987.
El tercio de tu pan comeràs (l. combràs) o las dos partes, JR. 1139.
Por la tu grand loxuria comeràs (/. combràs) muy pocas desas, JR. 1140.
_ 222
El viernes pan e agua comeràs (/. combràs) e non cozina. JB. 1142.
Por tu envidia mucha pescado non comeràs {l. combràs) , JR. 1143.
Non te nos defenderàs {l. defendràs) en castillo nin(en) miiro, JR. 1166.
Dezian a la Quaresma: Do te asconderàs (/. ascondràs), cativa?, JR. 1172.
Diz: asim(e) contesceria (Z. contezria) con tu conseio vano, JR. 1321.
Al que el estiercol cubre mucho resplandeceria (Z. resplandecria) , JR. 1363.
Non temerle (/. tembrie) tu venida la carne humanal, JR. 1527.
Venceremos {l. vencrenios) a avaricia con la grada spiritual, JR. 1565.
Con esto venceremos (Z. vencremos) ira, et habremos de Dios querencia, JR. loGO.
Conjugaison en -ir.
comedir : se comidràn Cid 3578.
conquerir : conquerrà Alex. 13.
dizir : dizré S. Doni. 136, Frammento 3'; maldizré Fragmento 25; dizremos S. Mi-
limi 377, 401, Rois mages 78', 92; dizredes S. Dom. 335, S. Millan 365, Mi-
lagros 606; dizràn Milagros 773; dizrie 8. Dom. 55, Milagros 181, 627;
dizria S. Millan 71, Milagros 224, 583; dizrien S. Dom. 232; dirà S. Oria 204;
diràn Loores 116, Sacrif. 42, Signos 14, 42; diriamos S. Dom. 752; diriades
S. Dom. 759. Dans les autres textes dire, dirle (deredes= diredes Alex. 130;
deria = dirla FG. 474).
ennadir : enadràn Cid 1112, en[a]dró Alex. 925; enyadrie Apol. 398.
fallir : faldrà Ajjol. 417;faldràs Alex. 358, mais le vers est corrompu, cf. vv. 262, 379:
l.: Quanto en el juyzio sé que non falliràs ou fallecràs; faldrie S. Millan 195.
ferir : ferredes Cid 1131; ferràn Alex. 61; ferria .4Zea;. 638.
guarir : guarrie S. Dom. 295; guarria 8. Oria 155.
issir:iztremos 8. Millan 327, 8. Lanr. 92; istrie 8. Millan 209, Milagros 337.
mentir : mintré 8. Oria 154, Apol. 232, cf. mintroso; mentrie Alex. 775.
morir : morré Milagros 634, 752, FG. 546, 595; morràs 8. Millan 287, JR. 1432;
morrà Apol. 305, Alex. 629, JR. 121; morremos 8. Dom. 755, Cid 2795;
morredes FG. 631, JR. 811, 1505, 1551 ; morràn 8ignos 20; morria JR. 667,922.
odir : odredes Cid 70, 138, 684, 1024, 3353; ondredes Cid 3292.
oir : oiràs 8. Orla 150 (Oria, abre los oios, e oiràs buen mandado) ; oyrà Loores 214
(Filo lo às e padre, oyrà los [tus] clamores), JR. 1170 (Si muy sorda non
fuere, oirà nuestro apellido); oyremos Loores 103 Oyremos tales nuevas con
que nos gozaremos), JR. 1165 (Oyremos la pasiou, pues (qua) valdios esta-
mos); oyredes FG. 372 (Oyredes Io que fico al conde tolosano), JR 1155
' t'raijmeiito de, un ]>oema caslcUano iiutigiio publié par Octavio uè Tolkdo, Xeitschrifl fin- roiii. l'hilologie 1878.
p. 60-62.
' Lo teste porte dizoremos, mais le vers exige dizremos.
— 223 —
(Vos oyredes [la] misa, yo rezaré rais salmos); oyriedes Sacnf. 107 (oyrie-
des razones que vos faràn piacer); oyrian FG. 310 (Non oyrian otra voz
sy non astas quebrar) '.
partir : partremos Milagros 393.
pedir : pidré JR. 561; pedrie Alex. ll'iCi.
recibir : reoibré Apol. 253; recibràs S. Millan 89, Apol. 389; rccibrà S. Doni. 731 ',
Milagros 257; re9Ìbremos Apol. G51 , Alex. 2062; recibredes Svjnos 32; reci-
bràu ME. p. 307 a; recibrie S. Doni. 21, Mihujros 94; recibria Apjol. 471.
reir : reirian JR 855 (Non la colgarian en (la) plaza, nin reirian do lo que diz).
repentirse : so repintrà Cid 1079; nos repentremos Alex. 685.
salir : saldré, saldria; salrria JR. 662.
seguir : conssigrà Cid 1465; sigremos Alex. 2131.
sentir : consintré JR. 654; consintrà J"i?.539; consintràn Cid 668; sintrie ^S'. Doni. 610,
Milagros 152, Duelo 59; conseutria JR. 1384.
subir : subria Loores 97, S. Oria 50.
venir : nos avendremos Cid 3166; vendràn Alex. 72; venrràn Ajjol. 101; verrà Mila-
gros 390; verria Loores 14; verné Milagros 737, JR. 841; averne JR. 552;
vernàs Cid 2622; verna Loores 133, 170, Signos 13, 14, 26, Cid 532,
2987, Aj)ol. 515, 581, Alex. 1286, JR. 657; vernemos Loores 170; vernàn
aST. Doni. 243, %)ios 3, 16, 24, Milagros 169, Cic^ 1280, i^G. 407; vernie
S. Doni. 207, Cid 1944, J^w?. 369; vernia ioores 34, JR. 567, 1035; vernien
^te. 900, 1297.
vivir: vivré Milagros 297, Alex. 41, bivràs JjjoZ. 102; vivràs JR. 234; vivremds
Loores 185, ^Zecc. 232; vivredes Signos 30; vivrie /S. Dom. 172; vibria S. Mi-
llan 43; vivria Alex. 1770, 2214 '; vivrian Alex. 2184.
Des verbes tels qiie abriré, cubriré, conipliré, sufriré, étaient de leur
nature incapables de perdre la voyelle protonique. Dans les suivants c'est l'eupbo-
nie qui a maintenii l' i :
,destru|iran S. Millan 287; destro|yràn Alex. 1689.
escarniremos Cid 2551, 2555.
gradirà Milagros 189.
partire ME. p. 311 a; partirà Cid 1106; partiremos Cid 1055, 2716, Reyes de Or.
p. 320 a; departiràn Cid 2729.
' Oyrà paraìt compter pour trois syllabes, Alex. 1218, mais avec ce mot le passage ii"a pas de seiis:
Veerà dolor doblado qual nunca fue oydo,
Qual oyra (I. probablement oviera) de ti la quo te ovo paride.
Je ne crois pas non plus que oyra soit le plus-que-parfait.
■' Au lieu de r ei;. ibr a mal g alar don 1. peut-étre avrà m. g.
* Le vers est fautif; 1. La una sen la otra ya [mas] nunca vyvria.
224
primirien Ml/u<jr<it< 242.
servire ME. p. HU a; serviremos Cid 622; sirvirie JR. 1403.
Les exceptions sont :
fallire Alex. 362; fallirian Alex. 379; falliràs semble devoir étre rétabli dans le
vers suivant de VAlex. (358): Quanto en el juyzio sé que non faldràs.
fu|yran Loores 183.
ixiria S. Boni. 101; exirie Alex. 2030.
morirle Carta 1.
salirà JR. 485.
seguiràn JR. 1671.
subirà iSignos 5.
vanirà FG. 625.
Il y en a d'autres très nombreuses dans les vers suivants dans les qnels les for-
mes syncopées sont à rétablir :
EUos con el tu filo partiràn (l. partràn) los gualardones , Loores 165.
Allis(e) partirà (l. partrà) por siempre mentii-a de verdat, Loores 170.
E dissoli por nuevas que paiirie {l. parrie) a Messia, Milagros 53.
Mas vivré con rancura, morire {l. morré) con repentenca, Alex. 41.
Exirà {l, Istrà) Grecia de premia, tu ficaràs ondrado, Alex. 74.
Exirien [?] del cavallo los que serien encerrados, Alex. 697.
Salvaredes a Grecia, el muudo conquiriredes (/. conquirredes) , Alex. 725.
Ante morrerien {l. morrien) todos fasta[e]l postremero, Alex. 910.
Morreredes {l. morredes) de tal mano que vos deve plazer, Alex. 1207.
Nunca sentirà {l. sentrà) beudez qui la ovies tannida, Alex. 1323.
Dizerté quet(e) contyrà (/. contrà) sem(e) non quisieres (/. quieres) creer, Alex. 1764.
*A1 menos XXX cavalleros de mas [yo] non mentirla (/. mentria) , Alex. 1814.
Mentiriemos {l. mentriemos) se dixiessemos que non avie dolor, Alex. 1930.
Non ferirle {l. ferrie) mas apriessa pedrisco en taulado, Alex. 2066.
Que non morirla (Z. morria) por esso ante del posto dia, Alex. 2088.
Mas destaiado era que en mar non morirla {l. morria), Alex. 2146.
Nunca sentirà (/. sentrà) teniebra, fnen) frio nen calentura, Alex. 2174.
Matartàn traedores, morreràs [l. morràs) apoconado, Alex. 2327.
Sennor, los tus criados aora nos partiremos {l. partremos), Alex. 2485.
Non avràn ningun miedo, visquiràn {l. vivràn) en tus posadas, FG. 62.
Visquiran {l. vivràn) por està guisa seguros [e| en paz, FG. 66.
Que gela conquereryan {l. conquirrian) , mas non lo bien asmavan, FG. 133.
Caer o levantar, ay lo departiremos (/. departremos) , FG. 222.
Non me partyré (/. partré) de ti en todos los mis dias, FG. 398.
— 225 —
Moriredes (l. morredes) commo malos, la terra perderedes, FG. 443.
Et que partirias (/. partrias) con pobles et non farias fallen9Ìa, JR. 240.
Non la consintirà (l. consintrà) fablar contigo en poridad, JR. 617.
Coracon, por tu culpa vivìràs {l. vivràs) vida penada, JR. 760.
Bien sentina (l. sintria) tu cabeza que son viga (de) lagar, JR. 992.
Perdonastes mi vida, e vos por mi viviredes (l. vivredes), JR. 1406.
Remarque.
Lors méme qu'il arrivo assez fréquemment que un ou deux pronoms aéparent
l'inflnitif et l'auxiliaire comme dans fer lo lié, facer lo he, dezir te lo lié,
dezir vos é etc. , on peut dire que la composition ou l'union de l'infinitif avec
l'auxiliaire est parfaite. Mais il y a des cas où la composition ne s'opère pas, c'est
quand l'auxiliaire précède l'infinitif ou qu'il est à un autre temps que le présent
ou l'imparfait. En latin, comme on sait, la place des deux éléments n'était pas
fixée. Dans les écrivains classi ques et dans ceux de la décadence habeo suit ou
précède indifféremment l'infinitif, ainsi que le montrent les exemples de R. Kùhner,
Ausfiilirlicbe Grammatik der lat. Spraclie, II, p. 496, et ceux de Eònsch, Itala
und Vulgata, p. 447-449. La méme liberté se retrouve dans les exemples bas-latins
cités par Diez, Gramm., Ili p. 237. De cette construction nous en avons des dé-
bris en ancien portugais, et je crois devoir l'admettre aussi dans les passages sui-
vants et dans d'autres qui se corrigent le plus aisément en la rétablissant.
Mucho de mayor precio a seer el tu manto
Que non sera el nuestro, esto yo te lo canto, S. Laur. 70.
Por el tu guyonage avemos arrivar
Et de aquellas ondas tan fuertes escapar, Loores 197'.
El Campeador a los que han lidiar tan bien los castigò , Cid 3623.
Oy a seer el dia que lo às de provar, Alex. 1526.
Qual galardon espera, en cabo ha (de) recebir.
Se mala vida faz, mala la ha padir, Alex. 1651.
Cuntan las escrituras un [muy] sabido canto
Porque an los infiernos prender muy grant espanto. Alex, l'ili .
Prophetaba la cosa que avenir avie. S. Doni. 284.
' Quoique je regarde cet exemple comme assuré, je dois sigualer la possibilité de lire ar
Milagros ^Sì e ribadas S. Oria 43.
— 226 —
Todos avian el cuerpo de Christo rescebir, Sacri/. 285.
Cnenio fazer avieu, estavan ya faladoa, Alex. 1537.
Cuemo es la natura de los omnes carnales,
Que ante de la mnert sienten puntas mortales,
Ovo el Sancto padre sentir iinas atales, S. Doni. 490.
Sii passò 0 sii plogo , triste e desmedrido ,
Ovo del pleito todo venir desconnocido, Milagros 696.
Un ricombre que mal sieglo pueda alcancar
Ovos de la reyna tanto enamorar , Alex. 148.
Pero tanto ovioron contender e buscar
Fasta que lo ovioron en cabo a fallar, Alex. 2082.
Hobe con la grand coita rogar a la mi vieja, JR 903.
Gommo se nos ovyera todo esto olvidar, FG 221.
Siempre faz con conseio quanto que ter ovieres, Alex. 48.
Oviessen Iiy las pasciias por siempre celebrar, Alex. 1949.
Lo que yo non querria abré(lo)aqui passar, S. Dom. 51.
La méme construction me parait devoir étre rétablie dans d'autres passages
modifiés par les copistes pour qui elle était vieiUie. C'est du moins la correction la
plus aisée et la plus vraisemblable dans les vers que voici :
Lo que debia él dar, (viene) de mi a recebir, Loores 44.
Si às(a) enflaquecer (mais onpourrait lire enflaquir), mas te valrria morrer,
Alex. 62.
El bien d'aqueste muudo todolo à(a) perder, Alex. 726.
Cuemo omnes que tal cosa, ciertamiente an(a) ganar, Alex. 744.
Quanto gana el omue, todo lo ha (de) dexar, Alex. 1646.
pues non as(de) pelear? FG. 51.
AUi lo avian(a) aloar, non en otro lugar, Alex. 176.
Quando primieramiente venist(i) en est(e) logar,
Non te paguesti delli, ovistilo (a) dessar, S. Millan 114.
227
Ovo quando les quiso el Criador (a) prestar, Alex. 691.
Ovo està fazienda XV dias (a) durar, Alex. 1903.
Onde ovioron (a) caor enna su maldicion, Alex. 1944.
Vuscandol(o) por Espanna, ovyeron lo(de) fallar, FG 30.
E ovyeron por tanto las Asturias (a) linear FG 82.
Ovyeron le entrramos al traydor (de) matar, FG 649.
Esas oras (1. Essora) ovo el conde centra Leon (de) mover, FG 726.
Tableau des conjugaisons en ancien espagnol.
Indicatif présent.
canto
vendo
meresco
parto
cantas
vendes
mereces
partes
canta
vende
merece
parte
cantamos
vendemos
marecemos
partimos
cantades
vendedes
merecedes
partides
cantan
venden
merecen
parten
I?.rPÉEATIF.
canta
vendi -e
parti -e
cantad -at
vended -et
partid -it
SUBJONCTIF
PEÉSENT.
cante
venda
meresca
parta
cantes
vendas
partas
cante
venda
pa.rta
cantemos
vendamos
partamos
cantedes
vendades
partades
canten
vendan
partan
Imparfait.
cantaba
vendie -ia
partie -ia
cantabas
vendies -ias
parties -ias
cantaba
vendie -ia
partie -ia
cantàbamos
vendiemos
-iamos
partiemos -iamos
cantàbades
vendiedes ■
-iades
partiedes -iades
cantaban
vendien -ian
partien -ian
228
cantando
cantant -e
Géeondif.
vendiendo
Paeticipe peésent.
vendient -e
partiendo
partient -e
cante
cantesti -este -est
cantò
cantamos
cantastes
cantaron
Prétérit.
vendi
vendisti -iste -ist
vendió
vendiemos
vendiestes
vendieron
Plus-que-paefait (Conditionnel).
cantara vendiera
cantaras vendieras
cantara vendiera
cantàramos vendiéramos
cantàrades vendiérades
cantaran vendieran
parti
partisti -iste -ist
partió
partiemos
partiestes
partieron
partiera
partieras
partiera
partiéramos
partiérades
partieran
cantaro -àr -are
cantares
cantare -àr
cantàremos -armos
cantàrades -ardes
cantaren
FUTDE.
vendiero -iér -iere
vendieres
vendiere -iér
vendiéremos -iermos
vendiéredes -ierdes
vendieren
partiero -iér -iere
partieres
partiere -iér
patiéremos -iermos
partiéredes -ierdes
partieren
Plds-qce-pabfait du Subjonctif (Imparfait).
cantasse -às
cantasses
cantasse -às
cantàssemos
cantàssedes
cantassen
vendiesse -iés
vendiesses
vendiesse -iés
veudiéssemos
vendiéssedes
vendiessen
partiesse -iés
partiesses
partiesse -iés
partiéssemos
partiéssedes
partiessen
229
cantado -a
Paeticipe passe.
vendido -a
vendiido -a
partido -a
cantar
Infinitif.
vender
Fdtue.
partir
cantare
veudró merecré
partré
cantaràs
vendràs
partràs
cantarà
vendrà
partrà
cantaremos
vendremos
partremos
cantaredes
vendredes
partredes
cantaràn
vendràn
CONDITIONNEL.
partràn
cantarie -ia
vendrie -ia
partrie -ia
cantaries -ias
vendries -ias
partries -ias
cantarie -ia
vendrie -ia
partrie -ia
cantariemos -iamos
vendriemos -iamos
partriemos -iamos
cantariedes -iades
vendriedes -iades
partriedes -iades
cantarien -ian
vendrieu -ian
partrien -ian
J. COEND.
COMPLAINTE PROVENGALE ET COMPLAINTE LATINE
SUR LA MORT DII PATRIARCHE D AQUILEE
GREGOIRE DE MONTELONGO.
Ces deux pièces ont été écrites au XIV*» siècle sur l'avant-clernier feuillet (fol. 143) du
chansonnier provencal de l'Ambrosienne (R. 71 sup.). Elles ont été signalées par M. Bartsch',
qui en a indiqué le sujet et reconnu l'intérèt, mais, à ma connaissance du moins, elles n'ont
pas encore été publiées. II m'a paru que l'éloge funebre d'un bomme qui fut en son temps
l'une des gloires de l'Italie, ne serait pas déplacé dans le recueil qui doit perpétuer la mé-
moire des deux savants dont les études italiennes déplorent la perte.
Il serait superflu de dire ici ce que fut Grégoire de Montelongo. Tous les livres qui trai-
tent de la Ligue lombarde, des Guelfes et des GhibeUns, toutes les histoires d'Italie, ont ra-
conté, avec plus on moins de détails, les actes du célèbre légat pontificai, qui fut plus guerrier
qu'ecclésiastique , et ont notamment célèbre l'energie dont il fit preuve lors du siège de Parme
par Fréderic II (1248-9) ^ Grégoire, patriarche d'Aquilée depuis 1251, mourut le 8 septem-
bre 1269. Le planh qui lui fut consacré par un poète certainement Lombard ou Vénitien,
dont nous i^orons le nom , appartient dono aux derniers temps de la poesie proven9ale en
Italie. C'est proprement l'epoque où composaient le vénitien Barthélemi Zorzi et le génois
Boniface Calvo, mais je ne vois pas de raison pour attribuer notre planh à l'un ni à l'autre
de ces deux troubadours. La pièce proven9ale se recommande par une grande simplicité de
fond et de forme. Elle est pleine de bons sentiments, mais d'ailleurs ne se distingue pas par
des mérites bien saillants. Elle n'est pas non plus écrite en une langue très pure: predon, v. 39,
est italien bien plutòt que provenfal; et on en peut dire autant de l'emploi de rancor au v. 39.
Ailleurs l'auteur semble mèler le fran9ais et le proven9al. Le nom mème qu'il donne à sa
complainte, chanplor (vv. 7, 64) est le fran9ais chantepleure. Puis il ne s'aper90Ìt pas que
la finale aire, correspondant au lat. arius, dans contraire (6), essemplaire (25), aver saire (35),
luminaire (49) est fran9aise et non proven9ale. Enfin il crée, par une fausse analogie, les for-
mes 2}erdaii-e (11), deffendaire (45) au lieu de perdeire, deffendeire. Mais ces irrégularités
mémes ont de l'intérèt pour l'histoire de la culture du proven9al en Italie. La forme est celle
' Jahrbuchf. engl. u. roman. Literaiur, XI, 3 (1870).
' Voy. par ex. de Cherrier, Uistoire de la tutte des papes et des empereurs, 2.' ed. , 11,336 et suiv.
— 232 —
d'un couplet de huit vers a rimes enchainées où les quatre derniers vers offrent les mèmes
rimes que les quatre premiers, mais en ordre inverse: ahah , babà. Cette disposition, fort
élémentaire, ne paraìt pas avoir été très usitée. On la retrouve dans une pièce d'ajiparence
assez jjopulaire, de Guillem de la Tor: Una, doa, tres e quatre.
La pièce latine oifre une forme rechercliée sinon rare. Elle est en liexamètres associés
deux à deux par deux rimes, l'uue à la cesure du troisième pied, l'autre à la fin du vers. Le
vers se trouve ainsi divise par la rime en deux hémistiches. Mais la disposition n'est- pas
semblable d'un bout à Fautre de la pièce. Les vingt premiers vers forment dix couplets ayant
chacun deux rimes , l'une pour le premier hémisticlie de chaque vers l'autre pour le second.
Les vers 21 à 32 forment six couplets ayant chacun une seule rime qui se reproduit à la fin
de chaque liémistiche , par conséquent quatre fois par couplet. Enfin les vers 33 et suivants
ne forment pour ainsi dire qu'une strophe où tous les vers riment en ori tant au milieu qu'à
la fin. Ce sont des variétés de ce que les Leys d'amors (I, 172 et 246) appellent rims mul-
tiplicatius.
La pièce provengale et la pièce latine sont de deux écritures bien distinctes et très
sensiblement différentes. Mais il paraìt que le scribe de la pièce provengale a revu la copie
de la pièce latine, car il l'a corrigée en deux endroits ; au v. 42 parciY est ajouté de sa
main, et au v. 43 il a écrit en iuterligne, au dessus à^injyefatori, la syllabe du, la le^on cor-
recte devant étre induperatori.
Paul Meyeb.
233 —
PLANCTUS.
I. Eli cliaiitan m'aveii a retraire
Ma gran ira e ma greu dolor.
Non chan ges con autre chantaire
Que clianta de jois e d' amor : 4
S'eu chan de boca, de cor plor,
C'a chantar m'es razos contraire;
Per que mos cliaiiz a noni chanplor,
Que chanz noni pot de plor estraire. 8
II. Ben deu cel plorar e dol faire
Que pert amie ni bon segnor,
Ni ja om, tro qu'en es perdaire,
Non saura d'amie sa valor. 12
La morz m'a fait conossedor
De mon damnage non a gaire :
Tuit cil c'amon prez ni valor
Devon doler d'aquest afaire. 16
III. Morz nos a tolt lo debonaire ,
Lo prò patriarcha Gregor,
On avian fait lo[r] rejsaire
Tuit li bon aib e li mellor. 20
Qui veira mais tal guidador
Tan prò, tan frane, tan lare donaire!
Passat avia de largor
Alixandre que venquet Daire. 24
11-2. Cf. Hugues de Saint-Cirq:
Nuls lioin non sap tVamic, tro l'a perdut.
So que l'amics li valia denant.
22-i. Cf. Gaucelm Faidit. daiis le plaiili sur la mort de Richard Co?iir-de
Xant larcs , tan pros, tan arditz tals dnnaire
Qu'Aiisandres, lo re.ys que venquet Daire,
No ore quo tan dones ni tan s
— 234 —
IV. De lui fes valors essemplaii'e
E lialtaz Castel e tor.
Als bos fo francs e mercejaire,
Plen d'umiltat e d'aleg[r]ox-. 28
Los crois teni' en tal rancor
Per re non li podion plaire.
Aras sabron gran e menor
Que peri lo filz can mor lo paire. 32
V. Assaz podon cridar e braire
Friolan el veizin d'entor,
Car be savon lor aversaire
Qu'il an perdut lo ben pastor 36
Qui los deffendia d'error
Els crois fazia arreras traire.
Lairon, predon e raubador
An jois, car manz en fes desfaire. 40
VI. Dieus non fes rei ni enperaire
Dels crois tal justiziador,
Tal guerrier ni tal deffendaire
Dels sieus ni ab tan de "^dgor, 44
Que lai on jazia en langor,
Que greu si podia sostraire,
N'avion li croi tal paor
Que non a.usavou vezer l'aire. 48
VII. Laissus en son sant lumiuaire,
O son martir e confessor,
Meta s'arma lo ver Salvaire
E la deffende de tristor, 52
Car s'anc nulz om per gentili cor.
Per lialtat ni per maltraire
Deu iutrar el palais auchor,
Gregor de Montlonc en es fraire. 56
Vili. Mon chanplor tram et a la maire
De Jesuci'ist lo Salvador,
28. Je corrige aleg'rlor, doat il y a un ex. dans Raynouard, Lex. rom., IV, 53; à la rigneur oiiiiou
da (pour de) legar, dont le sens tontefois oonviendrait moins.
31. Sabron t il faadrait sffftrnH.
48. Ce vers n'est pas clair pour moi. Y a-t-il une laute ?
— 235 —
E qnier li coin umil pecaire
Que prec son filz per sa dolzoi* 60
Qu'en la celestial baudor
On son li patriarche maire
Meta l'arma d'aquest ab lor,
Toz om en deu esser pregaire. 64
IX. A l'archediaqne t'en cor ,
Chanplors, que te sia gardaire:
Car a del lignage la fior ,
Be deu al bon oucle retraire. 68
Flebilis est obitus toti mundo patriarche
Cujus sit positus celesti sj)iritus arce.
Ut mater sterilis plores, Aquilegia tris ti s ;
Non dabitur similis patriarcha diebus in istis. 4
Tutor erat legis, inopum tutella, reorum
Pena, lucerna gregis, cleri via, vita bonorum.
Flet Juliense Forum, Campania luget alumpna:
Hujus erat lorum, dux illius atque columpua. 8
Sacra tibi sedes luctus patuit Jeremie:
Quomodo sola sedes, dans materias yronie!
Dum leo rugierat patriarcha Gregorius ille.
Si tunc hostis erat uuus tibi, sunt modo mille. 12
Jam te predones circumdant atque tiranni,
Sciavi latrones , spoliatores Alemani.
Hoc vivente viro latebris latuere latrones.
Qui nunc in giro ponunt tibi seditiones. 16
0 que tristi tia, quis luctus, quale periclum!
Jam vacat ecclesia, fidei titubat redimiclum.
Luctus causa datur dempto pastore fidali ;
Mundus tristatur, exultat curia celi. 20
Ecclesie clipeus hic alter erat Machabeus.
Tu sibi parce. Deus, comitetur eum Galileus.
Copia virtutum si frangere mortis acutum
Posset, erat tutum sibi non penetrabile scntum. 24
Huic non discordet quisquam, quia vivere sordet;
Nemo sibi cor det: vite mors omnia mordet.
Mortis ad adventus fit morsus ubique cruentus,
— 236 —
Labitnr ut ventiis prudentia, forma, Juventus. '28
Tantus gerarcha fidei, tantus patriarcha
Finali parcba modica tumulatur iu archa.
Spii'itui parce, pie Clu'iste, pii patriarclie,
A penis arce summaque locetur in arce. 32
Mente tenere mori memori, patriarcha Gregori.
Suades, nec decori confidere sive decori,
Vatum nempe chori , juvenes fortesve decori
Cultoresque fori moriuntur et ere sonori. 36
Ve tibi raptori cui mundus habetur amori!
Credas doctori, nimium ne crede colori.
Est homo par fiori qui mane stat aptus odori ,
Vespere fetori cedit, velut umbra vapori. 40
Ergo creatori non sit servire labori;
Crede relatori: mors nulli parcit honori.
Induperatori Victoria vieta pudori
Cessit victori , qui nunc latet ede minori. 44
Hujus lectori dictu mens consonet ori.
Te Salvatori placet pia Virgo , Gregori.
Amen.
Quando ruit disce per legis tempora prisce:
M semel et bis e, bis x, Ij rotro misce;
Hac agente die colitur natale Marie,
Septembri mense communi corruit ense.
LA aTJESTT<)NE DELLE RIME
NEI POETI SICILIANI DEL SECOLO XTII.
Adolfo Gaspary , nel suo importante libro La scuola poetica siciliana del sec. XIII,
al cap. La lingua, dopo aver fatto la storia della vecchia e contrastata questione
sulle origini del nostro volgare letterario, con singolare dottrina espone vari dubbi
intorno all'opinione sostenuta da una scelta schiera di filologi italiani, che, cioè, i
componimenti dei poeti siciliani ci siano pervenuti tradotti in toscano. Fra gli altri
il dotto professore aggiunge anche questo (pag. 203 della traduzione italiana di
S. FriedmaiLn): « Senonchè con qiiesta quistione, se le rime siciliane si trovino esclu-
sivamente nei poeti del mezzogiorno, non era ancor fatto tutto; rimaneva 1' altra,
se cioè per avventura, ritraducendo le poesie nel dialetto siciliano, non verrebbero
per inverso distrutte certe rime: che è quanto dire, se attualmente non si trovino
in rima parole che recate in siciliano non consuonan più. Toscanamente o, o ed au
lat. diventarono in egual modo o, con pronunzia diversa, ma indifferente per la
rima; sicilianamente invece 0 divenne n, ii ed au divennero o, ovvero restò V mi. Da
ciò segue che la maggior parte delle rime di ò toscano aperto con 6 chiuso, sicilia-
namente cesseranno d' essere rime. E tali casi trovansi difatti persino in poesie che
senza contrasto sono attribuiti a siciliani. »
Queste rime sarebbero, secondo il Gaspary, /óre, core, mòre con amóre, tenóre,
servidóre , fióre , inizadóre, meglióre, ardóre, signóre; suona con dona, abbandona, coróna;
còsa con amorósa. In siciliano, egli aggiunge, non rimano macchiòne e sodisfazi/me,
ora (sostantivo) con ancora. E non rimano pure merzedc- acede , freno-fino , jjlcno-peno,
rifino , indi ino-mino.
L' argomento in vero è stringente , e quantunque non decisivo , anche a detta
del chiarissimo autore, sarebbe senza dubbio grave, se non ci fosse modo di
provare 0. contrario. Sennonché esso è fondato sul siciliano mbderno, anzi sul sici-
liano offerto dai vocabolaristi ai cultori di filologia; e non si è fatto conto del sici-
liano antico, il siciliano dei secoli XIII, XIV, XV e XVI, il quale differiva non
poco dal moderno.
I dizionari siciliani, non escluso quello del Ti'aina, che ha accolto molte voci da
tutte le parti dell' isola (senza però indicarne la provenienza) ed è certamente il
— 238 —
migliore per molti riguardi, rappresentano il siciliano di Palermo, che è il dialetto
letterario moderno del Veneziano, del Meli e di chiunque voglia scrivere oggi in
vernacolo. Ma essi non registrano il materiale lessicale di tutta l' isola , e molto
meno si curano della fonetica delle città mediterranee, specialmente delle più in-
terne non rimescolate dal commercio, dove, com'è naturale, le forme e i suoni ar-
caici sono conservati o meno alterati. Quando un siciliano di questi paesi scrive in
dialetto, schiva di usare le maniere e la pronunzia nativa, messe in canzonatura
nelle grosse città marittime , e si sforza di scrivere nel dialetto letteraiio , quello che
si parla a Palermo, Messina, Catania, Trapani ecc. E che debba farsi cosi e non
altrimenti, basterà dir questo, che quando pubblicai i canti popolari di Noto, per
essermi attenuto, nella trascrizione, alla fonetica notigiana, ne ebbi censura nelle
Nuove Effemeridi, siciliane da uno dei più bravi cultori di letteratura popolare, dal
Pitré, che nomino per cagione di stima.
Dai dizionari siciliani adunque non si vede che in una zona dialettale del-
l' isola liavvi un suono che ha dell' o e dell' m (Ennese orientale), e- altrove un altro
che ha dell' e e dell' i (Militello, Sortino). ' I vocabolaristi non dicono che in talune
parlate dell' interno le terminazioni caratteristiche del siciliano in-w e ìn-i, finali
atone, fanno o ed e, come in toscano; che mh e nd, oggi modificate in quasi tutta
l'isola per assimilazione in mia e ait, sono ancor vivi nella pronunzia di alcune po-
polazioni dell'isola (il primo in Brente, il secondo nel messinese); non dicono che
i riflessi del Ij sono j in qualche parlata dell' ennese (,/yi(-filius). Il nel geracese {Jìl-
lu), Il nel linguaglossese (JìHk), g nel chiaramontauo {fign), l in tutto 1' ennese {filu),
oltre del glij (Jìghju) rafforzamento àij{fi.gìdu) come si pronunziava nel secolo scorso
da tutti i siciliani che oggi dicono fi.gghju. (V. il Dizionario siciliano di Dei-Bono).
Lo stesso dicasi del Ij implicato il quale ci dà una serie parallela che va dall' /'
al kj da una parte, e al e n al g dall' altra. Un altro suono caratteristico del mo-
derno siciliano è. il dd, = U; ma nel brontese si dice caoallu ecc., non cavaddu come
nel resto dell'isola.
Or tutte queste specialità fonetiche che si trovano qua e là in Sicilia, in eerti
punti limitate a pochi comuni, in certi altri estese a grossi distx'etti, costituiscono
appunto la differenza tra 1' antico siciliano e il nuovo. Sicché quello che ora è par-
ticolare ad alcune parlate o ad iin intero sottodialetto, u.u tempo era generale in
tutti e costituì la lingua scritta fino al secolo XVI e anche ai primi anni del se-
colo XVII, così come la troviamo ugualmente nei codici, a Palermo, a Messina, a
Catania, a Noto. Essa rappresenta senza dubbio una fase dialettale del siciliano,
che restò fissata nelle scritture anche quando, per lo svolgimento interno del dia-
letto e per gl'influssi stranieri, il segno grafico non corrispondeva più dappertutto
al suono parlato.
'Por chi sospetta che Vti siciliano provenga dal dialetto delle colonie subalpine dette ìomlmnli' , i-am-
manto ohe nel pedemontano esso ò riflesso solo deU'ò, non dell' o e dell' o in posizione (cfr. .\scoIi, Ardi,
r/lott. pag. 117-118, voi. Il) ; o avverto che lo riscontriamo in bocca di popolazioni alle quali non si pnó attri-
buire neanche da lontano la parentela piemontese; oltreché, come vedremo, questo suono appartenea a tutto il
vecchio siciliano.
— 239 —
Ma non tutti i suoni del vecchio dialetto avevano una rappresentazione grafica,
6 spesso nn solo segno serviva a figurarne parecchi. Questa povertà di elementi al-
fabetici è tanto più avvertita, quanto più si va indietro nelle scritture, ed ebbi al-
trove occasione di dimostrarlo (Iiitrod. allo studio del siciliano; Noto, 1882, pag. 128).
Del resto non avverrebbe diversamente, se un siciliano di Piazza o di altre località
dell' enuese orientale volesse scrivere divoxiniti, se un sortinese o un militellese vo-
lesse scvìveve fégghjti (filius), se un ennese occidentale volesse scrivere ìiavi o ìianu
(clavis, planus); ed è nota la controversia, non risoluta in un congresso di letterati
siciliani, sul modo di rendere graficamente il e di cumi (flumen) ecc., per distinguerlo
dal s di cam (it. cassa) , di sefjghjri (it. scegliere) ecc. Cogli elementi dell' alfabeto
ch'essi posseggono, che è l'alfabeto italiano, scriverebbero or divoziimi ed or divo-
zioni, or fiyghju ed ov fcgghiu, or juvi ed or liinvi, o j/iifly;', come appunto fa il Traina
nel suo vocabolario. '
Questo disagio era pure sentito dagli scrittori del vecchio dialetto, e lo argo-
mentiamo dalla incertezza nella trascrizione di certe parole.
Lo Scobar ora scrive apparickiari , incumharij aHckellu,fiirtickellu, ed ora, appja-
richari, iuchumbari, aiichellu, furticliellu. — Una volta scrive aimJd, un'altra aurichi,
e poi altrove troviamo pure aurechi. — Amunifitini, cimcessiuni, cunfirmaUnni, cun-
fusiuni, cimsidaciuni, difinsiuni, distrnciuni ecc. ecc., accanto ad ainunitioni, cuncessioni,
cunfirmationi , confusioni, cunsidacioni, difinsioni, distrucioni. Scrive cnntra e contra, cur-
chula e corchula (*cochlula) , cuncavu e concavu, culunna e culonna, coma e cuma,jurnn
ejormi,, demuniu e demoniu, dipusitae dipositu, disiirdini e disordini, feruchi e, f crochi,
cusa e cosa (anche nelle Costituzioni benedettine e' è un cu7n zo sia cusa kl e nella
Conquesta, dui cusi, al cap. XXVI), pampa e pompa, ricugliri e ricogliri, riturnu e
ritornu, returchiri e retorchiri, purfa e porta , spiujla e spogla, stumacu e stomacu , tu-
nica e tonica, vutu e votu ecc. — Andriotta Rapi scrive umini (387), cnnfortl (385); e
Scobar, homu e cuHfurti;le Costit. bened. virgogna, lo Scobar vergugna; in un atto no-
tarile del sec. XVI j^aglalora, lo Scobar lìaglalura ecc. ecc.
E giova avvertire subito che è ben difficile non riscontrare queste voci nelle
varie parlate dell'isola, pronunziate in un modo o nell'altro, non dico già nelle po-
polazioni dove persistono i siioni ù ed é, ma anche dove l'è si fissò in i e Vfi in o,
per influsso principalmente del toscano che nei prinoipj del sec. XVII, divenuta la
Sicilia provincia spagnuola insieme col Napolitano e col Milanese, sostituì nel lin-
guaggio ufiiciale il vecchio siciliano adoperato fino a quell'epoca.
Or se cusa per cosa lo abbiamo nel vecchio dialetto, se il normale riflesso dell'o,
Al dottor Eugenio Paiiselle {ì^hcr Aie spracliformen der allesien sio'ìianìschen rliroiiiken. Halle a S. 18S3,
pag. 27, n.) pare innaturale che il vecchio siciliano avesse questa gutturale sorda, j>crc1w in nessuna parte deì-
Vìsolay el dice, Ofjgi trovasi esistente. Un'indagine più estesa mi permette ora di confermare la pronunzia aspi-
rata del eh nel vecchio siciliano; e se per ammetterla la difficoltà è solo questa, gioverà sapere che il suono //
trovasi vivo In molte parlate dell' ennese, e il Traina non potè trascurarlo nella seconda edizione del .'ìuo Voca-
bolario Siciliano (Torino 1877), dove alla lettera H si legge: » Questa lettera servirebbe per esprimere la pronun-
zia aspirata di alcuni sottodialetti, simile alla x greca equivalente a e, cìi, e se; che i nostri antichi scrivevano x
(e qui sbaglia) e io secondo la pronunzia più forte di altri paesi, scriverei anche Jhi. »
— 240 —
da qualunque base latina provenga, fa ù in una parte dell'isola e iacea anche h nel
vecchio siciliano, possono benissimo rimare fra loro, quando si voglia ritraduvli,
cosa e amorosa, fare, core e amóre, valóre (un curi scusso scusso lo abbiamo in un canto
popolare di Messina, rs. Vigo, Raccolta ampi, al n. 2706); e rimeranno suona con
abbandona e coróna; dappoiché la diversità tra ù ed n è tanto poco sentita da riuscire
indifferente per la rima. Lo stesso si dica per óra-aiicóra, che fanno ura-ancùra nel-
■l'ennese orientale.
Non ci fermiamo molto alle rime phno-meno, mino- rifino -incliino. Intorno al la-
tinismo pieno che in Sicilia fa hjnu per il normale riflesso è-i, oltre dell'esemjsio ci-
tato dal Gaspary, tratto dalla Conquesta di Fra Simone da Lentini, eccone un altro,
più recente (sec. XVI): plenu di rabbia e di rancuri, nella Vita di S. Corrado piacen-
tino del notigiano Girolamo Puglisi, III-97; e un altro ancora: Videnda la ligiji
piena, nei Canti pop. del Vigo al n. 3438, dove è in rima con cena.
j\[inu è ancor vivo nel siciliano d'oggi (cfr. il Vocabolario del Traina); e nell'an-
tico non ricordo d'aver trovato mai menu. E siccome mino-rijino, mina-inchino tosca-
namente non sarebbero in rima e lo sono invece sicilianamente, così essi anziché
indebolire, rafforzano la tesi del D'Ancona, del Comparetti, del D'0\idio, ecc.
Occorre però giiistificare merzede- acede, freno -fino. Nello Scobar e nel Traina
mercedem dà merci e merzi; ma il Del Bono nel suo Dizionario siciliano, Palermo 1752,
registra mercedi e merceduzza; e sono comuni in Sicilia: S. Maria di la Mircedi, Mo-
nacu di la Mircedi, Cresia di la Mircedi. Può essere che sia un latinismo, ma non deve
sorprendere che questo ed altri siano stati usati dai poeti siciliani del sec. XIII,
come non sorprendono gl'italianismi frequentissimi del Meli,
Fremi è una delle eccezioni al riflesso siciliano i per e cliiuso originario. Non è
solo; noto fra gli altri esempi: agéa (beta), velu, vela, auena, bestemia, sirena, Cresia,
fiéhili, daveru, cera e ««(/«jfa^sedia), debuli, Jcjericu, premiu, tirrenu, né, Maddalena, Mu-
séu, ruvetn, ecc. Ma, or nelle vecchie scrittiire, or nell'interno dell'isola, leggiamo e
udiamo: aita, vilu, vita, aina, j astima, sirinu, Chisia, sividi, dammiru, sidia, fjividi, chi-
ricii, primiu, tirrinu, ni, Maddalina, Musiu, rucitu. Migliori indagini ci potranno of-
frire l'occasione d' imbatterci in un frinu. Ma ancorché non si trovi, potea benissimo
in siciliano /re«it rimare con fenu (fin-; cfr. Diez, Et. W'òrt. s. 'fino"); e può anche
trovarsi in qualche parlata /ems pev finn, così come c'è venu e vinu (vlnum), renu e
riiìiu (orlganum).
Non so se si possano ugualmente giustificare le rime imperfette dei poeti to-
scani classificati nella scuola poetica siciliana del sec. XIII; ma per ciò che si rife-
risce ai poeti siciliani, non dubito che l' argomento delle rime non abbia ancora il
suo valore dimostrativo in favore dell'opinione per la quale si vogliono quei compo-
nimenti scritti prima nel dialetto dell' isola e poi tradotti in toscano.
A mio avviso però la stessa tesi non può essere sostenuta per la Tenzone di
Cinllo o Cielo d'Alcamo. Per le rime non già, che esse possono ridui'si, ma per certe
forme e per alquanto costruzioni sintattiche ignorate dal siciliano moderno e non
riscontrate nell'antico. Gosi per peri, (piaci, pareAo, oitama, carama, casata, perderà, to-
— 241 —
cara, mo.sfira, degnava, poterà, percazare, teve, mene, disdotto, podestà (di cui alcune si
leggono nel Keijimen annitatis (poesia in vecchio napolitano pubblicata e illustrata
dottamente e da par suo dal Mussafia) non sono foi-me siciliano. Nò lo sono questo
costruzioni: Poi tanto trahagliasti (verso 66 ) che fa riscontro con simili maniere del
Regimcn sanitatis ai versi 294, 313, 649; follia lo ti fa fare (verso 6 ); piM- di repentere
(v. 5"). Il 21", Se n tuoi parenti trovanmi e che mi pozon fare? dovrebbe tradursi: Se li
toi parenti trovanmi et hi mi poczou fari?, e così la misura non viene. Se poi facciamo:
Se i toi parenti ecc., sarà siciliano moderno, ma non antico, dove non ho mai visto i
adoperato per li. Ed è notevole anche questo , che oggi nelle canzoni popolari il
poeta siciliano preferisce li ad /, quantunque poi in prosa dica sempre i.
Potrei portare altri esempi, ma non mi par questo il luogo di parlarne più a
lungo. Aggiungo solo che, provatomi a tradurre in vecchio siciliano una dozzina di
strofe della Tenzone, il componimento ha conservato un'aria napolitana spicca-
tissima.
E poiché il discorso «^. caduto sulla Tenzone, non sarà forse inopportuno di fare
qualche osservazione sul nome del suo autore, a soddisfazione d'.uu desiderio del
D'Ovidio {K. Antologia, marzo, 1882). Celi, Ciido o Ciullo sono nomi che s'incon-
trano nelle scritture del vecchio siciliano, fin negli atti dei notaj del secolo XVL
Cheli (pronunziato Keli e poi celi) è accorciativo di Micheli. Oggi in Sicilia si dice
Mikeli, ma è neologismo ; e abbiamo, a testimonianza dell'antica fase fonetica, Borgo
S. Miceli in provincia di Galtaidsetta, Porta S. Miceli a Morreale e il cognome Miceli
molto diffuso nell'isola.
Per Ciulo o Ciidlo, esso non potrebbe essere il diminutivo di Vincenzo, come da
alcuni si volle ; che avremmo avuto Czullo, se mai. Chula invece comparisce in qual-
che atto notarile del sec. XVI qtial diminutivo di Lucilia. E che Clmla potè anche
pronunziarsi Ch'ulla lo desumo dal cognome siciliano P>i Ciulla, foggiato come gli
altri cognomi Di Maria, D'Anna, D'Agata, D'Antona, Di Chiara, Di Lucia, ecc., comu-
nissimi nell'onomastica siciliana.
Noto, 2 aprile 18S5.
COERADO AvOLIO.
UN 8EEVENTESE DI UGO DI 8AIN CIRC.
Ugo di Sain Gire, come altri trovatoi-i in Italia, non soltanto cantò di amore,
ma s' interessò anche alle cose nostre. E questo egli fece per lo più nella Marca Tri-
vigiana, paese ove stette di preferenza, ben accolto da Alberico da Romano, fra-
tello di Ezzelino. Noi qui non vogliamo studiare queste relazioni del trovatore con
uno o con entrambi i fratelli da Romano, ma prendere in esame il più importante
serventese eh' ei ci abbia lasciato. ' E una poesia che non splende per grandi bellez-
ze, e certo non è delle più belle che la passione politica de' trovatori abbia prodotte;
ma ha interessato sinora per le allusioni storiche, e interesse ancor maggiore desterà
quando verrà dimostrato che essa viene anzi a supplire a' documenti storici ed è uu
documento essa stessa.
Vogliam parlare della poesia che comincia: Un siroeiites vueill /aire eii aquest son
cl'en Gui. Essa ci trasporta in un momento della lotta di Federigo II contro le città
dell'Alta Italia e il Papa, lotta che non si chiude ne' confini tra cui si svolge, ma
di tutta Europa mantien sospesi gli animi, e assume quasi perfino il carattere di
crociata.
Però, come il papa ed i guelfi, anche Ugo di Sain Gire voleva che tutta Europa
si movesse contro Federico II. Egli che in patria aveva assistito alla distruzione
degli Albigesi , all' umiliazione de' conti di Tolosa , agi' interventi de' re di Francia
e d'Aragona, alla morte di quest'ultimo, vedeva come l'ipetersi in questa lotta la
guerra contro quegli eretici, e riteneva che l'ira di Dio, come su costoro, sa-
rebbe certamente piombata anche sul potente imperatore. Gosì pensava Ugo col
suo spirito di chierico, che egli portò dal seminario di MonpelHer, che le scene di
' Ne parlò già il Diez, Leben aììd Werk'e 310 s»., ponendolo innanzi al 1217. Il Gaspury, Gescliichte d. iUiUe-
nìschen Litcraiur , p. 53 e nota in appendice, lia corretto il ragionamento del Diez, assegnando il serventese ad un
torno di tempo , che è il giusto. Noi dopo indagini fatto di proposito e sorretti poi nella nostra persuasione
dalla lezione del codice estense, possiamo dare l'epoca precisa in cui fa scritto, la quale ditferisce di pochi
anni da quella del traspary, che lo credè composto dopo il 1246.
Quel che è detto del nostro serventese nella Bistoire Litiéraire de la France. , voi. XIX. è affatto privo
d'interesse. Senza interesse e scorretto è ciò che dice il Brinckmeier. Die provenzalische Troubadours als
lyriaclie und. polUiscìie Dicliter , Gottingen 1882, p. 265, a proposito di questo serventese e di altre poesie poli-
tiche del nostro.
— 244 —
terror'e seguite nelle sue coutrade gli raffoi'zarono , e cke certo contribuì a ringa-
gliardirgli il soggiorno nell' Alta Italia , in mezzo ai furori del gi;elfismo, sotto
r impressione degli avvenimenti straordinarii cke si andavano svolgendo.
Il trovatore manda il suo serventese a Faenza al signor Guglielmino, al conte
Guido Guerra, ai signori Michele Morosino, Bernai'do del Fosco, a Ser Ugolino ed
agli altri di là dentro; v. 1-8. Si tratta manifestamente dell'assedio di Faenza, in-
trapreso da Federico II alla iine di agosto del 1240, e durato sino al 13 di aprile
del 1241. ' La nobile città resistette otto mesi, mentre l' imperatore credeva dovervi
spendere poco tempo e fatica. Nelle lettere datate dall'assedio di Faenza egli cer-
ca,va dissimulare 1' acei'bo disinganno che gli faceva provai-e quella valida resistenza;
e aggiungeva eli' era aff'ar di giorni, ma che infine se ne sarebbe sbrigato presto. "
Gli avversarli però vi vedevano l'impotenza dell'imperatore, e il trionfo della loro
causa giusta; Ugo di Sain Gire sente partir dell'animo il suo serventese, e: « quale
che sia il vostro stato lì dentro, egli dice agli assediati, sappiate che la vostra fer-
mezza, e il bel nome, e il pregio, e la lode che la gente dice di voi, vi coronano
di onore! sol che facciate buona fine! »
Notissimo fra que' personaggi è il conte Guido Guerra. Egli tenne lungamente
la parte della Chiesa contro l'imperatore, e con forte nerbo di combattenti corse in
aiuto di Faenza, mentre altri mille soldati bolognesi e veneziani venivano pure ac-
colti nella città. ' E quanto notevole fosse la parte del conte Guido in queste lotte ,
mostra anche una lettera che il 26 ottobre del '43 papa Innocenzo TV gì' inviava
per mostrargli tutta la sua gratitudine, ' e le trattative che Federico stesso inizia
per riaverlo tra' suoi fautori. '" Un altro personaggio noto è Michele Morosino (piut-
tosto che Aloresino, come dice il serventese), veneto, potestà di Faenza appunto in
quell' anno , '' e ricordato come valoroso duce e combattente : esso si nasconde sotto
la forma greca Maaroceno nella Cronaca del Dandolo. ' Ser Ugolino potrebbe essere
Ugolino Giuliano di Parma, creato conte di Romagna nell' agosto del 1220 dal le-
gato dell'imperatore, Corrado vescovo di Spira e di Metz, ma che per ordine
espresso di Federico II fu nel giugno 1221 sostituito da Goffredo di Biandrate: '
egli adunque avea ben ragione di mantenersi avverso a Federico 19 anni dopo, e di
continu.are ad aizzare le Romagne contro di lui. Su GugHelmino esprimiamo sem-
plicemente la congettura che possa essere Guglielmo di Camposampiero, fuggito da
Verona poco prima dell'assedio di Faenza, temendo l'ira dei fautori di Ezzelino e
' Muratori , ^Kjirt/i d* Italia, voi. Vii. Notizie sull'assedio di Faenza si cercano invano nel Cantinelli,
Clironicon Faucntimim, ap. Mittarelli, Ad rerum itnlic. script, accessioties.
' Huillard-Bréholles, IJistoria diplomatica Prìdertci //, t. V, "J nelle lettore datate da Faenza ì>a-?.'iim.
Schirnnachei-, Kalner Fi-idcricli der Zweite, III, 169.
' Aiinales Piacentini (libellini, in Pollastrelli Clironica Iria Piacentina. 181. Schirrmacher, I. e. 168.
' Huillard-BrélioUes, ib., VI, 1.16.
'■ Huillard-Biéliolles, ih., 137.
" .Schirnnaeher, 1. e. 168. Gli Annalea Piacentini dicono che era veneto. I. e.
' Chrunicon, in Muratori. ìì.. 1. S., XII , 352.
" Huillard-BréhoUe.^, ib., IntrodKclion , paff. CDLX-^vn.
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dell' imperatore, e ricoveratosi nel suo castello di Treville. ' Di Bernardo del Fosco
non ho rinvenuto notizia, né è difficile che non ve ne siano. '
Ma i difensori di Faenza hanno maggior significato per Ugo di Sain Gire
come difensori della Chiesa e della religione , « contro colui che non crede in Dio e
nella Chiesa e si fa lecito ogni delitto » ; v. 9 sg. Federico II in quel tempo era di-
pinto co' caratteri più neri nella fantasia de' credenti: tutti parlavano della sua
vita affatto oi'ientale , dell' harem in Lucerà , tutti sapevano riferire le sue parole
ingiuriose e le bestemmie contro le cose sante; e papa Gregorio IX il 20 marzo
del 1239 r avea scomunicato dal Laterano , lanciando contro di lui le più acerbe
accuse, fra le quali che Federico fosse 1' autore del libro de trihus impostoribus : ^ ciò
che lo faceva simile all' anticristo. Pare quindi che Ugo sia mosso dalla propria
coscienza a scagliare 1' amaro serventese contro « colui che non crede né alla Chiesa
né a Dio, né all' alti-a vita dopo morte né al paradiso, e dice che 1' uomo è niente
poi che perde lo spiro ». Parole nelle quali il trovatore appare come schietta eco del
popolo; e cosi quando dice che Federico non s' astiene da crudelttà e da delitti egli
accennerà pure a certi fatti, come tradimenti ed avvelenamenti, che si facevano pe-
sare sulla coscienza dell'imperatore: il quale nell'assedio di Brescia del 1238 avea
rinnovata 1' opera di Federico I attaccando alle sue macchine di guerra i prigionieri
bresciani. '
Subito accanto a Federico, viene il conte Raimondo VII di Tolosa, che per Ugo
di Sain Ciré ha molti punti di contatto con l'imperatore de' Romani; v. 17 sgg. E
« se il conte Raimondo lo sostiene, guardi che faccia suo prò », egli dice, perchè
di questo ricalcitrare al papa ed alla Chiesa, ei doveva sentirne gli effetti più di tutti.
Riacquistati appena i suoi dominj , perduti dal padre Raimondo VI nella guerra
degli Albigesi, egli li avea riperduti affatto, dopoché il 29 gennaio del 1226 il car-
dinale di Sant'Angelo, legato del papa, lo scomunicò e lo dichiarò eretico, e Lu-
dovico Vili s'incaricò di fargli la guerra, e s'impadronì di tutte le città e castella
di Linguadoca, sino a quattro leghe da Tolosa. ' Parte ne ricuperò nel trattato di
pace con Luigi IX il 1229;'' parte più tai-di e anche per benevolenza di papa Gre-
gorio; altri non riebbe mai più, come Avignone, Nìmes, Uzès e Gourdon. Fatto é
eh' ei perdette tanta parte de'dominii aviti per causa del papa, dice Ugo; e il re
Pietro d'Aragona, del quale egli avea sposata la sorella Sancia, ripudiata nel 1241, '
morì per sostenere la causa di lui e di suo padre. Ora parea proprio che Raimondo
dovesse pigliar parte attiva a favore di Federico. Già verso la fine di settembre
' Schirrmacher . 1. e. 167.
" Si potrebbe pensare ad un orroro del manoscritto per Bernardo de Rosso (o de Rossi) da Parma che
nel 1238 si volse alla parte della Chiesa, ofr. Ann. Piacentini Gihel-, 153. Sarebbe andato in Faenza con Guido
Guerra e coi Bolognesi e Veneziani.
^ Muratori, Annali , VII. Alberìcus monacus triuni fontium, in Script, rerum frane, t. XXI, 623 so-g-. Huillard-
Bréholles , ib. Introduction cdlxsxvu.
* Muratori, Annali, VII, 241.
^ Art de vérijier le3 dates , artic. Raimondo VII.
' Histoire generale de Langiiedoc, IH, preuves 329 sgg.
" Art. de vérijier les dates, ibid. •■
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del 1239, Federico gli scrive ringraziandolo dell'essere con Ini e contro la Chiesa, '
nell' anno dell' assedio di Faenza lo esorta a marciare contro il conte di Provenza,
Berengario IV, messo al bando dell'Impero, e Raimondo va con le sue truppe
per impadronirsi della Provenza. ' Sennonché al principio del 1241 Raimondo avea
cambiato parere, ^ e nel marzo scrive a papa Gregorio ch'egli è deciso ad aiutarlo
contro Federico. * Ugo finisce coli' ammonire il conte che non abbia un' altra volta
a soffrire la signoria di un altro. E questi era il re di Francia: Raimondo, dopo
il trattato di pace il 1229, era stato sei settimane prigione nel Louvre. '
E il trovatore si volge al re di Francia; v. 25 sgg. Dopo che Filippo Augusto
ricuperò in Francia tutti i dominj dei re d'Ingliil terra, questi tentarono più volte
di rifarsi. Ed Enrico III il 1231 dovè tornarsene inglorioso da un'impresa fallita
per ricuperare la Brettagna e gli altri dominj continentali , e fu costretto alla pace
da Luigi IX. " Ora Enrico III, la cui sorella Isabella era sposata a Federico II e
mori nel decembre del 1241, era ben naturale che dovesse sperare appoggio in Fe-
derico, che essendo nemico del papa, lo sarebbe dovuto essere anche del re di Fran-
cia. Certo è ohe nel 1238 egli mandò in Italia un buon numero di soldati con Enrico
di Trubeville per aiiitare Federico contro le città lombarde. ' Dall'altra parte il re
di Francia non corrispose alle speranze del papa, che vedeva in lui , come già ne' suoi
predecessori, il suo difensore. Né saran mancate insinuazioni e pressioni di ogni
sorta per scuotere quell'animo retto di Luigi IX, e muoverlo a sostenere una causa,
dove gì' interessi della curia romana erano tutto. Ma se la promessa di cui parla Ugo
di Sain Circ sia stata realmente fatta balenare ad Enrico III da Federico, o se fosse
soltanto una manovra di papa Gregorio, noi non sappiamo. Quel che si sa di sicuro
è che appunto durante l' assedio di Faenza ha luogo da parte di Gregorio IX l' of-
ferta della corona imperiale a Roberto d'Artois, fratello di re Luigi. '
La conclusione che Ugo tira da' suoi ammonimenti è che la Francia debba aiu-
tare la Chiesa contro Federico e tutte due sostenere i Milanesi e il signor Alberic
que tolc qite lai passatz non es. Qui si accenna ad Alberico da Romano, e all'ultima
campagna di Federico contro i Milanesi sullo scorcio del 1239. Già dal mese di
maggio di quest'anno Alberico si staccò dal fratello Ezzelino e prese le armi contro
Federico, e avea occi^pato Treviso imprigionando i fautori dell'imperatore, tra cui
la moglie del podestà Jacopo de Morra, pugliese, che era fuggito a stento ; e rendendo
vano l'assedio che vi pose Federico subito dopo." Di ciò fu lietissimo il papa, e si
' Huillard-BiL-hoUes, 1. e. V, 405.
■ Histoire generale de Languedoc, IH, 420.
^ Hìsloire gcnér. d. Lang., iXL, 42.3.
' Huillard-Brèholles, I. e, V, 1101.
^ Art. de vé.rifier les dates , ibid.
' Matthaeu» Paria , in lìer. Britaun. Script., voi. II.
• Matthaeus Paris, Ilistoria Anglorum, 1» ediz. London 1571, pag. 413.
" HuiUard-BróhoUes, 1. e. Introduction , eoe sg. Soliirrmacher , 1. o. 171 sgg.
' Kolandino, in Muratori, /f. /. S. Vili, 223; Eicoardo di S. Germano, Muratori. R. I. S. VII, 1042. Il Mo-
naco padovano. Muratori, ib., Vili, 678. E ofr. Veroi, .Storia degli jEccelini, li. 178 sg.; e Mmatori, Annali VII,
247 sg.
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affrettò a scrivergli, il 7 giugno, per tributargli grandissime lodi: continuò poi a
scrivergli sempre, scorgendo in lui il principale suo sostegno nella Marca. ' Che Al-
berico pigliasse parte coi Milanesi e col cardinale Gregorio di Montelongo nella
successiva campagna, che si distingue per l'inondazione del Lodigiano, operata col
far scorrere le acque del Lambro nell'Adda, ' non ci è attestato da nessmi cronista,
per quanto io sappia. Ma niente mi par più probabile. Che anzi, subito al princi-
pio del '40 troviamo Alberico col cardinale di Montelongo all'assedio di Ferrara. ' Lo
proverebbe anche la grande ira che mostrò sempre l'imperatore contro di lui, il
proditor noster; e un anno dopo, il 13 settembre. Federico scrivendo al re d'Inghil-
terra si lamentava che il papa avesse invitato al concilio per la pace il suo tradi-
tore Alberico. ' L' imperatore dopo essersi presa la soddisfazione di devastare alcune
località presso Milano, dovette retrocedere, e andò a Pisa.' Cosi adunque ci appare
giustificato quel che Ugo dice al principio della strofa seguente, ch'egli sarebbe
passato oltre se ne avesse avuto il potere.
Quando Federico riprese le ostilità, si rivolse alle Romagne, e assediò prima
Ravenna e poi Faenza. Ed animato dal buon risultato della campagna del '39 e dalla
valida resistenza di Faenza, Ugo esclama: « la Chiesa e il Re di Francia provve-
dano, mandino la crociata, ed andiamo là in Puglia a conquistare il regno, perchè
chi non crede in Dio non deve tener terra!» La crociata! Già papa Gregorio l'avea
proclamata nelle vie di Roma il 22 febbraio del 1240, e poi l'aveva annunziata per
tutta Italia ed Europa, e vi lavorava " con tiitto il fuoco che bolliva nella sua anima,
non accasciata da circa un secolo di vita!
Degli ultimi due versi Ugo si serve per dire che Fiandre né Savoia non devono
sostenere Federico, tanto deve loro rincrescere dell'eletto di Valensa! Questi era
Guglielmo I di Savoja, fratello del conte Amedeo, e di Tommaso di Savoja, conte
delle Fiandre per aver sposata, il 1237, Giovanna di Fiandra, che mori nel principio
del 1245. ' La storia degli ultimi due anni di Guglielmo I ci è arrivata sparsa in
cronache di paesi diversi , quindi ha bisogno di una vera ricostruzione. Guglielmo I
nel giugno del 1238 fu eletto vescovo di Valensa, ' l'antica Valentia alla riva sini-
stra del Rodano ; non chiese la consecrazione , ma fu e volle soltanto essere detto, ciò
che lo distingue da' suoi consanguinei successori nel vescovato di Valensa,'' l'uno
Bonifacio di Savoja, che fu solo administrator episcopatus, ed electus di Belluy, poscia
trasferito a Canterbury, l'altro Filippo di Savoja, che fu procurator, ma nel 1267
lasciò la cattedra, si ammogliò e successe nel 1278 nella contea di Savoja a Pietro
' Huillard-BréhoUes, 1. e. V, 317 e nota; cfr. pure Verci, 1. o. 183 sg.
' Schirrmacliar, 1. e. Ili, 147 sgff.
' Muratori , Annali VII.
' Huillard-Bréhclles , 1. e. V, 10B7.
* Galvano Fiamma, ax). Muratori, Annali VII; e Schirrmacher , 1. e.
' Muratori, Annali Vn, 251. Huillard-BrélioUes, 1. e. voi. V, lettera del papa della fine di febbraio 1240.
' AH de vérifler les date», artic. Jeanne de Fiandre s.
** Gallia Christiana^ t. XVI.
' Gama, Series episcoporum ecclesiae catholicaCj Ratisbouae, 1876; artic. V alene e.
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detto il piccolo Carlomagno- ' G-nglielmo I era un uomo bellicoso, sanguir/no come lo
chiamavano i monaci di Wincliester. ' Era amatissimo da Enrico III d'Ingliilterra,
tanto da suscitare la gelosia de' magnati; e nel 1238 egli seguì in Italia Enrico di
Trubexdlle co' soldati inglesi. ' Venne in Italia e si accostò a Federico : nel settembre
del '38 egli è con l'imperatore all'assedio di Brescia, ' e nel novembre in Cremona,
dove si fa dare dii-itti di sovranità immediata sopra i sudditi di Valensa. ' E presso
Cremona egli voUe dar prova all' imperatore del come gli stesse in mano meglio la
spada che il pastorale, battendo, in unione col marchese Lanza, i Piacentini, e fa-
cendo molti cavalieri e fanti prigioni, che portò in Cremona. ' Sennonché accomo-
date le sue faccende, con Cesai'e, il furbo Guglielmo va nell'anno seguente dal papa,
presso cui si era fatto dare da San Luigi l'incarico di trattare la pace tra la Chiesa
e l'imperatore; ' e Federico medesimo, voglioso com'era di nn accomodamento, gliene
dovette^ dare anch'agli speciale incarico. Invece l'eletto di Valensa tratta altre fac-
cende col papa, e gli si offre di capitanare iin esercito contro l' imperatore, '^ in cam-
bio dell'elezione al vescovato di Liegi e della procura del vescovato di Winchester:
« ut in episcopatum Leodiensem eligeretur electus manens Valentinus et episcopa-
tum Wintoniensem optineret ut procurator, manens electus Leodiensis » dice Matteo
Paris. " Ottenuto ciò, si accinse a tornare; ma il 3 ottobre del 1239 morì presso Vi-
terbo, e corse voce che fosse stato avvelenato. La colpa si fé' cadere sopra un povero
maestro Lorenzo di San Martino, amico di Guglielmo, e che non dovette far molto
per scolparsi ; '" ma quanto sarebbe stato più giusto il cercarla nella fazione parti-
giana di Federico, irritata dalla condotta che il vescovo avea tenuto negli ultimi
mesi, e dal tradimento patente! La notizia di questa morte scosse Enrico III, ne
meno i due fratelli Amedeo e Tommaso. Amedeo avea fatte festosissime accoglienze
a Federico il 1238, quando qiiesti passava per Torino tornando dalla Germania:
l'imperatore ne fu compiaciuto al segno che eresse in ducato il paese da Chablais
ad Aosta. Tommaso al contrario era nemico di Federico, e verso la metà del 1240
rinunziò a continuare una lotta in citì avea sacrificato tanto del suo; e a ciò lo
spinse anche il dolore della morte del fratello Guglielmo. " Ma se Ugo poteva temere
che Amedeo soccorresse Federico, non pare che avesse potuto aver tali timori an-
che per Tommaso, aperto nemico. Pure negli ultimi mesi del 1240, durante l'assedio
di Faenza può esser successo qualche cosa che noi non sappiamo, devono esserci
stati de' sospetti che anche il fratello di Amedeo in fine, dopo aver cessate le osti-
' Art de vérijier les daics , ili, artic. Philippe do Savoye.
• Matthacus Paiis, 1. e. 2" odiz. Londra IMO, p. 473. Mi si perdoni 1' aver citato questa storia dii dirt'erenti
edizioni. Come la cosa sia successa, è inutile il dirlo.
' Mat.tliaeus Paris, 1. e, 1» ediz. pag. 397 sg.
' QaUia Chrialitma, ib. HuilIard-BrélaoUe.s, 1. e. V, 232, 235.
' Gallia Christiana, ib. Huillard-BréhoUes, V, 247, 261 sg.
' Amai, Piacerli. Gibei., ib., pag. 153.
' Chronicon Aiberici mott, irium foniimn , ib. pag. 623.
' Matthaeus Paris, 1° ediz. pag. 413.
» In Rer. Brilati. Script. II, 427.
'" Ibid.
" Matthaeus Paris, 1* ediz. pag. 47;t.
- 249 -
lità, potesse anche mettersi dalla parte di Federico. Ugo di Sain Gire rammenta ad
entrambi la morte del congiunto, e questo deve bastare, secondo lui, perchè né
Fiandre né Savoja ajutino il cattivo soggetto.
Cosi siamo arrivati alla fine del serventese. Secondo tutte le probabilità, esso
cade precisamente tra la fine del 1240 e il principio dell' anno seguente, forse non
oltre il febbraio, quando Faenza si sosteneva già da im pezzo, rinchiusa nella città
di legno che Federico neU' ottobre le avea fatta costruire all' intorno; ' Raimondo VII
non avea ancora apertamente lasciato Federico, ciò che fece il primo di marzo;
e Tommaso di Savoja avea smesse da qualche tempo le ostilità. E se è permesso di
circoscrivere ancor più questa data, noi pensiamo che il serventese fu scritto nel
novembre del l'240, quando inclinando i difensori di Faenza alla resa, da ogni
parte s' insinuavano ihessaggi del papa, sotto le spoglie di monaci questuanti, inco-
raggiandoli alla resistenza; ciò che conseguirono pienamente. ' E supporre che an-
che il serventese di Ugo sia penetrato ad infiammare gli animi degli assediati, è fare
semplicemente una probabile congettura.
Il serventese trovasi nella prima parte del codice estense , D (segnatura Bartsch),
e in due codici parigini (secondo Bartsch, Grundriss, 457, 42). Il Millot ne dette una
versione, di cui si giovò il Diez non conoscendone alcun testo quando pubblicò
Le vite e le opere de trovatori. Il Raynouard, Lexique Roman, I, 417, lo pubblicò la
prima volta; e questo testo riprodusse il Mahn, Wm-ke der Trouhadours, II, 151. Noi
lo ripubblichiamo, giovandoci principalmente della lezione dell'estense.' ■
Riguardo alla sua fattura, esso si compone di sei strofe monorime di otto versi
e di altri due versi di congedo. Le strofe sono le così dette coblas capfinidas, ognuna
cioè comincia con l'ultima parola della strofa precedente: su di ciò vedi Bartsch,
in Jahrhich fiir romanisclis und englische Literatur, I, 181. I versi sono dodecasillabi,
alessandrini, con la solita cesura, qualche volta femminile, al mezzo: metro piuttosto
frequente nei serventesi e nelle coble di questo periodo, per quanto scarso era prima.
E detto nel primo verso che il serventese è fatto en aquest son d'cn Già: si tratta
di una poesia di Grui de Cavaillon. Tra le poche poesie pervenuteci di questo tro-
vatore, abbiamo una tenzone con Peire Bremon. Questi dice: Un vers voil co-
mensar el son de ser Giti, Pos Guis ina dit mal eu lo dirai attressi; e G-ui risponde:
Ben avetz auzit quen Eicas Novas ditz de mi; Herrig, Ardi. 34, 410 sg. Tra le poesie
di Grui deve essercene "dunque stata una, non pervenutaci, nel medesimo metro di
queste, ' e monorime come esse, da cui Peire Bremon avrebbe preso occasione al
' Schii'rmacher , 1. e. pag. 169.
" Scliirrmacher , 1. e. pag. 170.
' Ci è stata fornita, insieme ad altre cose inedite dell'estense, dalla gentilezza del signor Giuseppe Van-
delli, modenese, alunno deU' Istituto fiorentino di Studi Superiori. Gliene rendiamo grazie sentite.
* Veramente la lezione dei versi qui citati è corrotta, cosicché l'alessandrino non si vede più; i versi se-
guenti però sono di misura giusta; cosi il terzo verso della prima cobla, Qii'en son alberc raubet Eaimon de Saint
Marti, ecc. Più innanzi diciamo che queste coble son di quattordici versi l'una; più esattamente, la prima è di
tredici; potrei da ciò lasciarmi ingannare, e dire che questa disuguaglianza nel numero de' versi in queste due
coble è a favor della mia ipotesi ; ma mi par molto probabile che sia caduto un verso nella prima; mentre, d'al-
tra parte, lo stato del testo della 2" è si deplorevole che non permette ci si fondi troppo.
— 250 —
suo vcrs. Nello stesso suono avrebbe Ugo di Saiu Ciro composto il suo serventese,
come ha osservato già il Bartsch. in una giunta alla seconda edizione della Poesie
dei- Troubadours del Diez, p. 75 sg. Non fa difficoltà a ciò che le coble di Peire
Bremon e di Gui siano di quattordici versi l'una, o che la poesia perduta potesse
avere più coble e ancor più lunghe. Ugo non ha preso che il suono, e ognuno di
questi versi lunghi sta da se. Si ricordi a questo proposito che Guglielmo di Tudela
fa la sua canzone degli Albigesi con lo stesso metro e nel suono, dice egli stesso,
della canzone di Antiochia; ma, com' è natixrale, il numero di versi di ciascuna serie
non ne è punto vincolato.
TJn sirventes vueill faire en aquest son d'en Gui,
Que farai a Faiensa mandar an Guillelmi,
Et al comte Gui Guerra en Miquel Moresi,
Et an Bemart de Fosc et a siqr Ugoli , ' 4
Et als autres que son lains de lor vesi;
E sapohan , com e' a lor de laintre esti ,
Quel sens, el uoms, el pretz, el laus e' om de lor di,
Los coronan d' cuor, sol fassan bona fi. 8
Bona fin deu ben far, e dieiis li deu far be,
Qui franquez' e dreitura e la gleisa mante
Con tra cel que non a en dieu ni en leis fé.
Ni vida apres mort ni paradis non ere: 12
E dis e' om es nienz despueis que pert 1' ale ;
E crueltaz 1' a tolta pietat o merce.
Ni tem laida faillida faire de nuilla re
E totz bons fatz deshonra e baiss' e deschapte. 16
Sii chaptel coms Raimons gart quen fassa son pron;
Qu'eu vi quel papal tolc Ai-gens' e Avignon,
E Nemz'e Carpentras, Vennasqu'e Cavaillon,
Uzetge e Melguer, Rodes e Boazon, 20
Tolzan et Agenes e Caortz e Gordon ,
En mori sos coingnatz, lo bons reis d'Arragon;
E s'el torn'a la preza per aitai ocaizon,
Encar l'er a portar el man l'altrui falcon. 24
VARIANTI.
1 li vuelh, JJ vuoili. JJ a(iuBs. — -^ D affiiienza, B a falhensa. Jl Guillami. — i J) , li Morezi. — 5 li layns.
n dol. J3, ti, f esi — 6/1; cum , D con. I) , li caler. 1) del. — TKcì laus | manca el. R qu'. — 8 li corona. — 9 li iì. ~
10 D Que. R franqueza et. f> glioiza, li gleyza. — 11 D deu. — IS D dea puoie, ij depueis. — 15 li layda. li fayre.
11 nulla. — 16 D toz. li boa. Il faitz dosonra. li e manca, li baysa. Il desoapte. — 17 jB Beimons. Il qu'en. D fassan.
Il prò. — 18 li Qu'ieu. Il Avinho. - li) J) manca per intero. Il Cavalho. — 20 li Boazo. — 21 II Caors. li Guordo,
— I) coingnaz, R coynhatz. D bon. li Arago. — 23 iì torna. R ocliiazo. — 24 D lor. Il autrui. R falco.
— 251 —
Lo falcons, fils de l'aigla, qiiez es reis dels Franses,
Sapcha que Frederics a promes als Engles
Qu'el lor rendra Bretaingna, Anjou e Toarces,
E Peitau e Saintonje, Limonge et Engolmes, 28
Toroinn' e Normandia e Gruien' el Paes
E venjara Tolzau, Bezers e Carcasses:
Doncs besoingna qua Fransa manteingna Milanes
E nAlbaric, que tolc quo lai passatz non es. 32
Passatz lai fora ben s'el n'agues lo poder ;
Qtie de ren als non a desirier ni voler
Mas com Trans' e la gleisa el pogues decazer,
E la soa crezensa e sa lei far tener; 3<i
Doncs la gleisa el reis i devon pervezer,
Queus manden la crozada ens veingnan mantener:
Et anem lai eu Poilla lo regne conquerer,
Car cel qu'en dieu non ere non deu terra tener. 40
Gres Flaudres ni Sayoia noi devon mantener,
Tant Ipr deii de l'eleg de Valensa doler. 42
VARIANTI.
25 R fai 003. E que. B reys. — 26 E Fredericx. — 27/2 Bretanha. D aniou. — 23 R Peytau. D santonie, R
SajTQtonge. R Lemotges. i? et] manca. — 29 D Totoinne, E Tolonj'. R Gniana e'I. - 30 D besers. D Caroassers.
— 31 R besonh a. D Franzia. R mantenlia. — 32 72 E'N. R lay. — 33 ii s'ilh. — 34 X> dezerier — 35 R cum. D franpe.
Il resto del verso e tutto il 3(; manca in D. R gleysa. — 36 ij ley. = 37 E don. X) glieza. R reys y denhon, D de-
vom. — 38R mandon. E venlian. — 39 R Polla. — iO E selh, D sei. = il E Savoya. D d'avom, E denhon. = 42 R
Tan. R Del elieg. D ualenza.
- 252
ANNOTAZIONI AL SERVENTESE.
2. Faiensa, Faenza. L'i mediano sta qui a togliere l'iato prodottosi dalla scomparsa di -v-. Il
francese fattnce, majolica è in origine Faenza, e ci conserva dunque questo i. Pure in Donatz proen-
sals, ed. Stengel, 52, % faenlis, faventinus.
4. Sier, titolo s"pecialmente de' notai, com'è noto; ma che si trova anche dato ad altri, come:
« un mercadier de Genoa que ao nom sier Amfos » (biograf. di Folchetto di Marsiglia) ; « sier Peire
de Fraisse, vuelh jutje notre dig. » (G-muAnT Eiquiee Aras s'esfors) ; tutti e due, insieme al nostro, ci-
tati dallo Stimming, Bert. d. Barn, nota a poesia 4. Può aggiungersi: « un vers vuelh comensar el son
de ser Gui. » (Peire Brkmok). In una colla inedita di Ugo di Sain Ciro, Antan feti colla d'una hordeliera,
Amerigo di Pegulhan è chiamato Sei- Aimeric. Non pare un notajo il ser ArdiQons (Albric [da Romano])
in Suchier, Denkmaler I, 320. Lo Stimming, 1. e. ha pure «lo sier Salamos que tant fon sapiens »,
Peihe de Gorbiac , Trtsor, 386; ma questa lezione è giustamente, sospetta al prof. Tobler, anche per la
ran-ione che è strano vedere quel titolo di siec i:ireceduto dall' articolo; sarà da leggere lo reis Salamos,
come vuole il Tobler.
5. vesi, vicini. Contrariamente al sibillino /est che leggono 1' estense o il Raynouard, noi abbiamo
adottato vesi; congettura che per motivi paleografici avevamo respinta appena ci venne in pensiero, ma
che poi abbiamo finalmente adottata sentendocela proporre dal prof. TobleS. Il verso va dunque inter-
pretato: « ed agli altri che son loro vicini là dentro ». Non si dimentichi che Ugo parla a' difensori ac-
corsi in aiuto di Faenza; dunque, que' che sono accanto a loro, l'i dentro.
8. sol fassan, sol que f., cfr. it. sol che, e Diez, Gr. III, 358.
10. franqueza; potrebbe intendersi franchigia, libertà, come inBartsch, Ohr. * 99,37; e così dreitura
per giustizia, Donatz proensals, ed. Stengel 6, 15. Ma qui Ugo loda lo spirito cavalleresco de' difensori
di Faenza, e secondo l'uso generale intenderemo /ranguezo, lealtà, generosità, (cfr. franca , curialis ,
Donatz proens. 3, 35), e dreitura, rettitudine. È a proposito il seguente esempio iaX planh di Daspol
perS.Luigi, P. Meyer, Les derniers troubadours , in Bibl. d. fècole d. Chart., XXX, 285: «Quel era francs
e fis et amoros, E lials reys e drechuriers e pros.» Insomma, franqueza e dreitura non sono ideali sociali
qui, ma qualità cavalleresche. — E così quest' unione « qui franqueza e dreitura e la gleisa mante »
ricorda Aimeric de Pegulhan, Mahn, Ged. 83: «Lo pros Gugliems Malespina soste Don e dompnei e
cortesia e me. »
15. faillida; falhir, delinquere in Donatz proens. 37, 11 e 53, 21.
16. coma Raimons. Anche Sordello accenna alle perdite di Raimondo VII nel planh per Blaeatz:
« al conte di Tolosa è uopo ben ne mangi, se gli sovviene ciò che possedette di già e ciò che possiede ! »
18. quel jiapal tolc. Similmente, Gui de Cavalho nella tenzone con Raimondo VII gli domanda
s' egli aspetta le grazie del papa o vuol riconquistare da so i dominj perduti ; Herrig, ArcUiv 34, 407. —
Argens'', « Argence, dipart. Calvados, arrondis. Caeu, » Raimondo nel 31 Maggio 1241, dopo cioè che
fa scritto il serventese , riceve l' investitura della terra di Argence, cfr. Hist. gén. de Languedoc III, 425.
19. Nemz', cioè Nemze, fr. Nìmes , Nismes , lat. Nemausws, dipart. del Gard. Nel 1229 si sottomise
al re di Francia e non tornò più al conte di Tolosa, cfr. Hist. gén. d. Langu. Ili, 355. — Oarpentras,
dipart. di Valchiusa, fa omaggio a Raimondo il 15 Maggio 1239; Hist. gén. d. Langu. Ili, 339 sg. — Vcn-
nasque. Quando Innocenzo III assegnale terre a Simon de Monfort nel concilio latei-anense del 1215,
gli dà dal Rodano sino al Porto. P. Meyer, in Chanson d. 1. oroisade eontre les Albigeois, voi. II, 182,
n., domanda se il Porto è Saint-J'ean-Pied-de-Port ovvero il Port de Venasque. Contribuirebbe la no-
stra poesia a risolvere il dubbio? — Cavaillon, dipart. di Valchiusa, avrondiss. Avignone; apparteneva
alla contea di Venaissin, quindi segui la sorte di Carpentras.
20. Uzetge, Uzès (Ocetia) , dipart. del Gard, riunita alla corona di Francia nel trattato del 1229;
Hist. gén. d. Langu. Ili, 375. — Melguer 1. raed. Melgorias , fr. Melgueil, l'ipresa da Raimondo VII il
1223; Hist. gén. de Langu. 111,334. — Rodes, dipart. Aveyron (già prov. Rouergue) , riacquistata da
Raimondo il 1228; Hist. gén. d. lang. Ili, 369. — Boazon, Boissezon, lat. med. Boisazone, castellò nel-
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l'Albigese, proso nel Maggio del 1221; Hist. <jén. ci. Langu. Ili, j^rcwi'cs IH. Non conosco altro passo di
autore provenzale in cui trovisi la forma Boazo, che di regola è Boisazo, Bosazo; e forse dunque